Pievebovigliana
Storia |
TRADIZIONI Testimonianze relative alla presenza di antiche fornaci per laterizi Riteniamo che la presenza di numerose fornaci (almeno otto) in un territorio abbastanza ristretto come quello di Monte San Savino nel comune di Pievebovigliana (MC), possa essere presa come esempio per un approfondito studio riguardante una fase culturale che ben si colloca nel settore dell’archeologia industriale. La
particolare conformazione geologica della zona a sedimenti
argilloso-sabbiosi, l’enorme disponibilità di legname delle zone
boschive, la presenza di numerose sorgenti e rivoli d’acqua e la mano
d’opera capace di svolgere lavori che richiedevano la forza e prestanza
fisica particolari, hanno caratterizzato un’attività la cui origine
potrebbe storicamente essere collocata ad almeno 2.000 anni fa. Le
fornaci a laterizi hanno quasi le stesse caratteristiche di impianto, di
preparazione del materiale e di cottura di quelle esistite in epoca
romana, come per la fornace rinvenuta presso Piacenza (I sec. a.C.) Le
accortezze di preparazione sono le stesse come ricorda Vitruvio nel suo
trattato (40 – 32 a.C.). Le fornaci di Monte San Savino smisero
l’attività ai primi del ‘900. Le ultime in ordine di tempo furono: a
Colle del Fiano la fornace Pallotta, la quale smise nel settembre del
1944; a Valle dei Lati la fornace di Domenico Conti detto “Luca”
terminò l’attività nel 1950, lavorando negli ultimi anni
saltuariamente. La
ricostruzione di uno spaccato del nostro passato è ancora possibile. In
questi luoghi immersi e inglobati nella vegetazione fitta del bosco,
rimangono ancora i residui delle strutture di queste fornaci. Un
passato non tanto lontano, i cui personaggi che l’hanno vissuto
rimangono ancora assorti nel loro silenzio, ricchi di tanta esperienza. Le
fasi della lavorazione L’impasto La terra adatta per la realizzazione di mattoni, coppi, pianelle e quant’altro era l’argilla che dai fornaciai veniva chiamata creta. Essa veniva estratta in autunno, ammassata in un grande covo, poi, passato l’inverno in cui la creta era stata sottoposta alle lunghe gelate, veniva “spasa” al sole in modo da farla sgretolare. L’argilla
doveva essere il più possibile sottile e per questo venivano usati molti
mezzi per sgretolarla (la zappa, la pala, i corvelli) ed infine veniva
fatta passare in mezzo a due cilindri lisci per togliere tutti i granuli
rimasti. Divenuta
sottile veniva messa in una grande vasca (lunga 10-15 metri) e, bagnata
con acqua, veniva calpestata a piedi nudi e girata con le pale. Tolta
l’acqua in eccesso in modo da rendere l’impasto malleabile ma solido,
detto “mardaru”, veniva sbattuto per tre volte in tre pagliai per
amalgamarlo. Poi suddiviso e preparato diversamente in base al lavoro che
si doveva realizzare: se si trattava di pianelle e coppi la lavorazione
era più accurata perché l’impasto doveva essere più sottile, mentre
se si trattava di mattoni o mattonacci, l’impasto poteva essere anche più
grezzo. A
Valle dei Lati, i fornaciai, nel periodo delle piogge, realizzavano grandi
pantani in modo da raccogliere acqua piovana. Con
il trascorrere del tempo il terreno diventava impermeabile e tratteneva
l’acqua che in estate sarebbe servita per la preparazione dell’impasto
delle fornaci.
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