La Storia di Montevecchio             
                    dai  capi nuragici al novecento

In Sardegna è esistita un' unica, vera grande industria: quella mineraria. La ricchezza del suo sottosuolo era immensa e fece gola a tutte le popolazioni che approdarono alle sue coste, dagli etruschi ai punici, dai romani agli iberici fino a pisani e ai genovesi. Si estraeva rame, argento e piombo e il giacimento di Montevecchio era conosciuto sin dai tempi della civiltà nuragica, come testimoniano due protonuraghi esistenti nella zona e riconducibili al 1.600 a.C. Possiamo dire che i primi minatori siano stati gli uomini del neolitico recente(2.70 a.C.) i quali, in realtà, non scavavano ma si limitavano a cercare in superficie certe pietre duttili, come l' ossidiana (roccia vetrosa di origine vulcanica) oppure il granito o il quarzo con cui fabbricare attrezzi per cacciare o per difendersi dai nemici. Durante la buona stagione di quell' epoca i  lavoravano "sotto le roccia", cioè mettevano bottega in anfratti terrazzati, là dove la roccia era più ricca di minerale da coltivare e trasformare. Reperti antichissimi di tale periodo, raffigurano lance, frecce, ma anche oggetti ornamentali si possono ammirare nel museo archeologico di Cagliari. All' epoca del bronzo recente (1.200-900 a.C.)sembra invece imputabile "il più antico caso d'infortunio conosciuto nella storia drammatica della Sardegna" (Lilliu). Erano i resti di un minatore rinvenuti sotto un masso franato vicino alla Miniera di Funtana Raminosa. Fu l' uomo nuragico a scoprire i metalli e a sperimentale che, fondendo il rame con lo stagno, si poteva ottenere, il bronzo, assai più prezioso e di grande effetto, buono per oggetti ornamentali e addirittura per adorare le divinità. L'occupazione fenici della Sardegna fu abbastanza misteriosa ma questo straordinario popolo di viaggiatori lascio lascio qualche indizio del suo interesse per i minerali, come dimostra il pane di piombo trovato a Monastir, che reca impresso a caldo la lettera fenicia "zain". Dei Cartaginesi invece, si sa che effettuarono sbarchi in Sardegna e che costruirono tante città sulle coste tra cui Karalis, Bithia , Nora, Tharros, e Neapolis, molto vicina quest' ultima alla miniera di Montevecchio. Si sa che utilizzarono le miniere dell' Iglesiente e che scavarono, a cercar galena nell' area di Antas, città dove sorgeva uno splendido Tempio dedicato a Sardus Pater. Tramontata  la stella di Cartagine fu la volta dei Romani, i quali arrivarono nel terzo secolo a.C. e quando scoprirono tutto quel ben di Dio, sotto forma di giacimenti di piombo,si diedero subito ad un intesa attività estrattiva per rifornire Roma del prezioso materiale, necessario alle tubature di acqua potabile della città. I metalli sardi si rivelarono preziosi anche per la produzione di armi e di armature, indispensabili ai Romani per la loro conquista del mondo.Anche a Montevecchio sono state ritrovate testimonianze dell' epoca romana in zona "Piccalinna", (dal rumore del picchio che batte nella legna). Un antica miniera romana è una delle prime cose che si incontrano nella visita della Miniera di Montevecchio. La chiamano "sa rocca stampara", che significa "roccia scavata" da cui si attingeva il materiale grezzo. Nel medioevo furono soprattutto i Pisani a trarre beneficio dalle miniere. Nell' 700sabaudo la miniera, risveglio l' interesse di imprenditori minerari europei, in particolare dello svedese Gustavo Mandell. Ma alla fine del' 700 il fuoco della Rivoluzione Francese arse l' Europa, spegnendo ogni interesse per la coltivazione di giacimenti di minerari sardi finchè, alla metà dell' ottocento accadde qualcosa di nuovo.

Montevecchio alla metà dell' ottocento

A scrivere l' inizio della storia di Montevecchio, in tempi recenti, fu un prete, Giovanni Antonio Pischedda, nativo  di Tempio, in provincia di sassari. Don Pischedda non è da immaginare come un pasciuto parroco di paese a null'altro dedito che alla salvezza delle anime. Si dice al contrario che fosse attratto dagli affari, tanto da convincersi a seguire suo padre a guspini , un paese vicino a Cagliari, per commerciare in sughero e pelli. Là giuntò senti magnificare, dagli anziani del posto, la ricchezza dei filoni minerari di Montevecchio, e tanto brigò che riuscì ad ottenere un permesso di ricerca e di scavo per 25 quintali di galena, sul filone di Montevecchio. Quella località era allora completamente desertica, ricoperta solo di vegetazione ricchissima e abitata da animali selvatici che li dimoravano felicemente, al riparo dall' uomo. Era l' ottobre del 1842. Il nostro parroco fiutò subito l' affare ma comprese che per far fruttare l' impresa doveva trovare dei capitali adeguati. Le condizioni economiche della Sardegna non potevano esserli d' aiuto, cosi lui si spinse fino a Marsiglia, città che godeva in quel particolare periodo di un particolare attivismo economico e imprenditoriale. Decise di presentare il suo progetto alla ricca comunità italiana. Ebbe fortuna e trovò presto quattro soci. Insieme a loro costituì una società italo - francese con un capitale iniziale di 8.000 franchi, la cui metà fu versata in contanti dai soci finanziatori. L' altra metà era costituita dalle miniere di Montevecchio e di Arenas, i gioielli  di Don Pischedda. L' anno successivo vennero assoldati 30 operai e si incomincio a scavare ma il capitale bastò appena per i  lavori preparatori. Alcuni soci misero di nuovo mano al portafoglio, sborsarono altri 12.000 franchi ma ne ricavarono poche decine di quintali di galena.  Un vero flop. Correva il mese di Giugno dell'anno 1844, Pischedda , di nuovo a Marsiglia alla ricerca di altre soluzioni, s'imbatte in un giovane sardo, dinamico, pieno d' iniziativa e di entusiasmo giovanile. Lo considerò un dono dal cielo e gli racconto tutto, coinvolgendolo nella sua avventura. L' uomo si chiamava Giovanni Antonio Sanna ed era destinato ad un avvenire molto speciale grazie proprio alle miniere di Montevecchio, di cui sarebbe diventato presto padre fondatore.

 

Giovanni Antonio Sanna  un imprenditore illuminato

Il giovane Sanna era per così dire fuggito da sassari, sua città natale, dove già si prospettava una tranquilla vita di provincia, senza problemi e senza emozioni. Ma Sanna era un ragazzo intelligente e attratto dal nuovo  che per la prima volta si affacciava dalla sua isola: gli irresistibili fermenti politici, le aperture sociali,  il gusto del rischio. Spregiudicato quanto basta, era quello che si dice un imprenditore nato. La sua fortuna comincio proprio con l' incontro di Don Pischedda. Dal racconto del parroco intuì che quello delle miniere poteva essere l' affare del secolo e decise d' impadronirsene. A Marsiglia  e a Torino trovò facilmente i capitali necessari ad avviare le coltivazioni ed ad ottenere le concessioni, ma il governo sabaudo dichiarò che "...il Governo del Re di Sardegna non avrebbe accordato la concessione se non ad una società nazionale che fosse provveduta di capitale proprio di almeno mezzo milione di lire piemontesi". Il nostro giovanotto non si scoraggiò e ,bussò a molte altre porte e a Genova, presso i banchieri Massone, trovò il capitale richiesto. Costituì un pacchetto azionario di duemila azioni, ne riservò per  sè  ottocento, ne acquistò ottanta divenendo il socio di maggioranza. C' era però qualche problema:bisogna trovare la maniera di compensare il Pischedda, in modo congruo, lasciandolo fuori dall'affare. Non fu cosa facile; ne nacquero liti giudiziarie che non impedirono al Sanna di vincere, diventando presto un uomo ricchissimo  e molto invidiato. Amico di Garibaldi  e di Mazzini, giornalista e parlamentale aveva, oltre alla ricchezza, tutti i numeri per essere un vero imprenditore di respiro europeo. Sposato con quattro figlie, le volle vicino, con i  loro mariti, a dividere questa sua straordinaria avventura.