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Un Momento...c'è di più

              

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Mente Generalmente intesa come il complesso delle facoltà (capacità) intellettive, percettive, mnemoniche, intuitive e volitive dell'uomo, spesso in contrapposizione a corpo e cuore

In psicologia e filosofia assume anche il senso di coscienza di sé e dei propri atti e di sede delle facoltà cognitive.

La filosofia della mente studia questo complesso di facoltà nelle sue proprietà, e in particolare nel rapporto che hanno con il corpo.

Nell'ambito del cognitivismo (uno dei più importanti movimenti della psicologia sperimentale contemporanea) è stato messo a punto un modello della mente umana come elaboratrice attiva delle informazioni che le giungono dagli organi sensoriali, in analogia con i servomeccanismi di tipo cibernetico (ossia dell'intelligenza artificiale). 

Da qui l'introduzione in psicologia di un linguaggio inedito, che parla di input (entrata) e output (uscita) al posto di stimolo e risposta (vedi anche fase del processo mentale), mettendo l'accento sulla capacità della mente di compiere scelte fra gli elementi in entrata, di elaborare i dati selezionati, compiendo su di essi una serie di trasformazione, di raggiungere decisioni dipendenti dall'elaborazione compiuta e non predeterminate in partenza dagli stimoli.

 

Memoria

In psicologia, il processo psichico attraverso cui ciò che è stato appreso viene immagazzinato e successivamente rievocato. 

Presuppone non solo la riproduzione dell'esperienza (che si ha pure nelle abitudini consolidate dall'apprendimento, rilevabili già nei più semplici organismi animali) ma anche il riconoscimento di tale esperienza come passata.

L'orientamento costruttivista ha sottolineato come la memoria non sia una registrazione passiva: i dati vengono selezionati, integrati, organizzati. 

Il cognitivismo ha assunto la memoria come specifico oggetto di studio e ha proposto la distinzione tra: 

  • memoria sensoriale, immediata (che registra le informazioni provenienti dai sistemi sensoriali, in presenza di stimoli esterni), 

  • memoria a breve termine (che trattiene più a lungo, fino a qualche minuto, l'informazione - pervenuta dai sensi e confrontata, nel processo di riconoscimento percettivo, con l'insieme delle conoscenze già possedute dal soggetto), 

  • memoria a lungo termine (che conserva a lungo, e forse per sempre, le informazioni).

Quest'ultima si distingue ulteriormente in:

  • memoria episodica (che organizza soprattutto i dati autobiografici),

  • memoria semantica (meno vincolata ai contesti spazio-temporali, più concettuale e logica).

 

Messaggio

Per la linguistica è l'insieme di informazioni e di segnali che viene tradotto in un determinato codice (verbale o d'altro tipo) e trasmesso attraverso opportuni canali. 

Nella teoria della comunicazione e nella semiotica è più precisamente la sequenza di simboli scelti dall'alfabeto di un codice e ordinati secondo la grammatica dello stesso codice.

Può essere analizzato secondo due piani: quello dell'espressione e quello del contenuto.

 

Metodo

Generalmente inteso come l'insieme di prescrizioni relative allo svolgimento di un'attività in modo ottimale.

Nella sua generalità d'uso il termine può quindi più indicare:

  • il modo, la via, il procedimento seguito nello svolgere una qualsiasi attività, secondo un ordine e un piano prestabiliti in vista del fine che si intende raggiungere (metodo di studio, metodo di indagine, ecc.)

  • l'ordine e la regolarità costante con cui si procede in un'attività (studiare con metodo, avere o non avere metodo, ecc.)

  • (con accezione più specifica) il sistema di norme per l'insegnamento, per  l'educazione (metodo Feuerstein, metodo Montessori, ecc.)

  • (in riferimento a specifici ambiti culturali, e in particolare alla filosofia e alla scienza) il procedimento d'indagine che, attraverso un insieme di regole e di tecniche, di istanze di verifica e di controllo, garantisce la verità o almeno la plausibilità dei risultati.

Storicamente, il termine risulta legato soprattutto a quest'ultima accezione, e cioè al problema dell'acquisizione della certezza in campo conoscitivo.

Oggi il problema metodologico risulta fondamentale per tutte le discipline scientifiche: ciascuna di esse, se vuole appunto essere scienza (e cioè sapere rigoroso, strettamente coerente con le proprie premesse e che accetta solo ciò che può dimostrare), deve fissare il proprio oggetto di studio e stabilire il proprio metodo d'indagine.

Ma tale problema è già chiaramente rintracciabile nella filosofia antica.

Nei dialoghi platonici, Socrate appare pienamente consapevole del rapporto tra la validità di una conoscenza e il modo in cui essa viene raggiunta.

Sia il metodo maieutico di Socrate che il metodo dialettico di Platone sono procedure volte a evitare l'errore nell'analisi dei concetti; specialmente quella forma di errore che consiste nell'accettazione tacita di pregiudizi. 

In Platone si hanno anche istruzioni positive, volte ad assicurare una corretta analisi dei concetti.

Da allora, un metodo consta solitamente di due tipi di prescrizioni: 

  • negative, ossia intese a evitare l'errore, 

  • positive, finalizzate alla costruzione della conoscenza.

Un altro momento di riflessione sul metodo che ha lasciato segno nella nostra mentalità è legato a Cartesio e il suo Discorso sul metodo (per ben condurre la propria ragione e cercare la verità nelle scienze), pubblicato nel 1637.

In quest'opera Cartesio sottolinea la necessità del metodo per la feconda utilizzazione della facoltà di distinguere il vero dal falso (propria di tutti gli uomini), e si dice in cerca di un nuovo metodo, che permetta di fondare una scienza certa e sistematica.

"Per metodo intendo delle regole crete e facili osservando le quali fedelmente non si supporrà mai come vero ciò che è falso, e senza inutili sforzi da parte della mente, ma con graduale continuo progresso da parte della scienza, si perverrà alla vera conoscenza di tutte le cose di cui si è capaci".

Le regole di questo nuovo metodo proposto da Cartesio sono:

  • l'evidenza, cioè il non accettare nulla che non possa essere colto con chiarezza e distinzione come vero (accettare solo le idee chiare e distinte)

  • l'analisi, cioè la scomposizione di tutti i problemi in parti sufficientemente semplici;

  • la sintesi, cioè il passaggio graduale da idee semplici a idee più complesse,

  • l'enumerazione, cioè l'esecuzione di classificazioni complete (enumerare significa per Cartesio ripercorrere tutti i singoli passaggi svolti, controllando la sufficienza tanto dell'analisi che della sintesi).

Sono numerosi gli echi di questa impostazione che si trovano nell'analisi del funzionamento cognitivo condotta da Feuerstein e nel metodo da lui proposto. Si pensi per esempio all'importanza che viene attribuita alla sistematicità (l'esplorazione sistematica compare tra le funzioni cognitive fondamentali), al bisogno di evidenza logica e a quello di precisione e di accuratezza (non tralasciare nulla, sia nel momento dell'analisi che in quello della sintesi).

 

Va infine ricordato che nella nostra tradizione culturale hanno avuto grandissima importanza due tipi di metodo:

  • il metodo geometrico (deduttivo, in quanto insegna a procedere da assiomi e definizioni alla deduzione di teoremi);

  • il metodo sperimentale (induttivo, in quanto a partire dall'osservazione dei fenomeni formula ipotesi che devono essere verificate mediante l'esperienza).

Con l'espressione metodo "ipotetico-deduttivo" alcuni studiosi hanno inteso sottolineare le caratteristiche comuni ai due metodi (in particolare, l'assunzione di ipotesi e la derivazione da queste di conseguenze logiche).

In epoca contemporanea entrambi i metodi non sono stati però accettati pacificamente nella loro pretesa di garantire la certezza della conoscenza e sono anzi stati sottoposti a serrata discussione (da pensatori quali Hilbert - per il metodo geometrico - e Popper, Lakatos e Feyerabend - per il metodo sperimentale).

 

Metodologia

Lo studio del metodo su cui deve essere fondata una determinata scienza o disciplina, e anche il complesso dei fondamenti teorici e filosofici sui quali un metodo è costruito.

 

Motivazione

"In generale, è il processo che avvia, mantiene e regola un'attività orientata (verso uno scopo più o meno coscientemente perseguito). In senso pedagogico specifico, la presentazione di un contenuto di studio o di un modello di condotta atta a sollecitare l'interesse e a sostenere un impegno volenteroso nell'alunno. 

Poiché la vita di relazione presuppone la vita vegetativa, è naturale che le motivazioni più elementari del comportamento riguardino la soddisfazione di bisogni fisiologici, avvertiti soggettivamente come stati di disagio da rimuovere; alle motivazioni dirette di tal genere, prevalentemente innate e corrispondenti agli istinti animali, se ne aggiungono altre indirette e acquisite, nella misura in cui l'esperienza insegna l'uso di certi mezzi per conseguire certi fini; nell'uomo agiscono inoltre tendenze esplorative, euristiche, conoscitive indipendenti dalle pulsioni primitive, come la pura curiosità teoretica ("fatti non foste per viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza"); e ancora tendenze sociali, come quella dell'affiliazione, o accettazione e protezione, quella del potere o del comando, quella della riuscita o dell'affermazione, della stima e del prestigio; infine tendenze ideali ai valori estetici, etici, religiosi" (Di Mauro, Nuove Metodologie per la formazione, l'integrazione e lo sviluppo della persona).

 

O

Operazione

Complesso, serie di atti coordinati tra loro e diretti a un fine.

Lo psicologo svizzero Piaget (1896-1980) - maestro di Feuerstein - usa il termine "operazione" per indicare un "sistema di azioni interiorizzate, mentali".

 

Operazioni mentali

Vedi pagina precedente 

Ne proponiamo la seguente lista, non esaustiva:

 

Organizzazione

L'attività volta a dare una struttura ordinata a qualcosa, mettendo i vari elementi (componenti) in relazione fra loro - in base a criteri e/o in funzione di uno scopo - ed anche l'insieme ben ordinato o sistema che ne risulta.

 

P

Particolare

(contrapposto a generale, universale) Ciò che è proprio di un singolo individuo, di una singola cosa, o di una determinata categoria di individui, di cose.

 

Pensiero

Facoltà del pensare, attività psichica consistente nel riflettere (considerare con attenzione, soppesare), nel meditare (soffermare a lungo e con intensa concentrazione la mente sopra un oggetto del pensiero, un problema), nel rievocare nella propria  mente, nel fare supposizioni e previsioni. 

In ambito filosofico e psicologico, si distinguono vari tipi di pensiero: 

  • il pensiero razionale, caratterizzato da procedimenti di tipo deduttivo e induttivo;

  • il pensiero intuitivo, che procede in maniera non sequenziale e non segue le regole della necessità logica;

  • il pensiero ipotetico, che si basa su premesse ipotetiche e ne trae conseguenze logiche; 

  • il pensiero creativo, che tende a escogitare nuove forme, nuove soluzioni; 

  • il pensiero divergente, che di fronte a una situazione problematica riesce a formulare non una sola ipotesi (la più evidente, o scontata, quella verso cui la maggioranza delle persone converge), ma svariate e diverse ipotesi che permettono di giungere alla soluzione (a sua volta, non necessariamente unica). Per un approfondimento relativo a questo tipo di pensiero, consulta la sezione "divergiamo insieme" di questo sito.

Una classificazione particolare dei vari tipi di pensiero si trova nell'epistemologia genetica di Piaget, disciplina che mira a spiegare i processi cognitivi umani opponendosi alla tradizionale separazione tra logica e psicologia, nella convinzione che solo dalla sistematica collaborazione di queste due scienze possa derivare la comprensione delle espressioni più evolute del pensiero.

Tale comprensione richiede la ricostruzione dello sviluppo cognitivo dell'individuo, nell'ambito del quale Piaget distingue tre diverse forme di attività (corrispondenti a quattro diversi livelli di sviluppo):

  • l'attività senso-motoria, 

  • l'attività rappresentativa (a un livello ancora egocentrico

  • l'attività operatoria (distinta in operatoria concreta e operatoria formale). 

Il pensiero pre-operatorio, ossia il pensiero come attività rappresentativa (che utilizza le rappresentazioni di oggetti non presenti e di azioni non ancora effettivamente compiute), comparirebbe intorno ai 18 mesi, con il gioco simbolico (nel quale gli oggetti vengono usati come fossero altro da quel che sono).

Il pensiero operatorio, al suo stadio concreto (che - pur avendo ancora necessità di basarsi su dati di esperienza - rende possibile la coesistenza, a livello mentale, di due situazioni che nella realtà si escludono a vicenda al fine di ricavarne conclusioni logiche non direttamente osservabili nella realtà)  caratterizzerebbe invece la fase dello sviluppo compresa tra i 6-7 anni e i 14 circa.

Intorno ai 14 anni comparirebbe infine il pensiero operatorio formale: pensiero ipotetico-deduttivo, che permette di condurre ragionamenti logicamente corretti, non vincolati all'esperienza, e di far uso di nozioni come quella di infinito, di caso e di probabilità.

 

Percezione

Generalmente intesa come la funzione conoscitiva che comprende, unificandole e organizzandole, una molteplicità di sensazioni e le riferisce a un determinato oggetto, distinto dal soggetto che percepisce. 

Più precisamente, questa definizione riguarda la percezione esterna, da cui si può distinguere la percezione interiore, ossia dei propri stati interiori e del proprio corpo.

Vedi anche "atto percettivo" nella lista delle funzioni cognitive.

Va ricordato che esistono interpretazioni diverse della conoscenza percettiva; in particolare, quella fornita dall'associazionismo (legata a una visione empiristica e positivistica, e ampiamente recepita dai primi manuali di psicologia)  e quella - ad essa opposta - della Gestaltpsychologie o psicologia della forma (affermatasi all'inizio del Novecento e connessa a numerose correnti filosofiche del periodo, come la fenomenologia di Husserl, il pragmatismo di Peirce e James, lo spiritualismo evoluzionistico di Bergson).

Secondo l'associazionismo, la percezione nasce dalla sintesi di sensazioni particolari (elementi atomici), determinata da meccanismi psicologi.

Secondo la psicologia della forma, invece, questi elementi atomici non esistono: sono solo astrazioni artificiali e teoriche. La percezione è coscienza immediata di un tutto strutturato (in base a leggi interne al tutto).

 

Pertinenza

L'appartenere a qualcuno o qualcosa, e quindi il riguardare direttamente un determinato oggetto o una sfera concettuale. 

 

Pianificazione

Formulazione di un piano o programma, che permette di regolare, organizzare, progettare azioni, situazioni, esperienze.

Relativamente alla soluzione di un problema, la pianificazione consiste nel:

  • focalizzare l'obiettivo, 

  • scegliere una strategia per raggiungerlo, 

  • decidere il punto di partenza, 

  • individuare le regole secondo cui procedere, 

  • trovare modi per verificare il proprio operato sia in itinere - ossia strada facendo - che al termine del lavoro.

 

Potenza

(contrapposta ad atto) Attitudine di qualcosa a esistere, possibilità, e anche disposizione ad agire, facoltà.

Questa accezione del termine ha una precisa derivazione dalla filosofia aristotelico-scolastica.

 

Principio

Concetto, affermazione, enunciato che sta alla base di un ragionamento e che può costituire uno dei fondamenti di una teoria, di un particolare sistema, di una scienza o disciplina.

 

Processo

Ogni successione di fenomeni, di eventi che presenti una certa unità o si svolga in modo omogeneo e regolare, e in genere ogni aspetto della realtà in quanto sia l'espressione di un divenire.

L'uso di questo termine nel campo delle scienze umane (si parla di processi psichici, processi mentali, processi educativi, ecc.) è finalizzato proprio a indicare le caratteristiche dinamiche di un fenomeno, il suo "farsi" continuo, attraverso una successione di passi o fasi (non fortuita e accidentale bensì attuante un'intrinseca norma di sviluppo), piuttosto che la sua fissità in un "fatto" o in un prodotto compiuto.

 

Procedimento

Modo, metodo con cui si conduce un'operazione mentale, manuale, tecnica.

 

Procedura

Il complesso delle norme che si devono osservare nello svolgimento di un compito.

In informatica, la sequenza ordinata di operazioni da eseguire per raggiungere un determinato scopo.

 

R

Ragionamento

Qualsiasi procedimento intellettuale in cui una conclusione sia derivata da premesse in base a ragioni (argomenti). 

Quando queste ragioni sono regole logiche d'inferenza si parla più propriamente di argomentazione formale, o deduttiva, di dimostrazione

Ma nella maggior parte dei casi, nella vita quotidiana, le ragioni che sostengono un ragionamento sono di altro genere: principi di analogia (per cui possiamo parlare di ragionamento analogico, differenziandolo da quello logico in senso stretto), oppure regole d'inferenza statistica. In tutti questi casi, si parla di argomentazione informale, o semplicemente argomentazione

Un caso particolare è quello del ragionamento le cui premesse riguardano casi particolari (a è P, b è P, c è P....) e la cui conclusione è una generalizzazione su tutti i casi (tutto gli x sono P), ossia il ragionamento induttivo (che è propriamente un'argomentazione, non una dimostrazione).

 

Ragione

La facoltà di conoscere attraverso la parola e il discorso piuttosto che mediante l'intuizione. 

Nella tradizione filosofica, questa facoltà viene spesso contrapposta all' intelletto (per un approfondimento in merito, si veda la voce intelletto).

 

Rappresentazione

Indica sia l'atto mediante il quale la coscienza riproduce un oggetto esterno (per esempio una cosa) o un oggetto interno (uno stato d'animo o un'immagine fantastica), sia il contenuto stesso di tale operazione riproduttiva.

Con specifico riferimento al linguaggio della psicologia, la si può definire come ciò che la mente presenta a se stessa in sostituzione di qualcosa percepito in precedenza, e che costituisce il risultato di un processo percettivo e cognitivo caratterizzato da una relazione più o meno diretta o elaborata con lo stimolo percepito.

Nella nostra tradizione culturale, la rappresentazione è stata però interpretata in modi differenti, in particolare in rapporto alla sua relazione con il concetto. Per esempio:

Nel pensiero moderno si è anche posta la questione se vi sia o non vi sia corrispondenza tra rappresentazione (come fatto psichico interno) e realtà (come mondo esterno). 

La scuola fenomenologica, soprattutto (in opposizione alla psicologia associazionistica e sperimentale) indica nella rappresentazione un atto autonomo, in grado di dar senso ai dati sensoriali.

Secondo questo modo di vedere (fatto proprio anche dalla Gestaltpsychologie, o psicologia della forma, e da Sartre), la rappresentazione, a differenza della sensazione e della percezione, che esigono l'esistenza reale dell'oggetto, manifesta la libertà immaginativa e creativa dello spirito umano.

 

Regola

Prescrizione, norma che indica ciò che deve farsi in determinati casi.

 

Relazione

Connessione o legame che intercorre, in modo essenziale (indispensabile) o accidentale (casuale, legato a una particolare circostanza), tra due o più elementi.

L'espressione "relazioni virtuali" viene utilizzata da Feuerstein per designare quelle relazioni che non sono già in atto, nella realtà presente, ma che sono potenzialmente presenti: possono esistere nel momento in cui la mente le proietta su una realtà che in tal modo, da (apparentemente) priva di ordine, diviene organizzata. 

 

Riflessione

Generalmente intesa come l'azione di considerare pensando e ripensando con attenzione e scrupolo, o come la disposizione all'attenta considerazione.

In Aristotele e negli scolastici indicava qualcosa di più specifico: la conoscenza che l'intelletto ha di sé in quanto non soltanto conosce, ma anche sa di conoscere. 

Questa conoscenza di secondo livello, implicita in ogni atto dell'intelletto, diventa esplicita quando l'intelletto assume a oggetto se stesso (cioè quando - come oggi diremmo - passa da un'attività di tipo cognitivo, a una di tipo metacognitivo).

Nella filosofia moderna, Locke considera la riflessione o senso interno, come una delle fonti di tutte le nostre idee: attraverso la sensazione abbiamo le idee che ci vengono dall'esterno, con la riflessione abbiamo le idee delle nostre operazioni mentali (che egli intendeva come il percepire, il dubitare, il credere, il ragionare, il credere, il volere, il desiderare, ecc.).

Tra gli altri grandi pensatori che si sono occupati di questo tema, ricordiamo Kant, che distingue tra riflessione logica (ossia comparazione di molteplici rappresentazioni, per trovarne le note comuni o diverse) e riflessione trascendentale (ossia determinazione delle relazioni reciproche tra le cose, secondo quattro coppie di concetti:

  • identità/diversità, 

  • comunanza e opposizione, 

  • interno/esterno, 

  • materia/forma.

 

Rilevanza

Il fatto, la caratteristica di essere di notevole importanza riguardo un determinato oggetto o una sfera concettuale. 

Di tutti gli elementi pertinenti a quell'oggetto o a quella sfera concettuale, solo alcuni saranno anche rilevanti.

 

S

Segno

In linguistica, l'elemento significativo che costituisce l'unità base dell'espressione linguistica (sinonimo di simbolo). Presuppone un'interpretazione, che conferisca al segno un determinato significato.

Secondo la concezione di De Saussure (1857-1913), padre della linguistica, il segno è a sua volta costituito da due parti non separabili, il significante e il significato,  paragonabili alle due facce di un foglio di carta (per quanto si possa sezionare il foglio in fogli più sottili, questi avranno sempre due facce). 

La riflessione ingenua sull'argomento ritiene che il segno unifichi il nome e la cosa (intesa come l'elemento materiale, che quel nome nomina), ma Saussure precisa invece che il segno linguistico unifica l'immagine acustica (che non è il suono materiale - cosa puramente fisica - ma la traccia psichica di questo suono) e il concetto (elemento spirituale, astratto).

Per Saussure, il legame che unisce il significante e il significato è arbitrario (non caratterizzato da alcuna intrinseca necessità, tant'è vero che nelle diverse lingue si hanno significanti diversi per indicare lo stesso significato). 

Dunque lo stesso segno linguistico è arbitrario: non ha valore di per sé, ma acquista valore in rapporto al sistema di norme (o codice) all'interno del quale è inserito.

Saussure propone di conseguenza un'altra importante distinzione: quella tra parole e langue (nella quale convergono classiche distinzioni quali quella tra individuale e sociale, tra concreto e astratto): 

  • la langue (termine francese tradotto con "lingua") è il codice ("sistema grammaticale esistente virtualmetne in ciascun cervello o più esattamente nel cervello di un insieme di individui dato che la lingua non è completa in nessun singolo individuo, ma esiste perfettamente nella massa"); 

  • la parole (termine francese che per convenzione non viene tradotto) è invece l'atto individuale del soggetto che fa un uso particolare, anche creativo, del codice linguistico. Tale atto è intenzionale e razionale, cioè frutto di volontà e intelligenza. 

Tra langue e parole esiste una relazione molto stretta: 

  • senza la langue, la parole sarebbe solo un'emissione vocale priva di significato;

  • la parole a sua volta è indispensabile sia al funzionamento della lingua che alla sua evoluzione (la lingua cambia infatti a seguito degli usi individuali che ne vengono fatti, anche se non come effetto diretto della volontà degli individui, poiché nessuno può incidere direttamente sull'intero sistema, estremamente complesso).

 

Hjelmslev (1899-1965), basandosi sulla distinzione saussuriana tra significante e significato, ritiene che il segno sia analizzabile in relazione a un piano dell'espressione e a un piano del contenuto.

Secondo un'altra impostazione, quella di Morris, i segni possono invece venir studiati da tre punti di vista: 

  • quello semantico (relativo al loro referente concettuale, al loro contenuto), 

  • quello sintattico (relativo alla loro combinazione reciproca, e alle regole che la presiedono), 

  • quello pragmatico (relativo al loro uso).

 

Il segno è anche lo specifico oggetto di studio della semiotica (come è definita in ambiente anglofono)  o semiologia (come è definita in ambiente francofono): una disciplina che ha origini molto antiche, riconducibili alla filosofia greca, anche se ha cercato di divenire scienza autonoma solo nel Novecento, con Peirce e con de Saussure (il quale, pur occupandosi prevalentemente di linguistica, ha elaborato concetti di rilevanza semiologica generale quali quelli sopra ricordati) . 

La semiotica si occupa della natura dei segni, della loro produzione, trasmissione e interpretazione.

Nella definizione di Peirce: 

"Il segno è qualcosa che, per qualcuno, sta al posto di qualcos’altro, sotto qualche rispetto o capacità".

Il qualcosa è il segno stesso (ciò che funge da segno); il qualcos’altro è l'Oggetto al quale il segno rimanda; il qualcuno è l'Interpretante del segno (che non va pensato come un interpretante individuale, bensì culturale); il qualche rispetto o capacità è il terreno, l'area, il punto di vista in base al quale ciò che funge da segno rimanda all'Oggetto per l'Interpretante.  

Peirce propone inoltre una tripartizione dei segni in indici, icone e simboli, a seconda che abbiano un:

  • rapporto di contiguità (vicinanza), 

  • rapporto di similarità, 

  • rapporto convenzionale 

con il loro referente.

Tale tripartizione ha avuto molto successo tra i semiotici contemporanei, mentre nella filosofia contemporanea - più interessata alla comprensione del "rimandare" del segno che alla classificazione dei segni -  si è messo l'accento soprattutto sulla lettura del segno come relazione segnica, triadica (in quanto coinvolge tre elementi: ciò che funge da segno, l'Interpretante, l'Oggetto). 

La relazione segnica non dovrebbe essere pensata in modo ingenuo, come un semplice nesso che collega il qualcosa e il qualcos'altro (intendendo questi due come entità a sé stanti, esistenti prima e al di fuori del segno, ossia della relazione segnica). Si dovrebbe piuttosto riconoscere ad essa un carattere originario, poiché essa pone e costituisce i relati (ossia i termini stessi della relazione).

 

Semplice

(contrapposto a complesso) Ciò che è costituito da un solo elemento e che non può risolversi perciò in ulteriori componenti.

 

Sensazione

Contenuto della conoscenza distinto dall'atto intellettuale o concettuale.

Consiste in una pura affezione, ossia in un dato elementare avvertito dalla coscienza in connessione con uno stimolo corporeo, grazie all'azione di organi specializzati (gli organi di senso).

E' generalmente distinta dalla percezione che, riferendo l'affezione a un oggetto esterno, darebbe inizio a un'attività conoscitiva vera e propria.

Per estensione si parla di sensazione anche come avvertimento di uno stato fisico o psichico non provocato (o almeno non sentito come provocato) da stimoli di natura organica.

 

Significante

(contrapposto a significato) Nella concezione di De Saussure (1857-1913), padre della linguistica, una delle due facce inseparabili del segno e più precisamente:

l'elemento formale (la traccia psichica connessa a un elemento acustico o grafico), 

associato (in un determinato sistema linguistico) 

a un dato concetto (contenuto, significato).

 

Significato

(contrapposto a significante) Nella concezione di De Saussure (1857-1913), padre della linguistica, , una delle due facce inseparabili del segno e più precisamente:

il contenuto (ossia l'elemento spirituale, il concetto)

associato (in un determinato sistema linguistico) 

a un dato elemento formale (significante).

 

Sillogismo

Termine con cui Aristotele designò la fondamentale argomentazione logica, costituita da tre proposizioni, connesse in modo tale che dalle prime due, assunte come premesse, sia possibile dedurre una conclusione (per esempio: tutti gli uomini sono mortali, tutti i Greci sono uomini, quindi tutti i Greci sono mortali). 

Il nesso inferenziale deriva dal fatto che le tre proposizioni hanno, a due a due, un termine in comune:

  • il termine comune alle due premesse è detto termine medio (nell'esempio è uomo)

  • il predicato della conclusione (nell'esempio è sono mortali) è detto termine maggiore e la premessa in cui compare premessa maggiore

  • il soggetto della conclusione (nell'esempio è tutti i Greci) è detto termine minore e la conclusione in cui compare premessa minore.

In base alla posizione occupata dal termine medio nelle due premesse i sillogismi possono essere suddivisi in quattro figure, e all'interno delle varie figure i sillogismi possono essere ripartiti in varie classi, dette modi, a seconda della quantità e della qualità delle premesse e della conclusone (vi sono per esempio premesse universali affermative o negative, tutti gli uomini..., nessun uomo....; premesse particolari affermative o negative: alcuni uomini sono...; alcuni uomini non sono...). 

Da un punto di vista strettamente combinatorio i modi possibili sono 256 ma solo 19 di questi sono modi validi, in cui la conclusione segue davvero dalle premesse. 

Lo studio del sillogismo costituisce la parte più caratteristica e importante della logica formale tradizionale.

 

Simbolo        Generalmente inteso come ciò che - in virtù di una qualche connessione (reale o metaforica) - è atto a suscitare nella mente un'idea o un significato diversi da quelli corrispondenti al suo immediato aspetto sensibile (la colomba è il simbolo della pace, il focolare è il simbolo della famiglia, ecc.). 

Ha anche, soprattutto in psicologia, il senso più specifico di rappresentazione astratta della realtà, che permette di render presenti alla mente oggetti non fisicamente presenti e azioni non ancora effettivamente compiute. 

Le parole, per esempio, sono simboli: stanno al posto di ciò che nominano, ci permettono di parlare di qualsiasi cosa, che sia presente o assente, presente o passata, "esterna" o "interna" (come i nostri pensieri, i nostri sentimenti, ecc.)

In entrambi i casi, il simbolo può essere inteso come qualcosa che sta "al posto di...", assumendo così un un significato simile a quello di segno.

La distinzione tra segno e simbolo non è del resto univocamente determinata nella nostra cultura: 

  • in alcuni casi (in particolare nella filosofia e semiologia anglosassone, da Hobbes a Peirce, nella logica simbolica dei neopositivisti e nella linguistica) i due termini sono usati come sinonimi;

  • in altri casi i due termini rimangono ben distinti, ma i criteri della distinzione (e quindi i significati attribuiti ai termini) sono diversi, se non opposti, nell'ambito delle varie teorie o correnti di pensiero. 

Per esempio, alcuni studiosi di linguistica e psicologia nostri contemporanei, tra cui Piaget, definiscono:

  • il simbolo come un elemento che conserva una somiglianza strutturale nei confronti del suo significato (per esempio, i disegni schematici di una casa o di un albero); 

  • il segno come un elemento che non mantiene alcuna somiglianza con il suo significato (per esempio, la parola albero che non assomiglia in alcun modo all'albero) ed è quindi caratterizzato da un maggior grado di convenzionalità. 

In particolare, per Piaget, i simboli utilizzati inizialmente dai bambini sono "non socializzati", 

e in questo si differenziano dai segni (il cui uso presuppone la condivisione dei significati corrispondenti con la comunità linguistica 

di cui si fa parte).

Tale distinzione riecheggia peraltro quella di Hegel (1770-1831), per cui:

  • il segno rappresenta un contenuto del tutto diverso da quello che ha per sé, così che tra il segno e ciò che esso significa vi è un rapporto di pura convenzionalità;  

  • il simbolo è più o meno il contenuto che esso esprime come simbolo, sicché il contenuto non è in questo caso indifferente (tra simbolo e oggetto simbolizzato si pongono relazioni di somiglianza o analogia. Esempio: la bilancia come simbolo di giustizia). 

Ma questa impostazione del discorso appare eterogenea e forse anche in contrasto rispetto a un'altra concezione profondamente radicata nella nostra cultura: quella dell'uomo come "animale simbolico" (oltre che razionale), cioè dotato della capacità specifica di produrre simboli (nel senso di segni significativi).

Come diceva  Aristotele, anche gli altri animali usano segni, ma si tratta di segni "naturali": il cane riconosce gli odori e le tracce; li usa appunto come segni, nel senso di indici, di segnali che indicano determinati oggetti. Solo l'uomo, però, usa segni astratti e convenzionali, cioè simboli e parole.

La filosofia contemporanea (in particolare con la fenomenologia e l'ermeneutica) ha ampiamente ripreso questa seconda impostazione, parlando del simbolo non tanto come segno di tipo particolare, quanto come segno "speciale": pluristratificato, contraddistinto da un più di senso (rispetto al segno), avente un rapporto costitutivo con lo spirito umano, e irriducibile alle regole formali della logica.

Dunque, i due discorsi sono eterogenei perché procedono in direzioni diverse: il primo, usa il termine simbolo in un'accezione meno "pregnante", riconducibile in fondo a quella di segno di tipo particolare, mentre il secondo individua in esso qualcosa di legato in modo essenziale allo specifico dell'uomo (l'unico essere capace di creare una cultura).

E sembrano anche contrastanti (anche se - in quanto eterogenei - non li si può in realtà direttamente confrontare) poiché la convenzionalità viene associata:

  • nel primo caso, prevalentemente al segno (in quanto di essa si sottolinea soprattutto l'aspetto di accordo interpersonale - esplicito o tacito), 

  • nel secondo caso, prevalentemente al simbolo (in quanto di essa si sottolinea soprattutto la valenza culturale, che - in contrapposizione a ciò che è dato per natura - apre alla produzione di senso).  

 

Le due diverse ottiche si possono del resto riportare alle due interpretazioni che sono state (storicamente) date del significato originario del termine "simbolo", designante le due metà di un oggetto. 

Poiché tale oggetto, spezzato, può essere ricomposto avvicinando le due metà, si può considerare ogni metà quale "segno" di riconoscimento, materiale, contrassegno (e quindi il simbolo può essere concepito come segno, anche se non puramente convenzionale). 

Ma si può anche sottolineare come il porre insieme le parti dia e "riveli" la cose (e attribuire di conseguenza al termine simbolo - quale frammento di un intero ideale - una maggiore pregnanza di significato).

 

Naturalmente, le ambiguità relative alla distinzione tra segno e simbolo, si ritrovano nei diversi modi di concepire la parola, il linguaggio verbale:

  • se è obliato il senso pregnante del simbolo, le parole scritte e pronunciate - nella loro materialità fonetica e grafica - possono essere definite come simboli (e infatti nella linguistica segno e simbolo si confondono); 

  • se esso non è obliato, il linguaggio appare come qualcosa di più problematico da definire e studiare.

Per esempio, per Ricoeur nel linguaggio vi sono delle "eventualità rivelative" che sono però possibili solo quando non lo si consideri come semplice funzione comunicativa - come avviene nella linguistica (per la quale il linguaggio è un insieme di segni che rinviano a significati univoci) - ma vi si riconoscano anche simboli dotati di una pluralità di referenti (religiosi, mitici, poetici) da interpretare.

 

In sintesi, si può dire che il termine simbolo è al centro di un "conflitto di interpretazioni", ricostruito nella sua genesi storica da  uno studioso di simboli, Alleau: l'uomo usa i simboli da tempi immemorabili, ma non ne ha mai fatto un'analisi sistematica. 

O meglio, tale analisi è embrionalmente iniziata solo nel Rinascimento (con i primi iconologi o studiosi di emblemi, sigilli, immagini allegoriche, forme architettoniche e artistiche), 

si è sviluppata nel Settecento (con la nascita dell'archeologia), 

è continuata nell'Ottocento (con l'esplosione della filologia e dello storicismo), 

è giunta sino a noi. 

Ma per lo più tale riflessione ha considerato il simbolo solo sotto il profilo ermeneutico, interpretativo: si è chiesta come interpretare questo e quello, non che cosa sia il simbolo in quanto tale.

Una riflessione espressamente rivolta al simbolo è comparsa solo nel Novecento (con gli sviluppi della linguistica, della semiologia, e delle scienze umane) e non ha ancora trovato un comune denominatore.

Secondo Alleau, questo punto di riferimento per tutte le scienze non dovrebbe consistere in un illusorio codice universale di decifrazione ma nella chiarificazione del procedimento il base al quale emergono e vigono i simboli (secondo lo stesso Alleau consisterebbe nella comprensione analogica o logica dell'analogia, distinta da quella dell'identità, che è invece base di ogni procedimento razionale e scientifico).  

 

Sintesi

(contrapposta ad analisi) Composizione, combinazione di parti o elementi che ha per scopo o per risultato di formare un tutto.

Nella filosofia europea, da Cartesio in poi, è considerata come uno dei due metodi fondamentali  e complementari della conoscenza; l'altro è l'analisi. 

Se l'analisi permette di individuare le parti che costituiscono un tutto e le relazioni che tra esse intercorrono, la sintesi permette di ripercorre e ricompone i rapporti individuati. 

A seconda delle concezioni, essa assume un valore prevalentemente espositivo (Cartesio) o un valore di atto spirituale unificante (Kant), che permette di giungere a una rappresentazione e/o  a una conoscenza complessa e unitaria.

La sintesi come attività unificante può essere compiuta dall'intelletto o dalla ragione.

 

Sistema      

Insieme organizzato (in base a determinati criteri

di elementi (oggetti, norme, valori, teorie, ecc) 

che si comportano come un tutto, con proprie leggi generali.

Si dice che un'attività è sistematica se è eseguita seguendo ordinatamente certi criteri.

 

Sistema di riferimento      

Insieme organizzato di elementi stabili, cui ci si rapporta per stabilire la posizione di un oggetto o evento (nel tempo o nello spazio) o anche per orientarsi nella discussione di un problema, nella ricerca di una soluzione.

 

Spazio

Generalmente inteso come il luogo indefinito e illimitato in tutte le direzioni, in cui stanno, si collocano, sono contenuti, gli oggetti reali, i corpi materiali.

Le varie teorie filosofiche e scientifiche intendono e definiscono lo spazio in modo diverso le une dalle altre. 

Meritano almeno un cenno:

  • la proposta del filosofo tedesco Kant (1724-1804) di considerare lo spazio come una struttura universale e necessaria (nel suo linguaggio, "trascendentale"), di ogni possibile esperienza (o "intuizione sensibile");

  • la proposta della fenomenologia (corrente filosofica di fine Ottocento/inizio Novecento cui appartengono Husserl, Sartre, Merleau-Ponty, Heidegger) di considerare lo spazio come una struttura originaria rispetto all' "essere-nel-mondo" dell'uomo. Infatti l'uomo (come coscienza "incarnata") nasce, si costituisce, attraverso un quotidiano avere a che fare, manipolare le cose, la cui condizione è appunto l'essere vicino/l'essere lontano dell'uomo dalle cose.

 

Strategia

Regola generale di condotta che, prevedendo i possibili sviluppi di certe situazioni (le conseguenze di un'azione, di una scelta, le contromosse dell'avversario, ecc.), stabilisce quali linee d'azione (ossia serie di mosse ben coordinate), quali tattiche, si devono seguire per conseguire gli obiettivi individuati.

 

Struttura

Il modo in cui sono correlati i vari elementi di un sistema, e il modo in cui sono distribuiti nell'insieme.

Gli elementi costitutivi di una struttura unitaria sono definibili solo in base ai loro rapporti di interdipendenza (reciproca dipendenza).

 

T

Tattica

La tecnica, i principi e le modalità d'impiego dei mezzi a disposizione, scelti come i più adeguati per raggiungere un determinato fine (nell'ambito di una più ampia strategia).

 

Tecnica

Complesso delle norme da seguire nel praticare un'arte, una professione, una qualsiasi attività manuale o intellettuale.

 

Teoria

Formulazione logicamente coerente di un insieme di definizioni, principi e leggi generali che consente di descrivere, interpretare, classificare, spiegare fenomeni di varia natura.

 

Tempo

Generalmente inteso come l'intuizione e la rappresentazione della modalità secondo la quale i singoli eventi si susseguono e sono in rapporto l'uno con l'altro (cioè avvengono prima, dopo o durante altri eventi).

A seconda delle tradizioni culturali, viene concepito come avente un andamento ciclico o lineare.

Secondo la mentalità scientifica moderna (legata alla meccanica galileiana), è una serie di istanti omogenei, equivalenti. Come tale è anche una serie idealmente reversibile (nulla di sostanziale differenzia gli istanti).

Se nella mentalità comune questa concezione è ancora diffusa, va però sottolineato che in ambito scientifico essa è invece entrata in crisi a seguito di due scoperte relativamente recenti.

La prima scoperta,  risalente a metà Ottocento, riguarda l'irreversibilità di alcuni fenomeni (per esempio quelli termodinamici: una parte dell'energia termica si "degrada" e non può essere ritrasformata in lavoro). Ciò non si concilia con l'omogeneità equivalente degli istanti temporali: ogni istante risulta eterogeneo rispetto al precedente e la serie non può essere invertita.

La seconda scoperta, legata soprattutto al nome di Einstein (più precisamente alla sua teoria della relatività), riguarda la non-unicità della serie temporale: non esiste un tempo unico e universale per tutti gli eventi fisici. 

 

In sintesi, il tempo è una nozione di grandissima complessità e rappresenta uno dei problemi costanti della riflessione scientifica e filosofica.

I motivi ricorrenti della riflessione filosofica sul tempo sono: 

  • la distinzione era/è/sarà, 

  • l'associazione tra tempo e anima (o pensiero).

Platone, nel IV secolo a.C., parla (nel Timeo) di un divenire temporale di cui sono parti l'"era" e il "sarà", sebbene solo l'"è" ne incarni la dimensione autentica, in quanto punto di congiunzione (che egli chiama "istante") tra tempo ed eternità. 

Inoltre, in modo implicito, egli delinea quel nesso tra tempo e anima che il suo successore Aristotele rende poi esplicito. 

Aristotele sostiene (nella Fisica) che "risulta impossibile l'esistenza del tempo senza quella dell'anima" in quanto il tempo è "il numerato e il numerabile" (secondo il prima e il poi), e l'anima è il "numerante", ciò che numera. L'anima è quindi condizione del tempo, ma non è parte del tempo: in essa il tempo e l'eterno si congiungono, tramite l'istante.

Lungo questa via, si arriva - alla fine del IV secolo d.C., con Agostino - alla totale interiorizzazione del tempo: il tempo è ridotto a "estensione dell'anima", successione di stati psichici, tramite la memoria e l'anticipazione. 

Agli inizi del Novecento, con Husserl, questo tipo di indagine sul tempo viene riproposto con forza: egli conduce un'analisi fenomenologica del vissuto coscienziale e delle sue "estasi", cioè del reciproco implicarsi - nella presenza - della "ritenzione" del passato e della "protensione" del futuro. 

Da quest'analisi muove Heidegger che sottolinea come l'Occidente abbia da sempre privilegiato la dimensione del presente. In opposizione, egli privilegia il momento del futuro: il tempo è la condizione dell'esistenza come "progetto" e insieme come "decisione anticipatrice" che riconosce e accoglie la finitudine esistenziale dell'uomo (l'unico essere che sa di dover morire).

 

Va infine ricordata la proposta del filosofo tedesco Kant (1724-1804) che mira a superare la frattura tra tempo scientifico ed esperienza temporale. Egli concepisce il tempo, così come lo spazio, quale struttura universale e necessaria (nel suo linguaggio, "trascendentale"), di ogni possibile esperienza (o "intuizione sensibile").

 

V

Verifica

Dimostrazione della fondatezza, della verità, dell'esattezza di una teoria, di un'ipotesi, di un procedimento

 

Virtuale

Potenziale, esistente in potenza, in contrapposizione a ciò che è attuale, reale, effettivo. Qualcosa, dunque, che non è posto in atto benché possa esserlo. 

 

 

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