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"Una casa e quattro donne valsesiane"

Capitolo terzo

Marta

 

Nel 1834, alla presumibile età di oltre 70 anni, Maria Domenica Mázzia vedova De Marchi fu costretta a lasciare per sempre quelle terre cui aveva dedicato tante fatiche e tanta passione, per accontentarsi anch'essa di un più modesto spazio riservatole nella tomba di famiglia, nel vecchio camposanto del paese(33).

Secondo la prassi del tempo, il giorno del funerale fu staccata dalla parete esterna della chiesa la barella comune (il "carulécc") che serviva per i trasporti funebri; fu suonata a lungo la "campàna d'i mort" e furono posti sulle spalle di quattro bambine del paese, che avrebbero affiancato la barella lungo tutto il tragitto, altrettanti pezzi di tela bianca.

Maria Domenica aveva percorso nella sua vita un cammino certamente travagliato e funestato da numerosi lutti ed aveva fatto da spettatrice, non del tutto estranea, ad avvenimenti politici che avevano inciso profondamente nelle condizioni di vita della valle. Ma nel generale stato di indigenza e di sofferenze in cui si era trovata per molti anni la maggior parte della popolazione, la vedova De Marchi era riuscita a far mantenere alla sua famiglia una posizione economica di tutto rilievo. Aveva accresciuto il patrimonio con acquisti di varie proprietà immobiliari e, nel 1816, aveva risolto favorevolmente una vertenza giudiziaria con un suo affittuario, tale Carlo Ferraris, che alla fine s'impegnò a restituirle, "in buona moneta d'oro e d'argento" la somma di 200 lire "di Milano". Nel 1832, due anni prima di morire, concluse il suo ultimo acquisto, rilevando per 45 lire "di Milano" da un altro sacerdote, Don Giovanni Battista Manghetti, le proprietà ereditate da quest'ultimo in seguito al decesso del padre.

Maria Domenica non lasciò, o quanto meno non è stato rinvenuto fra le carte di Camproso, alcun testamento e le sue proprietà passarono interamente alle figlie Marta e Marianna. Di Marianna si sa poco; sposatasi con un certo Carlo Bello, forse visse nell'altra casa, quella attigua alla "Cà d'la Pipina", dove risiedevano originariamente i De Marchi, oppure già dopo il matrimonio si era trasferita altrove con la sua nuova famiglia. Per contro, sono stati ritrovati molti riferimenti documentali sulla sorella Marta, che le fanno senz'altro attribuire il ruolo di "seconda donna" della casa di Camproso.

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Sia Marta che Marianna erano del tutto illetterate e tali rimasero anche dopo la morte del padre, nonostante le raccomandazioni che quest'ultimo fece in punto di morte a Don Pietro Belli perchè si prendesse cura della crescita dei figli. Pazienza per la madre, Maria Domenica, che attaccata com'era alla terra e gravata da mille problemi quotidiani poneva l'istruzione sua e dei suoi figli all'ultimo posto della scala dei bisogni, ma il sacerdote, che - a suo dire - si diede un gran da fare per assistere gli orfani nella loro crescita, avrebbe dovuto, quanto meno, assicurare loro un minimo di alfabetizzazione. I mezzi per farlo non sarebbero certamente mancati, come non mancavano le prime scuole, dirette dagli stessi sacerdoti o sorte qua e là nella valle a seguito delle elargizioni dei privati più facoltosi. A quest'ultimo proposito, L. Ravelli riferisce che un certo "...Pietro Giacomo Belli, di Mollia, arricchitosi in seguito alla scoperta di un filone aurifero presso Macugnaga .. nel 1802 istituì la scuola elementare di Mollia e con testamento del 1807 fondò la scuola di disegno..."(34).

Ma forse, e per concedere qualche "attenuante generica" al comportamento di don Belli, la famosa "inaudita ingratitudine" attribuita alle due giovani, si riferiva anche alle difficoltà che erano state opposte da queste ultime ai vari tentativi di elevare il loro livello culturale. Appare comunque quanto meno strano, almeno ai nostri giorni, che una famiglia relativamente facoltosa come quella dei De Marchi di Camproso, periodicamente occupata nell'acquisto di nuove proprietà e coinvolta anche in taluni episodi di prestiti, di affittanze, e di altre redditizie attività, non ritenesse necessario spingere i figli ad imparare a leggere, a scrivere e a "far di conto". Ciò, fra l'altro, avrebbe svincolato la famiglia dalla dipendenza nei confronti di terze persone per interpretare correttamente le numerose carte, notarili e non, che si stavano ormai accumulando nella casa. Ma l'analfabetismo era a quel tempo ancora alquanto diffuso nell'ambiente contadino e forse non costituiva, almeno nelle logica dei De Marchi, un ostacolo alla vita di tutti i giorni. Occorre tuttavia notare che il livello culturale medio dei Valsesiani, anche se per nulla appariscente, era generalmente buono e ne sono una chiara testimonianza le molte centinaia di volumi antichi (datati dal XV secolo in poi, e non solo di contenuto religioso, provenienti da vecchie case) pazientemente raccolti, catalogati e conservati dall'attuale Arciprete di Mollia, Don Pier Cesare De Vecchi, nella biblioteca parrocchiale.

Inoltre, a quei tempi Campertogno (che con le sue frazioni contava più di 2000 abitanti) aveva espresso un numero elevato di artisti, soprattutto pittori, decoratori e scultori, che avevano realizzato pregevoli opere in varie città italiane ed europee, seguendo una tradizione artistica locale che aveva trovato i suoi più famosi interpreti in Gaudenzio Ferrari, nativo di Valduggia, in Leonardo da Varallo, in Giovanni, Melchiorre e Antonio d'Enrico (quest'ultimo più noto come Tanzio da Varallo, anche se originario di Alagna) e, più tardi, in Carlo Borsetti, negli Orgiazzi e in molti altri artisti illustri. Proprio per favorire lo sviluppo di questo estro artistico locale, a Campertogno stesso, prima ancora di una scuola elementare era stata creata una scuola di disegno dove, peraltro, si insegnava anche a leggere e scrivere.

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Marta si era unita in matrimonio con un giovane originario di Micciòlo, una graziosa e piccola frazione abbarbicata sulle pendici dei monti che sovrastano Failungo di Pila, un'altra località pochi chilometri a valle di Camproso. Lo sposo, Giovanni Mattasoglio, benché appartenente ad una famiglia di antica origine valsesiana e probabilmente abbastanza facoltosa, era anch'esso analfabeta ed aveva, come si suol dire, "attaccato il cappello", venendo ad abitare nella casa dei De Marchi e svolgendo così il ruolo di unico uomo della famiglia. D'altro canto, dopo la prematura scomparsa dei due fratelli di Marta, ed escludendo la presenza saltuaria ed alquanto enigmatica di Don Pietro Belli, la casa di Camproso era priva di uomini. Il carattere forte e determinato di Maria Domenica non deve comunque aver lasciato molto spazio decisionale al genero, il cui pur breve passaggio non sembra aver lasciato significative tracce nella storia della casa, se non per via della famosa "pipa da fumare" donata al cappellano.

Uno dei pochi documenti che parlano di Giovanni Mattasoglio si riferisce ad un atto notarile del 1817, redatto a Scopello. Da tale rogito si rileva che Giovanni, all'epoca ancora residente a Micciòlo, vendette per 137 lire "di Milano" al fratello Francesco due piccoli appezzamenti di terreno esistenti nel paesello natio.

Probabilmente la cessione era avvenuta in vista delle nozze con Marta e in previsione della nuova vita che il giovane avrebbe condotto in seno alla famiglia De Marchi. Speranze che, comunque, cessarono presto, in quanto, per una specie di malasorte che ormai sembrava infierire inesorabilmente sugli uomini della casa di Camproso, anche Giovanni Mattasoglio non visse a lungo e, anzi, morì qualche anno prima della suocera. Risulta infatti che nel 1834, al momento del decesso di Maria Domenica, Marta fosse già da qualche tempo in stato vedovile.

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Maritandosi, Marta aveva portato in dote il valore di quanto assegnatole nel testamento di Pietro Giuseppe e che, tramutato in beni reali, consisteva in alcuni capi di biancheria da casa e di vestiario, nella cassapanca necessaria per contenerli e in alcuni altri oggetti d'uso quotidiano.

La lista della dote, o "di schèrpa", redatta per l'occasione, comprendeva quattro lenzuola con pizzo; quattro tovaglie di canapa; quattro "brazze" di tela bianca e una pezza di tela nera; due camice e quattro camicette; quattro paia di caratteristiche pantofole di panno ("scapìn"), di cui due nuove; dodici "binde" e sei "fassali"; sei "fassoletti"; tre "sotanini", di cui due nuovi ed uno usato, di tela a fiori; due vesti di panno ("mezzalana") e due di cotone ("bumbasina"); un cappello di lana ed una "cappellina" di paglia con frangia; tre paia di "calzette", di cui uno nuovo; una gerla nuova ("cìvéra"); una cassapanca di abete ("cassùn"), un lume ad olio ("lum"), un "cusinetto" per cucire, con relativi accessori, e il necessario per ricamare il "puncét", il tipico merletto della valle. Il tutto, per un valore di circa 200 lire.

Nel giorno del matrimonio di Marta, al mattino presto ed alla chetichella, i giovani del paese avevano eretto, come d'uso, alcune piccole barricate con rami d'albero, fascine ed oggetti vari, disposti lungo il percorso che conduceva alla chiesa e avevano poi ostentatamente rimosso il tutto al sopraggiungere dello sposo. Si trattava di un'antica usanza, che significava l'augurio degli amici e di tutto il paese per una vita coniugale priva di ostacoli e di difficoltà. La sposa si era agghindata con il costume tradizionale, quello più "sacro" alla famiglia, prestatole da Maria Domenica, che l'aveva usato il giorno del suo matrimonio e nelle sole festività particolari e che l'aveva ereditato, a sua volta, da sua madre. La vestizione aveva richiesto parecchio tempo ed era stata completata con l'aiuto di Maria Domenica e delle amiche più care.

Innanzi tutto si trattava di indossare un'ampia e lunga camicia di tela con i polsini di pizzo e, dalla vita in giù, una sottogonna di panno. Sopra la "camisa", sul davanti, veniva quindi applicata una "pèssa", costituita da una specie di pettorale di pesante broccato, ricamato con disegni a fiori, ornati con fili dorati. Il tutto veniva tenuto fermo da un giubbetto ("camisetta") di panno, spesso rosso, con le maniche orlate da alti polsini di broccato.

Sopra la "camisetta" veniva posta una veste di panno ("büst"), senza maniche e solitamente marrone o nera, con un'ampia e pesante sottana a pieghe che giungeva sino alle caviglie ed un corpetto ("casèt") aderente e scollato sul davanti. Sopra tutto ciò, ancora un ampio scialle ("fasùlet") bianco, con molti fiori ricamati a più colori e fissato con una spilla d'oro; un grembiule ("fauda") di seta, fissato in vita con un nastro che ricadeva sul fianco e, ai piedi, calze di lana nera; nonchè i famosi "scapìn" di panno, per l'occasione, rosso, ornati di velluto nero ed arricchiti con una fibbia d'argento.

Ma l'impegno maggiore era stato dedicato all'acconciatura ("cuàssi") di Marta. Innanzi tutto le amiche le avevano separato i capelli in quattro parti, formando, in alto del capo, due treccine e, con il resto, due lunghe trecce fissate, prima con uno spillone ("spuntùn") d'argento e, quindi, rivoltate all'insù con l'uso di un particolare doppio cerchietto d'argento ("cérciu"). A questo punto non era rimasto altro che aggiungere una cuffietta ("scüffia") di seta marrone, ornata di pizzo nero, e fermare il tutto con cinque lunghi spilloni ("spìnghi"), che lasciavano ricadere, dietro la nuca, i bordi di alcuni nastri di vario colore.

Il costume era così finalmente completo ma, prima di entrare in chiesa, Marta si pose ancora sul capo un ampio rettangolo di tela bianca, bordato di pizzo, che le ricadeva sulle spalle. Così agghindata, la giovane si avviò verso la chiesa, accompagnata da parenti ed amici.

La vita matrimoniale, seppure di breve durata, diede presto i suoi frutti e nel volgere di pochi anni, secondo la tradizione, la donna mise al mondo almeno cinque piccoli Mattasoglio: Antonio, Maria Domenica, Teresa, Marianna e Giuseppe; i cui nomi di battesimo rendevano equo omaggio di riconoscenza e di affetto, con beneplacito di tutti, ai nonni e agli zii.

In effetti non si sa se la figliolanza di Marta si "limitò" a questi cinque figli (i cui nomi compaiono per la prima volta solo nel testamento di Marta, redatto nel 1853) o se ve furono altri non sopravvissuti a lungo. Stando alle statistiche del tempo e alla perdurante alta mortalità infantile della zona, si potrebbe anche presumere che fossero nati altri figli, scomparsi "in pupillare età".

Nonostante gli auguri formulati dagli amici nel giorno del suo matrimonio, anche Marta, esattamente come trent'anni prima sua madre, perse dunque presto il marito e iniziò la vedovanza con il solito fardello di figli, più o meno maggiorenni, e di problemi da risolvere.

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Fortunatamente, gli sconvolgimenti politici che avevano interessato per molti anni anche la Valsesia erano cessati con la caduta di Napoleone e, così, la vita nella valle aveva ripreso il suo antico decorso, costellato di piccole storie quotidiane e scandito dal mormorio continuo del fiume. Dal 1814 la valle era ritornata sotto il dominio dei Savoia, che ripristinarono le antiche Costituzioni e abolirono gli assurdi confini imposti dalla Francia ma, per contro, si guardarono bene dal rinnovare le vecchie agevolazioni di cui aveva goduto per secoli la valle.

Il territorio e la sua popolazione rimasero abbastanza estranei ai fermenti unitari e libertari che stavano sviluppandosi nel resto d'Italia e gradualmente la vita della valle perse la propria antica autonomia, integrandosi sempre più nella storia generale del Piemonte.

Con l'ascesa al trono di Carlo Alberto e con il nuovo Statuto del febbraio 1848 vennero ufficialmente aboliti tutti i "privilegi" e, come riferisce Federico Tonetti, da allora "...i Valsesiani dovettero anch'essi come tutti gli altri regnicoli sottostare proporzionatamente alle loro forze a tutti i pesi dello Stato..."(35).

Anche la prima guerra d'indipendenza, iniziata il 23 marzo 1848, non portò conseguenze particolari alla valle, se non per gli onori che furono riconosciuti al Valsesiano Generale Giacomo Antonini, un veterano delle armate napoleoniche, che dopo aver combattuto con il Bonaparte in tutti i principali teatri di guerra europei, partecipò con Massimo d'Azeglio, Niccolò Tommaseo e Gabriele Manin alle peraltro infelici vicende della guerra in territorio veneto.Un suo monumento è visibile sul ponte del Sesia, nel centro storico di Varallo.

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Il figlio primogenito di Marta, Antonio, seguendo le orme di molti altri giovani Valsesiani, era emigrato in Francia, dove aveva trovato un modesto lavoro e una fidanzata, Maddalena Gallinotti, nativa del suo stesso paese. Nel 1840, desiderando "metter su casa", sottoscrisse un prestito di 900 lire concessogli da un altro compaesano, Giovanni Domenico Badarello, impegnandosi a rimborsarlo, con i relativi interessi, nell'arco di tre anni. Ma, evidentemente, qualcosa non andò per il verso giusto e il creditore non fu rimborsato. Il Badarello, allora, deciso a recuperare i suoi soldi, nel 1844 si recò a Camproso e, concedendo uno "sconto" di 200 lire sull'importo originario, convinse in qualche modo Marta Mattasoglio a sottoscrivere, con il suo solito segno di croce, un nuovo documento che annullava quello firmato dal figlio e in cui la donna apparentemente riceveva, ex novo, dal Badarello un prestito di 700 lire nuove "di Piemonte", da rimborsare in otto anni, più gli inevitabili interessi legali, "...in buon denaro e non altrimenti ... e sott'obbligo de' miei beni presenti e futuri in ampia forma".

Con ogni probabilità Marta non si rese esattamente conto subito di ciò che aveva, forse ingenuamente, sottoscritto, tant'è che, poco dopo, quando qualche altra persona del paese le tradusse verbalmente il contenuto della scrittura, si guardò bene anch'essa dal rispettare gli impegni assunti. E così il Badarello intentò una causa civile contro la donna per ottenere il pagamento della somma dovutagli.

La vertenza si trascinò fra alterne vicende per circa quattro anni, sinché il Tribunale di Varallo, nella sentenza di primo grado del 2 dicembre 1848, decretò la nullità dell'atto sottoscritto da Marta, esonerandola dal pagamento delle somme reclamate dal creditore. Le motivazioni della sentenza si basarono sostanzialmente sul fatto che il secondo prestito in realtà non ebbe mai luogo e che Marta non aveva alcun obbligo diretto nei confronti del Badarello, né del figlio Antonio. Infatti, il Tribunale, "...considerando che dalle stesse risposte date dall'attore (Giovanni Badarello; n.d.a.) sul contenuto delle dedottegli posizioni apparirebbe escluso che alla convenuta (Marta Mattasoglio; n.d.a.) siano state realmente mutuate le lire settecento nuove di Piemonte, delle quali questa colla privata scrittura tredici Gennaio mille ottocento quaranta quattro dichiaravasi debitrice, a termini del disposto dell'articolo mille due cento ventidue del Codice Civile, dovrebbe ravvisarsi siccome nulla, e di nessun effetto l'obbligazione medesima ...".

Le altre carte ritrovate nella casa di Camproso non precisano quale fu la reazione del creditore e quale fu l'eventuale seguito della vicenda. Non è neppure dato di sapere se il figlio Antonio fece fronte ai suoi debiti. Di sicuro risulta comunque che il Badarello non fece ricorso ad un secondo grado di giudizio e che non vi furono altri strascichi per Marta. Per il Badarello, invece, ai danni si aggiunsero le beffe ed il Tribunale, infine, gli impose di versare 82 lire e 25 centesimi a rimborso delle spese legali e processuali.

Questa, a quanto risulta, fu la prima delle vertenze che videro le donne della casa di Camproso intervenire nelle liti giudiziarie originate dai "pasticci", volontari od involontari, dei loro figli maschi; nel prosieguo della narrazione se ne incontreranno altre, con alterni risultati che, comunque, misero a dura prova la resistenza e la pazienza delle varie "rejiôre" della casa stessa.

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Cinque anni dopo la conclusione della causa con il Badarello, Marta Mattasoglio decise di redigere il proprio testamento, in modo da definire per tempo la divisione delle sue proprietà fra i suoi futuri eredi. Alle dieci del mattino del 14 marzo 1853 radunò nella casa di Camproso il notaio Giuseppe Carestia, nonché alcuni testimoni e, con tutta calma (doc. N. 8), stabilì le sue ultime volontà. Ripetendo uno schema testamentario già utilizzato in punto di morte da suo padre, mentre raccomandò la propria anima "a Dio sommo infinito mio Creatore", respinse categoricamente l'invito del notaio a devolvere qualcosa all'Ospedale ed alle altre Opere Pie. Disse di "non poter fare alcun lascito" e, quindi, considerando le numerose proprietà di cui disponeva la donna, c'è da chiedersi quanti altri in paese, avrebbero "potuto farlo" in sua vece. Per contro, Marta raccomandò che le venisse riservata una sepoltura di prim'ordine, con tanto di "settima", di "anniversario" e di "distribuzione del sale"(36). Passando poi alla divisione dei beni, lasciò ai figli solo ciò che la legge vigente attribuiva loro d'ufficio, distribuendo invece il restante patrimonio ai nipoti maschi, nati o nascituri dai figli Antonio e Giuseppe. Stabilì inoltre che, in caso di premorienza di tali nipoti, i beni venissero attribuiti alle nuore, Maddalena (consorte di Antonio) e Angela (moglie dell'altro figlio, Giuseppe).

Tutto ciò starebbe a significare che Marta fosse piuttosto adirata, o comunque sfiduciata, non solo nei confronti del figlio Antonio (quello che le aveva combinato il bel pasticcio della causa con Giovanni Domenico Badarello) ma anche degli altri quattro, maschi o femmine che fossero. E questa sfiducia arrivò al punto di farle preferire le nuore agli stessi suoi figli.

Pochi mesi dopo, Marta, ancora evidentemente in ottima salute, stipulò un atto di vendita con cui cedette per cento lire nuove "di Piemonte" a Carlo Badarello, marito di sua figlia Maria Domenica, un terreno nella frazione di Quare. Benché non sia stato possibile ricostruire eventuali legami di parentela fra il genero di Marta e il Badarello della famosa causa civile, è curioso notare come, alla fine del documento di vendita, compaia una frase che apparentemente non avrebbe nulla a che fare con la cessione del terreno di Quare:

"..Dichiara la venditrice di aver convertita la somma prezzo di questo contratto nel pagamento della causa contro Gioanni Badarello, per interesse del di lei figlio Antonio Mattazolio..".

Considerato che, come risulta agli atti, le spese della causa avevano fatto carico interamente a Giovanni Badarello, è ipotizzabile che la vendita di quest'ultimo terreno fosse motivata da altre ragioni, di cui non è stato ora possibile ricostruire la vera natura. Azzardando un'ipotesi, si potrebbe supporre che Marta volesse in qualche modo "ritoccare" le decisioni testamentarie prese con un atto pubblico solo pochi mesi prima e riconoscere alla figlia Maria Domenica qualcosa in più della sola "legittima" che le sarebbe spettata per legge alla morte della madre.

Secondo le usanze del luogo e del tempo, una cessione di questo tipo non avrebbe dovuto far capo ad altri se non al capo famiglia e, nella fattispecie, al marito di Maria Domenica, Carlo Badarello. E' infatti curioso notare come tutte le compravendite di beni immobili venissero effettuate dal marito, mentre l'intervento della donna avveniva solo in caso di un suo stato vedovile.

La dichiarazione finale, riguardante le spese sostenute per la causa del figlio Antonio, avrebbe quindi avuto il solo significato di prevenire eventuali successive contestazioni da parte degli altri figli circa la sottile "sottrazione" del terreno di Quare dall'asse testamentario di Marta.

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Nel 1860, all'età di oltre 70 anni, e sette anni dopo la stesura del suo testamento, anche Marta De Marchi vedova Mattasoglio passò a miglior vita. Il patrimonio lasciato ai suoi eredi era cospicuo, comprendendo ben 16 terreni, sparsi fra Camproso e Quare, 3 mezze case (le altre tre metà erano intestate alla sorella Marianna che, come Marta, le aveva ereditate alla morte della madre), oltre ad alcune piante di noci, denari liquidi, mobili e arredi vari. Una valutazione di tutti questi beni, effettuata qualche anno prima, portava ad un totale di 6710 lire che, all'epoca, costituivano certamente un patrimonio di tutto rispetto.

Ripercorrendo a ritroso la vita di Marta Mattasoglio si possono notare molte analogie con quella di sua madre, Maria Domenica De Marchi. Ciascuna di esse visse circa 70 anni, perse il marito attorno ai cinquant'anni, ebbe diversi figli, rimase analfabeta e, infine, difese con tenacia e con passione la propria "roba", lavorando strenuamente e non fermandosi di fronte a nessuna avversità.

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Marta non visse a sufficienza per assistere, l'anno dopo della sua morte, al compimento dell'Unità d'Italia, ma questi ormai erano avvenimenti troppo lontani, che non toccavano più la Valsesia, già da qualche decennio rientrata - volente o nolente - in un ordine socio-politico che nulla aveva più a che fare con l'isolamento che l'aveva caratterizzata per diversi secoli. Attorno al 1860 la nuova strada carrozzabile ormai congiungeva anche Camproso con Varallo e con la pianura; il turismo aveva fatto la sua seppur pallida comparsa nella valle(37) e l'immagine del "forestiero" aveva acquisito una dimensione del tutto nuova, apportatrice anche di ulteriore cultura e di differenti esperienze di vita. L'apertura delle nuove vie d'accesso alla valle significò, peraltro, un primo serio attentato al permanere di quelle tradizioni locali che via via perderanno sempre più di significato, per rischiare di ridursi, alla fine, a semplici e saltuari spettacoli folcloristici, oggetto di un consumismo di massa e bersaglio degli obiettivi fotografici dei turisti domenicali.

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33 - Il vecchio cimitero di Campertogno era situato accanto alla chiesa parrocchiale. Nel 1837 fu costruito un nuovo camposanto nei pressi della chiesa di San Carlo. (ritorna al testo)

34 - cfr.: L. Ravelli, op. citata, pag. 231 (ritorna al testo)

35- cfr.: F. Tonetti, op. citata (ritorna al testo)

36 - Secondo un'antica consuetudine, tuttora seguita in talune località dell'alta valle, nelle ricorrenze del quarto, del settimo giorno e di un anno dalla morte, i parenti facevano celebrare una funzione religiosa e all'uscita dalla chiesa distribuivano il sale a tutti i presenti. Il sale, fra l'altro, costituiva per la Valsesia, che ne è naturalmente priva, un elemento prezioso, sia per l'alimentazione che per la conservazione della carne e del pellame. Il libero approvvigionamento del sale, in esenzione doganale, era uno dei principali capisaldi dei "privilegi" di cui la Valsesia godette per secoli. (ritorna al testo)

37 - Il turismo in Valsesia ebbe i suoi primi convinti sostenitori in Don Giovanni Gnifetti (che fu Parroco di Alagna), Giovanni Giordani, Giuseppe Farinetti e Giuseppe Guglielmina. I primi tre fecero parte del piccolo gruppo di ardimentosi che nel 1842, per primi, scalarono la vetta della Signalkuppe (m. 4554) sul Monte Rosa. Fu però G. Guglielmina, nativo di Mollia, che sul finire dell'800 avviò le prime concrete iniziative turistiche in valle con l'apertura dell'albergo sul Col d'Olen, dell'Hotel delle Alpi a Riva Valdobbia e di altri ancora. Nel 1906, anno della sua morte, era considerato uno dei più noti albergatori italiani. Cfr.: Elisa Farinetti e Pier Paolo Viazzo, "Giovanni Gnifetti e la conquista della Signalkuppe", ed. Zeisciu, Magenta, 1992, e anche, dello stesso Don Giovanni Gnifetti, "Monte Rosa ed ascensioni su di esso", ristampa anastatica dell'edizione del 1858, ed. Corradini, Borgosesia, 1981. (ritorna al testo)

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