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"Una casa e quattro donne valsesiane"

 

Capitolo secondo

Maria Domenica

 

Sul finire del 1803, all'età di soli 54 anni, il "Cittadino" Pietro Giuseppe De Marchi avvertì i primi sintomi di un grave malessere che in pochi mesi avrebbe posto fine alla sua esistenza. A nulla valsero le terapie suggerite dai vari "cerusici" della valle, come pure le premurose attenzioni dei suoi familiari. La malattia infatti seguiva il suo rapido decorso e la vita del capo-famiglia si spegneva inesorabilmente. Alle sofferenze fisiche si accompagnavano la preoccupazione di lasciare la moglie, Maria Domenica, e i figli Giuseppe, Franco Antonio, Marta e Marianna, questi ultimi ancora "in pupillare e tenera età costituita", nonché il dispiacere di dover dare, così prematuramente, un addio a tutte quelle proprietà che erano state accumulate in tanti anni di tenacia e di sacrifici.

Pietro Giuseppe temeva che dopo la sua morte sarebbero potute accadere cose per lui indesiderabili: la vedova presto o tardi si sarebbe potuta risposare e i figli si sarebbero accapigliati per la divisione dell'eredità. Oppure, l'intero patrimonio sarebbe stato ceduto a persone a lui sgradite; nello stesso modo in cui, pochi anni prima, lui stesso aveva messo le mani sui beni di un vicino che se non fosse prematuramente scomparso, mai e poi mai glieli avrebbe volontariamente ceduti. Ma De Marchi non sarebbe stato così sprovveduto come il povero Giacomo Mangola e prima di passare a miglior vita avrebbe sistemato per bene ogni cosa, materiale e spirituale.

Alle due di notte del 12 marzo 1804 Pietro Giuseppe si sentì particolarmente prossimo alla fine e, "... considerando di essere mortale e non essendovi cosa più certa della morte ed incerta l'ora con cui ognuno passar deve alla vita immortale ...", fece frettolosamente chiamare a raccolta nella sua casa di Camproso il notaio, gli amici più cari ed i testimoni d'uso, fra cui gli ormai immancabili Sceti, per dettare le sue ultime volontà, "... colla scorta ed uso di sufficienti lumi accesi". Il vecchio Carlo Sceti, a causa dell'età e dell'ora inoltrata, inviò per l'occasione suo figlio Giuseppe. Considerati il luogo e la stagione, in quella notte doveva fare anche un gran freddo, ma nessuno degli invitati, non si sa se per carità cristiana o se per dovere di firma, si astenne dal recarsi al capezzale del malato. Il testamento (doc. N. 5) potè quindi essere steso secondo tutti i crismi del tempo e del luogo, con le rituali formule propiziatorie nei confronti dell'Aldilà e con il fermo rifiuto del testatore a concedere la benché minima elargizione nei confronti dei "...Venerandi Ospedali di questa Repubblica, a quelli di questo Distretto, o del luogo". Evidentemente, le cure che gli ospedali e la scienza medica gli avevano somministrato, senza riuscire ad impedire alla malattia di compiere il suo funesto decorso, avevano deluso a tal punto Pietro Giuseppe da convincerlo a non lasciar loro assolutamente nulla.

Dalla pur minuziosa e colorita descrizione delle ultime volontà di De Marchi non si può purtroppo ricostruire l'esatta entità del suo patrimonio che, comunque, andava ben oltre le due case, i sei appezzamenti di terreno, le quattrocento lire di dote, "la bovina e due capre", in vari modi specificatamente assegnati alla "sua presentanea ed amatissima moglie", Maria Domenica, e alle figlie. Considerata, infine, la minore età "della predetta di lui figliolanza", furono nominate la moglie, "unitamente al Cittadino Sacerdote Pietro Belli di Moglia, attuale Capellano delle Quare" (25), tutori e curatori dei beni testamentari.

Così, sistemati per bene gli interessi materiali e raccomandata l'anima "...con tutta l'umiltà e divozione a Dio onnipotente, alla B. Vergine Maria, S. Giuseppe ed a tutti li suoi Santi Protettori ed Avi in Cielo, il primo supplicando e gli altri pregando prestargli aiuto nel punto di sua morte per un felice passaggio agli Eterni riposi ...", Pietro Giuseppe si apprestava, suo malgrado, ad uscire di scena.

Dipartita che, peraltro, avvenne solo qualche settimana più tardi, in quanto, alla fine di marzo, il malato ebbe ancora la forza di aggiungere di suo pugno, in calce al testamento e con una grafia che chiaramente denunciava il grave stato di salute,"...io, Pietro Giuseppe de Marchi io mi sono intenduto quanto o fatto il testamento che le lire duo cento di dota che le abiano maritandosi e non maritandosi e se il testamento che non parla così io volio che sia così e la bovina della molie che si ritrovasse ancora dopo la sua morte che siano erede le figlie stando da maritare".

Con la scomparsa di Pietro Giuseppe viene in un certo senso a cessare il ruolo essenzialmente maschile che ha sinora caratterizzato le vicende della casa di Camproso. D'ora in avanti emergeranno sempre più intensamente le figure femminili costituenti l'ossatura portante di una narrazione che assegnerà ancora agli uomini della famiglia una parte, tutt'al più, di semplici comprimari.

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Secondo la descrizione che si legge nel testamento di Pietro Giuseppe, la casa in cui abitò fino al momento della sua morte doveva avere, più o meno, la seguente struttura:

Nel portico esisteva forse la fucina in cui Pietro Giuseppe esercitava l'attività di fabbro e, con ogni probabilità, all'esterno scorreva una roggia da cui veniva ricavata l'energia per alimentare alcune rudimentali macchine. Tutta la casa era circondata da logge su cui veniva posto ad essicare il fieno. Nel documento non è specificato con quale materiale fosse prevalentemente costruita la casa, ma si presume che avesse i primi due piani in pietra ed il restante in legno, in quanto, nel descrivere l'altro fabbricato posseduto dal testatore, il notaio si premurò di specificare "...corpo di casa d'alto in basso, murato, e coperto a piode...". La prima casa, successivamente utilizzata solo come stalla e fienile dagli eredi, che si trasferirono nella vicina "Casa della Pace" (ora denominata "Ca' d'la Pipina"), è tuttora esistente, ma ha perduto le antiche caratteristiche, essendo stata da poco completamente ristrutturata, pur continuando a mantenere un suo piacevole stile locale.

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Mentre in Valsesia la vita quotidiana, seppur intralciata da qualche "sagrìn", o dispiacere in più, sembrava scorrere con il ritmo di sempre, gli eventi politici che si alternavano sullo scenario italiano non mancarono di riservare continue sorprese e cambiamenti anche radicali.

Nel 1802, Carlo Emanuele IV, che dopo l'annessione del Piemonte alla Francia governava ormai sulla sola Sardegna, abdicò in favore di Vittorio Emanuele I. Nel marzo dello stesso anno, a Lione, i rappresentanti della Repubblica Cisalpina decisero di cambiarne il nome in "Repubblica Italiana", ferma restando la sudditanza dell'intera regione ai dettami della politica francese. Napoleone Bonaparte fu nominato Presidente e mantenne tale carica per tre anni sinché, con la trasformazione della dittatura francese in "Impero", la giovane Repubblica Italiana venne convertita in "Regno". Nel maggio 1805, durante una solenne cerimonia celebrata nel Duomo di Milano, fu posta sul capo di Napoleone, ormai considerato padrone assoluto dell'intera penisola italiana, la famosa corona ferrea a suo tempo appartenuta a Teodolinda e, si dice, forgiata con un chiodo della croce di Cristo, fortunosamente recuperato e conservato da Sant'Elena, madre di Costantino.

Gli ulteriori tentativi di restaurazione delle dinastie europee vennero annullati con le vittorie napoleoniche di Austerlitz, Jena, Auerstadt, Eylau e Friedland, sinchè, con l'accordo di Tilsitt del luglio 1807 (antesignano modello di ciò che, alla fine del secondo conflitto mondiale, scaturì dalla famosa conferenza di Yalta) fu sancita una vera e propria spartizione territoriale dell'intera Europa fra la Francia e la Russia zarista.

La stella di Napoleone era quindi più fulgida che mai, ma il suo massimo splendore sarebbe stato anche l'inizio della sua inevitabile caduta.

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Maria Domenica era originaria della frazione Otra di Campertogno e della sua prima giovinezza non si sa altro se non che fosse figlia di un certo Franco Mázzia, probabile proprietario di una segheria, il quale, in occasione delle nozze della figlia con Pietro Giuseppe De Marchi, le aveva assegnato in dote vari beni, valutati in duecento lire "di Milano". Una somma, quindi, di tutto rispetto e che con ogni probabilità comprendeva anche alcuni piccoli appezzamenti di terreno, nonchè qualche capo di bestiame. Dal matrimonio nacquero quattro figli, due maschi e due femmine, che, come si è visto, alla morte del padre erano ancora minorenni.

In seguito al decesso del marito, Maria Domenica si trovò a dover affrontare una realtà di lavoro ancor più impegnativa di quella che abitualmente era usa condurre. L'essere proprietario di alcuni piccoli terreni, della propria casa e di qualche capo di bestiame se poteva affrancare l'individuo dalla umiliante posizione di semplice bracciante o, peggio ancora, di "servo" e gli forniva i mezzi per il sostentamento, non lo poneva certamente nella condizione di vivere di rendita e di superare agevolmente le difficoltà frapposte dai tempi, sicuramente non rosei, e dalla natura intrinsecamente avara della montagna. La maggior parte degli uomini e delle donne conducevano un'esistenza esclusivamente basata sul lavoro agricolo-pastorale, che li accomunava nello stesso sudore con il loro bestiame, considerato elemento quasi "di famiglia" e, come tale, convivente nei freddi mesi invernali nello stesso locale, la stalla, in cui soggiornavano le persone. Le risorse della valle, ricca di bellezze paesaggistiche ma povera di terreni coltivabili o di altre ricchezze sfruttabili a misura d'uomo, non riuscivano a sfamare l'intera popolazione.

Girolamo Lana, che in qualità di Membro della Giunta di Statistica della Provincia di Novara aveva condotto una ricerca sull'economia della valle, scrisse nel 1840:

"... il ricolto dell'agricoltura, intendesi comprendere, oltre i grani, tutti li frutti, uve, noci, castagne e patate che in uno col canape sono i prodotti del suolo Valsesiano, ... dato luogo al debito compenso tra le annate fertili e le sterili, il suolo Valsesiano produce appena quanto basti ad alimentare per tre mesi dell'anno li suoi abitatori. A questa deficienza supplisce in parte il latte, il butero ed il formaggio, non che l'uso delle carni fresche e salate delle bestie grosse e piccole, che stante l'abbondanza dell'erba e del fieno, si allevano in gran numero. ... Or bene, calcolando per un quarto l'alimento che si trae dagli armenti, e che altro quarto venghi somministrato dall'agricoltura, ne segue che la metà del vitto necessario deggiono i Valsesiani comprarlo fuori della loro provincia" (26).

L'attività mineraria, conosciuta in Valsesia sin dai tempi più antichi e che, a costo di immense fatiche, sfruttava i piccoli giacimenti d'oro, d'argento e di rame sparpagliati qua e là nelle viscere del Monte Rosa, era controllata direttamente dallo Stato e, comunque, non era sufficiente a sollevare gli abitanti della valle da una situazione di cronica indigenza (27). Altre attività lavorative, peraltro di carattere estremamente modesto, si limitavano alla lavorazione del latte, del legno, della canapa, della lana e del ferro. Una particolare produzione artigianale riguardava i lum e le ribebbe (28), che venivano largamente esportati in altre province e all'estero.

Sin dai tempi più lontani le esigenze della sopravvivenza (ma anche un puro e semplice desiderio di emancipazione) spingevano i più ardimentosi ad emigrare altrove, lasciando a casa le donne, gli anziani e i giovanissimi, col compito di crescere questi ultimi, curare le terre, il bestiame e le altre poche cose rimaste. Secondo una stima abbastanza attendibile, alla fine del '700 circa un terzo della popolazione valsesiana, valutata allora in poco più di 34000 persone, era emigrata alla ricerca di un lavoro.

L'emigrazione era essenzialmente maschile e i flussi erano soprattutto diretti verso la Valle d'Aosta e la Francia, raggiungibili, solo in taluni periodi dell'anno, attraverso i valichi d'alta montagna. Alcuni di quegli stessi passaggi naturali, ora utilizzati soltanto per fini escursionistici, che nei tempi più antichi avevano permesso l'immigrazione dal Vallese delle popolazioni Walser, le scorribande dei predoni provenienti dalla Valle Anzasca o, più semplicemente, lo spostamento delle greggi da un pascolo all'altro.

La via della pianura era infatti troppo lunga e densa di insidie di ogni genere, per cui gli emigranti preferivano affrontare i disagi di una traversata alpina, peraltro a loro più familiare, che non affrontare l'incognita di un percorso a loro sconosciuto e forse, a suo modo, altrettanto ostile.

La condizione delle donne rimaste nella valle era quindi legata ad un lavoro estenuante, che lasciava poco spazio a qualsiasi altro differente stimolo. Il Canonico Nicolao Sottile, a proposito delle donne valsesiane, nel 1802 scriveva:

"Le donne della Valsesia, che non sortono mai dal loro paese, sono assai più di noi vicine allo stato semplice della natura, sono in qualche modo nell'infanzia della società ....L'ozio è sconosciuto ... Il lavoro è il duro peso quotidiano... I lavori campestri donano ovunque piaceri teneri, innocenti, utili, che mille e mille abitanti delle città sono abbastanza sgraziati di non conoscere".(29)

Dunque, non sempre si soffriva la fame, ma il piatto di minestra costava non poche fatiche. E nella comune concezione delle popolazioni locali il "benessere" creato dal lavoro doveva, a sua volta, autoriprodursi o, come si direbbe oggi, i risparmi dovevano essere impiegati in investimenti produttivi, con l'accrescimento di quel tanto di ulteriori "proprietà" che avrebbero consentito un impiego più completo delle braccia disponibili e allontanato sempre più il timore di dover dipendere da altri. La maggior parte degli atti d'acquisto di prati, boschi e coltivi, trovavano quindi la loro origine non tanto in un banale desiderio di acquisire nuove proprietà, quanto nell'innato istinto delle semplici genti di montagna di garantirsi un maggior grado di autonomia e di autosufficienza.

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Dal documento notarile del 1796 risulta che Pietro Giuseppe era, all'epoca, separato dai genitori ormai da 24 anni, per cui si potrebbe presumere che a tale distacco abbia fatto presto seguito il matrimonio con Maria Domenica. Se quest'ultima ipotesi fosse attendibile, nel 1804, al momento del decesso del capo famiglia, i coniugi De Marchi avrebbero già vissuto insieme per circa 32 anni, mettendo al mondo quattro figli "naturali e legittimi" che, peraltro, alla morte di Pietro Giuseppe, erano ancora "in pupillare età". Se ne dedurrebbe, quindi, che i quattro ragazzi fossero nati solo nel corso degli ultimi 20 anni, mentre nei precedenti 12 di matrimonio, o la coppia non aveva ancora avuto figli (ipotesi alquanto improbabile, date anche le risultanze degli anni successivi), oppure vi erano state altre nascite di figli non sopravvissuti a lungo. Quest'ultima tesi potrebbe essere la più plausibile, considerato anche l'elevato tasso di mortalità infantile esistente a quei tempi.

Quindi Maria Domenica, rimasta vedova a meno di cinquant'anni d'età, con quattro figli ancora minorenni, avrebbe avuto sulle spalle anche il peso di altre precedenti maternità, conclusesi, in tali casi, dolorosamente. D'altro canto, a quei tempi, la famiglia numerosa era considerata, come peraltro lo è tuttora in molte aree di persistente sottosviluppo, anche una vera e propria esigenza di vita. I disagi ambientali della valle, le fatiche di un duro lavoro e le malattie, portavano ad una pesante selezione naturale che falcidiava i più deboli e riduceva le possibilità di disporre, un giorno, delle "braccia" necessarie a garantire la continuità del lavoro e del benessere familiare. Le epidemie colpivano, in modo particolare, i più giovani, ai quali le tradizioni religiose locali riservavano, alla fine, una comune sepoltura sotto il pavimento delle chiese principali. Da una statistica effettuata agli inizi di questo secolo risultò che, mediamente, nel periodo dal 1600 al 1800 il 20 per cento dei bambini valsesiani non raggiungevano la maggiore età.

La copiosa prole era ritenuta, quindi, a suo modo, un vero e proprio bisogno che, nella visione apparentemente e forse tristemente cinica di un'epoca priva delle garanzie assistenziali oggi disponibili, consentiva di sperare nella sopravvivenza di un sufficiente numero di figli che assicurassero una serena vecchiaia ai genitori, nonché il mantenimento delle proprietà familiari.

Il notevole progresso verificatosi nel XX secolo ha portato, nei Paesi più ricchi, ad un generale aumento del benessere collettivo, cui ha fatto spesso riscontro un graduale e sistematico abbassamento del tasso di accrescimento della popolazione. Nelle aree più povere, invece, la crescita si mantiene tuttora elevata e determina, nel suo complesso, una preoccupante crisi di sovra-popolazione. Qualcuno ora sostiene che la scarsa natalità riscontrata nelle zone più ricche sia anche il frutto di un particolare e generalizzato egoismo "della coppia", che non vorrebbe sacrificare il desiderio di "godersi la vita" di fronte a un eccessivo impegno nei confronti della prole; ma, forse, si tratta invece di una pura e semplice variante di quello stesso egoismo che nei tempi antichi portava la stessa coppia a procreare quanti più figli, con il prevalente fine (a voler prescindere da considerazioni di carattere religioso) di garantirsi un futuro più sereno. In sostanza, i figli costituivano anche una specie di previdenza assicurativa, in un certo senso antesignana degli attuali "fondi pensione".

Certamente i tempi erano allora difficili per tutti, ma particolarmente per la donna, generalmente costretta a svolgere il duplice ruolo di lavoratrice "a tempo pieno e alla pari" e di madre di una numerosa figliolanza.

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Dopo la scomparsa del marito, Maria Domenica riprese dunque il suo ancor più duro lavoro di tutti i giorni. Da brava "rejiôra" (reggente della casa), coltivava i campi, curava il taglio dei prati e la raccolta del fieno, produceva il burro, la "mascarpa" (ricotta) e le "tome" (tipici formaggi valsesiani), accudiva il bestiame e mandava avanti la famiglia, come aveva sempre fatto e come avevano sempre fatto tutte le altre donne che per generazioni e generazioni l'avevano preceduta. I figli e le figlie, benché ancora in giovane età, lavoravano anch'essi intensamente e, tutto sommato, le cose non andavano poi del tutto male; anzi, la famiglia riusciva a realizzare anche taluni risparmi. Dei quattro figli, quelli che particolarmente preoccupavano Maria Domenica erano i ragazzi, Giuseppe e Franco Antonio, di salute precaria e già inconsciamente affetti dai primi sintomi di una malattia, forse la tubercolosi, che nel volgere di pochi anni li avrebbe inesorabilmente condotti, ancora minorenni, alla morte.

Pietro Giuseppe, al momento di redigere il testamento, aveva nominato Maria Domenica e il cappellano della vicina frazione di Quare, Don Pietro Belli, tutori dei quattro giovani, certo così di trovare in quest'ultimo un fedele e disinteressato garante dell'assistenza spirituale e materiale di cui gli orfani avrebbero potuto aver bisogno nei momenti di particolare necessità. Don Belli rappresentava infatti, nella micro-realtà di Camproso, l'autorità, la rettitudine, la cultura e la saggezza. Le prime due qualità gli derivavano di diritto dall'abito che portava; le seconde, dalla capacità di leggere e scrivere e dalla conoscenza, appresa sin dagli anni del seminario, delle "cose più difficili". Un sostegno, quindi, di prim'ordine che, fra l'altro, proveniva da una persona che godeva della stima e della considerazione dell'intera valle.

D'altro canto il rapporto che i Valsesiani in genere avevano a quel tempo con la Chiesa cattolica e con i suoi ministri, era eccellente e, forse, molto più devoto di quanto non fosse in altre vallate alpine. Ne sono ancora palese testimonianza le varie decine di chiese, di cappelle e di oratori e le innumerevoli piccole edicole sparse nei paesi del fondovalle, sulle sommità e sui fianchi dei monti e lungo tutte le strade e i sentieri. Questa dovizia di luoghi e di testimonianze di culto sorprende l'occasionale visitatore della valle, che non si aspetta certamente di trovare, ad esempio, tre chiese distanti fra loro poche centinaia di metri in paesi che, al giorno d'oggi raggiungono a malapena un centinaio di abitanti e che, al tempo del loro massimo sviluppo, potevano contare al massimo 300 persone. La maggior parte di questi edifici religiosi, costruiti in solida pietra e coperti da pesanti piode, sono corredati di antichi affreschi, quadri e preziose statue di legno, la cui ricchezza sembra stridere con lo stile di vita estremamente spartano che traspare dalle antiche case contadine. La religiosità dei Valsesiani è descritta, seppure alquanto enfaticamente, dal Canonico Sottile nel suo "Quadro della Valsesia":

"..I Valsesiani sono divoti, e la loro religione ha innalzato in mezzo alle loro montagne, intorno alle loro misere case bellissime chiese all'Ente supremo. Là non è confusa l'abitazione dell'uomo con quella d'un Dio: là l'orgoglio e il fasto dei particolari non gareggia coi monumenti ch'eresse alla Divinità l'amore e la pubblica riconoscenza. Comuni intere sono coperte a paglia, ma il tempio della Divinità si erge maestoso fra quei tugurj coperto a piode, ed annuncia al forestiere se non la grandezza di colui che l'abita, almeno i grandiosi sforzi de' suoi adoratori. Non si ritrova argenteria nelle case de' privati; ma sono d'argento, od almeno erano, i vasi inservienti ai misterj augusti della Religione. Tutti vanno vestiti in lana, oppure in tela grossolana; ma i ministri del Signore non compajono all'altare che con ornamenti di seta, e ne' giorni alla religione più sacri, con ornamenti tessuti in argento ed oro. La liberalità del popolo provvede al mantenimento delle sue chiese e de' suoi ministri; nè mai si vede in esse quella spilorceria, quella lordura indecente che dispiace nelle case dei privati, ma che muove a sdegno nel tempio di Dio...".(30)

Quello di Don Pietro era dunque l'unico appoggio, esterno alla famiglia, su cui Maria Domenica avrebbe potuto contare nei momenti di bisogno. Pietro Giuseppe aveva infatti anche un fratello al quale, in punto di morte, aveva lasciato in eredità l'uso della fucina, ma i rapporti fra i due De Marchi non erano mai stati dei migliori e volendo nominare un secondo tutore per i propri figli, Pietro Giuseppe non scelse il fratello, bensì il cappellano del luogo.

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Nonostante le avversità incontrate in seguito alla scomparsa del marito e a causa delle varie malattie dei due figli maschi, Maria Domenica, lavorando intensamente e risparmiando soldo su soldo, riuscì ad acquistare altri piccoli appezzamenti di terreno e ad accrescere le proprietà familiari. Nel gennaio del 1806 fu la volta di due prati venduti dai fratelli Giuseppe e Benedetto Giacobini. In una di queste proprietà esisteva un oratorio dedicato a S. Antonio abate, che venne così a far parte delle proprietà della famiglia De Marchi. Il tutto costò 118 lire "di Milano", pagate da Maria Domenica nel termine di dodici mesi.

Due anni più tardi si aggiunsero una decina di prati e di coltivi di proprietà della Congregazione di Carità di Varallo (poi trasformatasi in "Ospedale di Varallo"), ubicati a Camproso e nella vicina frazione di Quare. Occorre ricordare che nella media e nell'alta Valsesia, sul finire del XVIII secolo, si accentuò la parcellizzazione del territorio, sia per effetto dei vari frazionamenti ereditari, che per la cessione ai privati di molti piccoli appezzamenti di proprietà delle opere assistenziali o religiose o, infine, della stessa Comunità.

Il 28 aprile del 1808, dunque, Maria Domenica, in compagnia di Don Belli, si recò a Varallo nello studio del Notaio Bevilaqua e, presenti in qualità di venditori tutti gli amministratori della Congregazione di Carità del capoluogo valsesiano, si impegnò a pagare, nel periodo di otto anni, la somma di 900 lire "di Milano" a fronte dell'intero acquisto. In questa circostanza, Don Belli si premurò di fornire la propria garanzia fidejussoria al fine di tranquillizzare i venditori circa il regolare pagamento di tutte le rate e dei relativi interessi, concordati nell'atto di compra-vendita (doc. N. 7).

Non è possibile stabilire se la credibilità della garanzia prestata da Don Belli fosse dovuta solo al prestigio che gli derivava dall'essere sacerdote, o se a questo avesse fatto riscontro anche una solida base economica personale; resta comunque il fatto che i rappresentanti della Congregazione di Carità si fidarono dell'impegno così ottenuto, non sollevarono altre obiezioni e cedettero a Maria Domenica i vari terreni in questione. La famiglia De Marchi poteva quindi aggiungere altre tessere al mosaico di piccole proprietà già in suo possesso.

I rapporti intercorsi successivamente fra Don Pietro e la famiglia De Marchi presentano alcuni lati non del tutto chiari, che si prestano a varie ipotesi interpretative. In una nota, senza data, scritta di pugno dal sacerdote a margine del testamento di Pietro Giuseppe, si legge che "La carica di Tutore addossatami fu a mio riguardo di grave incomodo e dispendio; quindi dalle eredi Figlie sostituite ai Fratelli suoi morti in pupillare età venni corrisposto con inaudita ingratitudine".

Don Belli, almeno a quanto sembra, doveva avere accumulato un notevole rancore nei confronti della famiglia De Marchi per suggerirgli di lasciare, non si sa a chi e per quale fine, un tale scritto. Stando alle sue affermazioni, la tutela dei figli minori di Maria Domenica gli aveva procurato notevoli disagi e, dopo la prematura morte dei due figli maschi, le loro sorelle, Marta e Marianna, avrebbero mostrato nei suoi confronti una "inaudita ingratitudine". Una frase, dunque, piuttosto pesante ed alquanto sibillina; che tale sarebbe rimasta se dall'esame delle carte della casa di Camproso non fossero emersi ulteriori elementi che possono ora fare maggior luce su ciò che potrebbe aver determinato la dura reazione del sacerdote.

A questo punto, peraltro, si inserisce un secondo scritto, ancor più curioso del primo, redatto da uno scrivano del luogo su indicazioni fornitegli da Maria Domenica. Quest'ultima, infatti, era del tutto analfabeta e per poter esternare le sue ragioni per iscritto, fece ricorso a un "...amicho è mi ha fatto il piacere" (doc. N. 6). Si tratta della testimonianza sicuramente più interessante fra tutte quelle ritrovate; sia per la forma usata da Maria Domenica nell'esprimere i suoi accalorati pensieri, che per la descrizione meticolosa di quanto la donna avrebbe fatto per sdebitarsi dei favori ricevuti dal sacerdote. La data dell'8 aprile 1803, figurante all'inizio della "mimoria" di Maria Domenica, è sicuramente errata e, per le ragioni che emergeranno più chiaramente in seguito, si deve ritenere che lo scritto sia stato redatto solo alcuni anni più tardi, forse addirittura nel 1818. D'altro canto "l'amicho" di Maria Domenica sapeva certamente scrivere ma, quanto alla forma e all'ortografia, la sua preparazione lasciava molto a desiderare. La donna inizia la sua accalorata "requisitoria" affermando di aver più volte ed inutilmente richiesto a Don Belli di farle sapere quanto avrebbe dovuto riconoscergli per il suo "incomodo". Il sacerdote, per contro, avrebbe sempre rifiutato qualsiasi somma di denaro e, pertanto, Maria Domenica pensò di sdebitarsi colmando Don Belli di cortesie e di piccoli favori.

Per vari anni, dopo la scomparsa del marito, procurò al prete burro, formaggi, prosciutti, castagne, frutta, vino e tanti altri generi alimentari della valle. Zappò i suoi campi e li concimò a dovere, si recò varie volte a decine di chilometri di distanza per ritirare capre, maiali e mucche che trasferì nella stalla di Don Belli o, a seconda dei casi e della stagione, portò sugli alpeggi d'alta montagna. Gli fece regalare dal suo "Genere giovanni .. una pipa per fumare di qualche valore" e, sul finire dell'autunno, nel momento in cui le marmotte si apprestano ad entrare in letargo e sono particolarmente ricche di grasso, gliene regalò una. Evidentemente questo simpatico animale, una volta che fosse ben pasciuto, era considerato a quel tempo una vera prelibatezza per il palato o, forse, il suo grasso era ritenuto particolarmente utile come cura medicamentosa contro dolori reumatici ed artritici.

Insomma, Maria Domenica era più che convinta di avere fatto il possibile per ricambiare "la pena e l'incomodo" di Don Belli, che, peraltro, "...diceva che non voleva niente".

A chi fosse indirizzato lo scritto di Maria Domenica e, per contro, come mai Don Belli avesse ritenuto necessario apporre la sua sibillina nota sul testamento del povero Pietro Giuseppe, non è dato di saperlo. Evidentemente, si era creato nel tempo uno stato di tensione fra il sacerdote e la famiglia De Marchi tale da giustificare il ricorso a questo insolito e curioso tipo di esternazioni. Le cose, a questo punto, rimarrebbero prive di una ragione logicamente attendibile e le parti potrebbero ricevere da un'eventuale giuria l'assoluzione per "mancanza di prove", che lascerebbe il tutto nel buio più assoluto, se non fosse emerso un terzo documento, datato 26 febbraio 1818, che fornisce una chiave di lettura certamente chiarificatrice dell'intera vicenda. Secondo le risultanze dell'atto di compravendita stipulato otto anni prima fra l'Ospedale di Varallo e Maria Domenica, quest'ultima si era impegnata a ripagare l'importo di 900 lire, appunto in otto anni. Don Belli, a sua volta, si era costituito garante nei confronti dei creditori. Il nuovo documento consiste in una circostanziata dichiarazione, rilasciata a Maria Domenica dal liquidatore dei beni della Congregazione di Carità, in cui viene fatta la cronistoria di un sollecito di pagamento avanzato nei confronti della stessa Maria Domenica per alcune rate non pagate a fronte del debito contratto nel 1808. Si dice, inoltre, che la donna, del tutto sorpresa per l'accaduto, avesse sostenuto di aver a suo tempo e puntualmente consegnato il denaro necessario a Don Belli, perchè quest'ultimo lo versasse ai creditori. Ma, stando sempre allo stesso documento, il sacerdote si guardò bene dall'eseguire l'incarico, sostenendo di aver trattenuto le somme presso di sé a rimborso dei crediti, materiali ed immateriali, da lui vantati nei confronti della donna. La dichiarazione dell'Ospedale di Varallo diceva testualmente:

"Varallo lì Ventisei Febbraio 1818. Dichiaro io sottoscritto Architetto Liquidatore, d'essersi circa tre settimane fà portata da me la Maria Domenica Mazia ved.va del fu Pietro Demarchi, di Campertogno per pagare a questo V.do Ospedale un da essa creduto residuo debito capitale di L. 300 Mil.si come dall'Instrumento 28 Aprile 1808 rogato Bevilaqua, asserendo d'aver pochi mesi dopo incontrato il debito capitale di L. 900 cui ind.o Ins.to, pagate a conto L. 600 col mezzo del Sig. Sacerdote Don Pietro Belli di Moglia, al quale le aveva rimessa detta somma. Ricercai per qualche tempo nei Libri, e sua partita, se in realtà trovavasi detto pagamento eseguito, e nulla riscontrai nè dall'allora Tesoriere, nè dalla Cessata Amminis.ne, perciò la invitai a volersi portare dal sudd.to Sig. Sacerdote Belli, il quale se aveva fatto il pagamento succitato, avrà con esso la debita quittanza a chi avrà pagato. Nel giorno undici corrente, m'incontrai in casa del Sig. Giò. Anto. Fagnani alla mattina con detto Sig. Sacerdote Belli, e lo interpellai di detto affare se era vero il pagamento fatto, ed il medesimo alla presenza del sud.to Sig. Fagnani mi rispose, che essendo stato Tutore o Curatore dei figli di detta ved.a Demarchi, essere vero d'averle consegnate le succitate lire 600 Mil.si, ma stante l'amminis.ne avuta, esso andava in credito, perciò se li ritenne, avendo di rispettivi conti da dimostrare; ed io in allora le soggiunsi tanto peggio per questa donna che credevasi con circa L. 400 che seco aveva di estinguere tutto il debito cogli interessi, e così non debba ancora pegli interessi maturati d'anni nove: e il med.mo mi ha risposto che detta somma pagasse secondo il fitto consueto dei beni acquistati, e non come interessi che era molto di più, al quale le risposi che l'amminis.ne dello spedale non farebbe cosa inaveduta contro un Instrumento con buona facoltà di perdere sovra gli interessi, e così terminò. Di quanto sovra posso attestarlo ovunque sia duopo, anche in giudizio come lo stesso potrà dire anche il sud.to Sig. Fagnani ora assente, e mi sottoscrivo. Giuseppe Marchini Liquidatore dello Spedale, incaricato per l'esiggenza dei crediti, col Sig. Priore."

Dunque, una storia alquanto ingarbugliata, dalla quale non è facile stabilire chi avesse ragione e chi torto, ma che chiarisce meglio il motivo dei primi due scritti esaminati in precedenza. Rimane il mistero sul come siano stati raccolti e sul perché questi documenti siano stati così a lungo conservati nella casa di Camproso. A prima vista sembrerebbe infatti trattarsi di due appunti personali, redatti a puro titolo di memoria e privi di un preciso destinatario. Per quanto riguarda la nota di Don Belli, questa compare in calce a una sola delle due copie del testamento di Pietro Giuseppe ritrovate nel carteggio. Si può ipotizzare che l'esemplare contenente lo scritto sia stato raccolto e conservato assieme alle altre carte da una terza persona che, probabilmente, aveva ritenuto necessario ricostruire l'intero iter della vicenda, forse a posteriori o, forse, per svolgere un intervento mediatore nella soluzione della controversia sorta fra la donna e il sacerdote. La stessa ipotesi può essere considerata in merito alla "mimoria" di Maria Domenica. Infatti, se la nota fosse stata inviata a Don Belli, difficilmente si sarebbe potuta trovare nella casa di Camproso e, peraltro, dati i tempi, si dovrebbe escludere che ne sia stato redatto un secondo esemplare ad uso di "archivio" di Maria Domenica.

Anche se, comunque, le carte non riportano l'intero svolgimento della vicenda, nè del suo epilogo, si può facilmente immaginare quale sia stata la tensione in atto fra i vari personaggi coinvolti e quali ne siano state le conseguenze. Al momento della scoperta del presunto misfatto di Don Belli, Maria Domenica doveva aver ormai superato i 60 anni; i figli maschi erano scomparsi a causa delle malattie e le due figlie rimaste erano ormai da tempo maggiorenni e maritate. Marta era accasata con Giovanni Mattasoglio, proprio il "genere" di Maria Domenica che aveva regalato la famosa pipa al sacerdote. Con ogni probabilità furono le stesse figlie della donna a contestare a Don Belli l'appropriazione indebita del denaro dovuto all'ospedale, spingendo quindi il prete ad esternare il suo disappunto con la famosa frase che parla della "inaudita ingratitudine". Sta di fatto che Maria Domenica, non si sa se con denari suoi o se con quelli ottenuti in restituzione da Don Belli, saldò completamente il debito verso l'Ospedale di Varallo, il cui Tesoriere, il 26 gennaio 1819, rilasciò la seguente quietanza:

"Confesso io sottoscritto, a nome e commissione del Sig. Priore di questo V.do Spedale Anto. Uzzino di aver ricevuto dalla Maria Domenica DeMarchi di Campertogno vedova Mazia, Lire cinquecento quaranta di Milano, le quali sono in conto di interessi, e capitale portato da Instrom.to 28 Aprile 1808 rogato Bevilaqua, riservando di passargliene regolare quitanza tosto eseguito il saldo, ed a semplice sua richiesta, per le quali L. 540 le faccio l'opportuna quittanza finale. Liquid.re Gius.e Marchini, per il Sig. Priore Uzzino assente".

Infine, il 25 luglio 1820, lo stesso Tesoriere dell'ospedale rilasciava, davanti al Notaio Giuseppe Pianazzi di Varallo, una quietanza definitiva per le somme dovute da Maria Domenica. Alla stesura dell'atto parteciparono la figlia Marianna, che si dichiarò illetterata, suo marito Carlo Bello e Giovanni Mattasoglio. Anche quest'ultimo disse di essere illetterato.

A prescindere dalle considerazioni che si possono trarre sui comportamenti dei principali personaggi intervenuti in questa vicenda, è curioso rilevare come, per quasi due secoli, siano state religiosamente conservate nella casa di Camproso queste testimonianze. In definitiva, si trattava di controversie da tempo ampiamente risolte e che non avrebbero potuto portare alcuna altra conseguenza ai posteri. Ma, evidentemente, i fatti qui ricordati lasciarono un'impronta particolare nella storia della famiglia De Marchi e forse la conservazione della documentazione più significativa costituì una sorta di preciso dovere, tramandatosi di generazione in generazione e, come si potrà in seguito rilevare, anche oltre.

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Mentre fra Camproso, Quare e Varallo, si dipanava il "giallo" del denaro dovuto, o non dovuto, a Don Belli, nonché di quello comunque spettante all'Ospedale di Varallo, il quadro politico del Piemonte si andava ulteriormente modificando, sulla scia di nuovi importanti avvenimenti interni ed esterni.

Il 1810 segnò l'apice delle conquiste napoleoniche, con l'intera penisola italiana e gran parte dell'Europa sotto l'influenza del governo di Parigi. Nel giugno del 1812, Bonaparte diede inizio alla campagna di Russia e con questa infausta iniziativa che costò alle armate francesi un numero elevatissimo di vittime, decretò l'inizio della sua fine e delle speranze di "grandeur" dell'impero transalpino. Le truppe rimaste, ritiratesi nell'ottobre dello stesso anno dalle steppe russe, subirono successivamente un'altra serie di pesanti sconfitte che, nel marzo del 1814, costrinsero Napoleone ad abdicare, lasciando libero campo alla restaurazione borbonica, affidata a Luigi XVIII. A seguito di tutto ciò, i Francesi abbandonarono la Lombardia nelle mani degli Austriaci, ritirandosi definitivamente sui confini precedenti.

Nel febbraio del 1815, Napoleone, fuggito dal confino dell'Isola d'Elba, tentò ancora una volta di risollevare le sorti dell'Impero, ma la sconfitta di Waterloo, nel giugno successivo, segnò la sua definitiva scomparsa dalla scena europea e l'inizio di un nuovo riassetto politico ed istituzionale che trovò la sua più ampia formulazione nel congresso tenutosi nel settembre dello stesso anno, a Vienna.

".. I principi vincitori si erano radunati prima a Parigi, poi a Vienna per rassettare l'Europa e consolidar la pace, mettendo in bilancia gli affari di tutta Europa, dalla Grecia fin al polo: non avendo più nemico alcuno, dacché il nemico comune era tolto di mezzo ..." (31).

Al riconquistato potere delle monarchie europee fece però presto seguito la nascita di nuovi fermenti libertari, più o meno riconducibili alle ideologie giacobine che avevano a suo tempo dato un forte impulso alla Rivoluzione francese. Si trattò, inizialmente, di manifestazioni locali, spesso soffocate nel sangue e prive di un'unica guida politica e strategica. In Piemonte, come in altre regioni italiane, gli anni 1820-21 segnarono anche l'inizio di alcuni moti, di ispirazione carbonara, che suggerirono, alla fine, al re Vittorio Emanuele I di abdicare in favore del fratello Carlo Felice (32).

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25 - A quel tempo le chiese importanti della zona erano definite cappellanie e la comunità religiosa di Campertogno era costituita da un Arciprete e da quattro Cappellani, in carico alle chiese di San Carlo, della Confraternita, di San Pietro alle Quare e di San Rocco alla Piana. Cfr.: G. Molino, op. citata, pag. 104. La suddivisione territoriale della Valsesia, che aveva fatto attribuire all'abitato di Campertogno, giacente sulla sponda destra del fiume, il nuovo nome di Campertognetto, non aveva comunque modificato l'assetto ecclesiastico preesistente.In merito a Don Pietro Belli, è da rilevare la successiva presenza di un altro sacerdote, con lo stesso nome, che resse la cappellania di Piana Fontana sino al 1895. Cfr.: E. Manni, op. citata, pag. 263 (ritorna al testo)

26 - cfr.: G. Lana, op. citata, pag. 22 (ritorna al testo)

27 - L'attività mineraria venne esercitata per molto tempo in varie località del massiccio del Monte Rosa. Ad esempio, nei pressi di Alagna Valsesia, secondo L. Ravelli, esistevano due cave: "una d'oro e una d'argento. Mentre quest'ultima, denominata di Santa Maria è esaurita, l'altra, quella d'oro, chiamata cava vecchia, fu sfruttata in più riprese per diversi secoli... tra il 1724 e il 1853 fu alle dipendenze dello Stato Sabaudo..." (cfr. anche: Piero Carlesi,"La Valsesia", ed. L'Arciere, Cuneo, 1979). (ritorna al testo)

28 - "La lum era una piccola lucerna di ferro che si portava a mano o s'attaccava al muro per un manico ricurvo, e serviva specialmente nelle stalle ove, durante le lunghe notti invernali, le donne stigliavano o filavano. Il lucignolo, che sporgeva da un becco unito al piccolo piatto ovale, era alimentato ad olio di noce.... La ribeba è lo scacciapensieri, o zampogna dei Toscani, ... un minuscolo strumento musicale di ferro formato d'una spranghetta di ferro ripiegato in tondo e le cui due estremità si prolungavano in due branche parallele, approssimative; in mezzo ad esse ricorreva la linguetta, una lastretta di ferro acciaiato ccll'estremità ripiegata all'infuori a squadra (grilletto). Tenendola con la sinistra ed appoggiando le branche alla rastrelliera dei denti semiaperta, facendo quindi vibrare col polpastrello del pollice destro il grilletto e spingendo sopra la linguetta l'alito modulato quasi a modo di solfeggio si ottenevano dei ronzii armoniosi". Cfr.: L. Ravelli, op. citata, pag. 236. Ancora, il Lama (op. citata, pag. 199) riferisce che nel 1840 fra Mollia e Riva Valdobbia "...sonvi per altro, e degni di rimarco, nel casale di Boccorio 10 fucine occupate una volta da 40 ed ora da 10 fabbricatori di zampogne, volgarmente dette ribebbe. ...Oltre lo smercio che se ne fa in Vallesesia, servendosi di essa la pastorella seduta in crocchio colle compagne ad allegrarsi col melodioso suono che se ne tragge, molte casse delle medesime sono condotte in ogni anno a Genova, da dove s'imbarcano per l'Inghilterra, indi per l'Africa, e l'America. Colà al rezzo di qualche palma o di canneti, oh come riescono que' lavoratori di sollievo e conforto nelle diuturne fatiche, nel rancor della schiavitù e nell'ansia nostalgica!" (ritorna al testo)

29 - cfr.: C. Sottile, op. citata, pag. 106 (ritorna al testo)

30 - cfr.: C. Sottile, op. citata, pag. 108 (ritorna al testo)

31 - cfr.: Cesare Cantù, "Compendio della Storia Universale", ed. G. Agnelli, Milano, 1874, pag.668. (ritorna al testo)

32 - ".. In Piemonte Vittorio Emanuele aveva creduto fare assai col non castigare coloro che avevano favorito o servito l'impero, e ripristinò le leggi, le consuetudini, le persone prima del 96, aggiungendovi i mali moderni della Polizia, della coscrizione, dell'accentramento. ... Varj uffiziali si accordarono per ottener la Costituzione spagnuola, la proclamarono ad Alessandria, e il re, prevedendo che ciò darebbe un titolo agli Austriaci di invadere il Piemonte, abdicò." Cfr.: C. Cantù, op. citata, pag. 672. (ritorna al testo)

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