La Stella del Mattino

n°2 ottobre - dicembre

 

Sommario

Presentazione

Federico Battistutta

Lo stolto, l’angelo e la domanda religiosa

 

In cammino

Luciano Mazzocchi

Intelligenza, pudore, carisma. L’ambiente religioso

 

Kosho Uchiyama

Il cammino del cercatore

 

Fabula

Hèléne Michelini

Il muro

 

Canzoniere

Arthur Rimbaud

Veglie

 

Voci

Massimo Beggio

Raccontarsi

 

Lettere

Mauricio Yushin Marassi

Orrore, errore!

 

Schede

A cura di Federico Battistutta, Luciana Mida Della Flora, Jiso Forzani

 

 

La Stella del Mattino

Laboratorio per il dialogo religioso

Nuova serie – trimestrale

n. 2 – ottobre/dicembre 2001

Redazione: Federico Battistutta, Giuseppe Jiso Forzani (coordinatori), Alberto Braida, Luciana Mida Della Flora e Silvia Papi.

Grafica: Gabriella Barbieri

Sede: c/o Libreria "L’equilibrista", via Gaffurio 11, 26900 Lodi

Tel e fax: 0371.424801

E-mail: laequilibrista@libero.it

Abbonamento sostenitore:……..

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Conto corrente postale:…………..

Stampa: Cooperativa sociale "Eredi Gutenberg", Piacenza

Sito web: web.tiscalinet.it/stellamattino, a cura di Andrea Zaniboni

Supplemento a "Servitium", Autorizzazione del Tribunale di Bergamo, n. 47 del 13.11.1986

Direttore responsabile: Lino Pacchin

 

 

Arretrati:

 

Opuscolo di gennaio - marzo

Opuscolo di aprile - giugno

Opuscolo di luglio settembre

 

 

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Presentazione

 

Lo stolto, l’angelo e la domanda religiosa

Federico Battistutta

"Faccia chi può prima che il tempo mute/ ché tutte le lasciate son perdute", dice uno dei numerosi proverbi dedicati al tempo, inteso come trascorrere delle cose e delle vicende umane e non. Succede che detti del genere si affaccino in modo particolare alla mente in un periodo come questo, che contrassegna il passaggio da un anno all’altro. Un proverbio come questo ben si presta come parola di esordio per il presente numero che esce, nostro malgrado, con qualche ritardo. Ciò ci consente però di fare alcune considerazione in più.

L’anno appena terminato ha visto in più occasioni le religioni assurgere a motivo di guerre, con le loro orribili conseguenze. (E vogliamo dire solo guerra, senza adoperare aggettivi qualificativi che stabiliscano, anche solo involontariamente, gradazioni o sfumature differenti). Triste destino è quello nel quale vengono rinchiuse le religioni, nei cui confronti un animo che vuol dirsi religioso non può che indignarsi e ribellarsi. Più che mai dunque urge dialogo religioso: aperto, disponibile, incessante. Come un laboratorio, perché di queste cose siamo tutti, chi più chi meno, principianti e non possiamo far altro che muovere timidi passi. "Gli stolti si precipitano là dove gli angeli esitano a metter piede", dice un verso di Alexander Pope. Non assolviamoci: siamo un po’ angeli e un po’ stolti, senza sapere bene quale parte è di stoltezza e quale angelica; molte, infatti, sono le cose che dobbiamo imparare e più ancora forse quelle da disimparare.

Iniziando a ripetere senza posa la medesima domanda, la più elementare: che cos’è un animo religioso? Non in modo retorico e tanto meno senza rincattucciarci nel proprio foro interiore, ripetendo qualche formula ad hoc, magari intimamente convinti di sapere già la risposta. Imparando invece a riversare nella vita quotidiana questa domanda, perché proprio lì, nella vita quotidiana, con tutti i suoi aspetti, belli o brutti che siano, comunque originali e ordinari al contempo, possiamo percepirla nel suo concreto sviluppo, urtandole contro, laddove il suo apparire come insolubile è in realtà respiro che salva.

Di ciò, in fondo, parla il presente fascicolo, anche se in maniera indiretta.

 

Apre il numero un intervento di p. Luciano Mazzocchi, nel quale viene ripreso l’argomento del cammino religioso dei laici. Tema ricorrente nell’articolo, che prende spunto dalla lettura di alcune pagine toccanti del diario di Raissa Maritain, è il pudore, così come altrettanto discreta e pudica è la forma adoperata - in punta di piedi, si potrebbe dire -, con la quale un religioso ordinato prova a dire la sua riguardo una materia che, a un primo sguardo, dovrebbe risultargli obbiettivamente estranea.

Sulla stessa lunghezza d’onda si colloca anche il testo del maestro zen giapponese Uchiyama, del quale sul numero passato è già apparsa un’interessante intervista. Si tratta questa volta del discorso di commiato dal monastero nel quale aveva svolto la carica di abate. Ma le parole sanno mantenere immutate valore e freschezza non solo nel tempo, ma anche a latitudini geografiche e culturali assai distanti.

Successivamente la rivista apre le sue pagine al piacere del racconto e alla parola poetica. Questa volta lo spazio viene occupato da un breve testo di Hèléne Michelini, ricco di richiami alla pratica dello zazen, e da una celebre prosa poetica dell’altrettanto celebre Arthur Rimbaud.

La sezione "voci", dedicata alle testimonianze, presenta questa volta il racconto in prima persona dell’esperienza, oramai lunga, del cammino compiuto da un gruppo di persone che ha dato vita nella città di Monza a un centro di pratica buddhista zen. E’ nostro sincero desiderio offrire spazio in futuro a simili interventi, in grado di testimoniare la nascita e la maturazione di cammini religiosi laicali sorti "dal basso", scaturiti da un sincero bisogno di ricerca. Questo intervento aiuta anche a riflettere sul fatto che un cammino non è mai statico (altrimenti sarebbe un parcheggio) e porta con sé andirivieni, svolte e soste improvvise o impreviste. E, a differenza dei tragitti con i mezzi di trasporto, difficilmente la meta per cui si parte coincide con la meta a cui si approda.

Segue una lunga lettera nella quale l’autore, Mauricio Y. Marassi, prendendo spunto da una richiesta di rettifica per un imprecisione da lui compiuta (e sfuggita ai più) in un articolo precedentemente pubblicato, coglie l’occasione per effettuare alcune riflessioni ruotanti intorno al rapporto tra verità storica e verità religiosa.

Come d’abitudine chiude il numero la sezione "schede", con la lettura critica e la segnalazione di alcuni volumi di recente pubblicazione.



In cammino

 

 

Intelligenza, pudore, carisma. L’ambiente religioso

Luciano Mazzoccchi

 

Dal diario di Raissa

Richiesto di scrivere una mia riflessione sulla fisionomia umana e religiosa dei laici, io, prete, mi sono sentito piuttosto smarrito. Che cosa dire, senza cadere nei luoghi comuni? Un prete, parlando dei laici, può essere disturbato da due tentazioni. Per apparire democratico può affermare che proprio i laici sono i veri protagonisti della storia, svalutando il proprio ruolo di ministro della religione. Oppure, per proteggere l’ortodossia, può riservare il magistero della verità soltanto al clero, di cui egli pure è parte, rimandando ai laici l’unica funzione di mani e piedi che devono mettere in pratica ciò che i preti insegnano. Come dire qualcosa di sensato e di autentico che non annoi i lettori? Per fortuna mi è venuto incontro il libro che sto leggendo in questi giorni, il Diario di Raissa nell’edizione curata dal marito Jaques Maritain. Negli anni sessanta avevo letto Umanesimo integrale, capolavoro di Maritain, rimanendo profondamente colpito dall’umanità calda e limpida di quel grande filosofo francese, allora vivente. Percepivo che il suo pensiero era intenerito dalla compagnia di una donna che lo amava e che condivideva lo stesso cammino. Era Raissa, sua compagna di vita universitaria e quindi sua sposa. Raissa, di origine russa, e Jaques si erano avvicinati al Cattolicesimo quando, studenti alla Sorbona, ascoltavano le lezioni di filosofia tenute da Bergson. "Alla Sorbona fui delusa dalle scienze perché parziali. Oppressa dal determinismo, desolata dal relativismo, fui liberata dalla critica fatta da Bergson a tutte queste teorie. Riconfortata dall’affermazione d’una possibile conoscenza dell’assoluto!". Dopo il battesimo, 1906, la casa dei coniugi Raissa e Jaques divenne un punto di ritrovo spirituale per molti ricercatori della verità. Profondamente religiosi e profondamente laici! "La fede è stata attaccata in nome dell’intelligenza. Oggi è in nome dell’intelligenza che bisogna difenderla", scrive Raissa nel suo diario.

Ecco allora la pagina del diario che mi ha dato lo spunto per questo articolo. Parla del pudore e dell’intelligenza, come l’ambiente in cui religiosità e arte fioriscono assieme nel rispetto vicendevole. Io ho aggiunto anche il carisma; credo senza forzare nulla. Da qui il titolo a questo articolo.

"19 marzo 1919

… Due cose manifestano la spiritualità dell’anima: la natura dell’intelligenza e il pudore.

Il pudore è, nel composto umano, un istinto spirituale nel quale si rivela la superiorità reale (e non convenzionale) dello spirito sulla carne. È un istinto strettamente umano, in quanto è rivendicazione dello spirito contro il dominio dell’animalità. Istinto specificatamente umano. Non si trova né nell’angelo, né nella bestia. Ma più l’uomo vive alla maniera degli angeli, più il suo pudore si fa delicato (il bambino ancor troppo poco uomo non conosce il pudore); cresce nella misura in cui lo spirito si fortifica contro la carne. Il pudore non è dunque soltanto in rapporto con l’innocenza: il bambino è innocente, e non conosce il pudore; esso sta nella coscienza istintiva che lo spirito prende di sé e della parte che gli è fatta nel composto umano.

Pudore e pruderie si oppongono, sono in ragione inversa l’uno dell’altro. Un’anima ancorata nell’innocenza per la grazia di Dio e la purezza della vita, ignora la pruderie al punto da sembrare, a volte, priva di pudore. Chi sa che Dio ha fatto bene ogni cosa, non si vergogna di nessuna delle cose che Dio ha fatte, quando le riferisce così alla sapienza di Dio.

Ma non appena l’uomo sente che una sovversione minaccia la gerarchia degli esseri – Dio, spirito, animalità – e in particolare che la carne comincia a lottare con lo spirito, il pudore leva la voce tanto più alta quanto più lo spirito è libero e vigoroso e i costumi sono innocenti.

Il pudore è di solito più accentuato nella donna, perché la donna è in un certo modo, al di sopra e al di qua dell’animalità: al di sopra per la maggiore purezza della sua vita – dico in generale; - al di qua perché le sue funzioni materne sono vegetative piuttosto che animali. Per queste due ragioni le ripugna maggiormente essere richiamata alla sue funzioni carnali.

Un amore vero e totale, un matrimonio cristiano, idealizzano anche la carne, perché non uniscono soltanto due corpi, ma due umanità. Sono buoni perché sono voluti da Dio. Sono innocenti e puri. Non vogliamo essere più spiritualisti dello Spirito Santo…

I cattolici dei nostri giorni, quando sono integri in materia di dottrina, hanno in genere vedute anguste per ciò che riguarda l’arte e la sua funzione civilizzatrice, la funzione di spiritualizzazione naturale che essa compie nell’umanità. Sono duri verso gli artisti. E questi possono chiedersi se i loro doni naturali sono un segno di riprovazione. Mi pare che i cattolici dovrebbero possedere, riguardo a tutto ciò che è umano, una dottrina veramente informata; conforme alla verità, al gusto, all’intelligenza. Niente timidezza. Niente fariseismo. Niente ignoranza. Niente pudibonderia. Niente manicheismo. Ma la dottrina cattolica luminosa e totale.

22 marzo 1919

… L’arte è fruttificazione: quando la linfa sarà di nuovo cristiana, i frutti lo saranno pure, necessariamente, e senza che l’artista lo supponga.

Ma c’è un periodo di transizione durante il quale l’unità non è ancora fatta tra volontà dell’uomo e la sensibilità dell’artista…

Non si creda che la devozione basti da sola a fare un artista cristiano.

Ci si renda conto esattamente di ciò che esige un’arte pura, vera. L’artista ha obblighi quasi morali nei confronti dell’arte. Ha obblighi rigorosi verso l’opera concepita: abneget semetipsum (rinneghi se stesso). Se cerca di piacere, fallisce. Ma ha il diritto di cercare di farsi capire. La purezza d’intenzione è necessaria all’artista. Un artista integro, in quanto è artista, è molto prossimo ad essere un moralista. Egli ha il sentimento d’una certa purezza in se stesso. Rouault. – Cfr Le Coq et l’Arlequin di Cocteau. Quest’angelo di cui l’artista dev’essere custode, è precisamente la sua rettitudine di artista."

Prima li lasciare il Diario di Raissa per inoltrarmi in alcune mie considerazioni circa il pudore e la pruderie, aggiungo un’ulteriore citazione che l’autrice scrisse il 10 marzo 1919. "È un errore isolarsi dagli uomini perché si possiede una visione più chiara della verità. Se Dio non chiama alla solitudine, bisogna vivere con Dio nella moltitudine; farlo conoscere là, e farlo amare".

 

Intelligenza e pudore

"Due cose manifestano la spiritualità dell’anima: la natura dell’intelligenza e il pudore". Trovo l’accostamento che Raissa fa dell’intelligenza e del pudore molto perspicace, nonché attuale. Accostamento pressoché ignorato nel pensare ordinario degli uomini; infatti secondo il senso comune l’intelligenza si associa piuttosto al protagonismo e il pudore alla timidezza.

L’intelligenza è quella qualità specifica, quel tocco particolare, che rende umano un essere vivente. Ciò è quanto tutti sanno. Ma Raissa sottolinea che questa qualità è a sua volta qualificata dal pudore; o, meglio, dal connubio di intelligenza e pudore! L’intelligenza è la capacità che l’uomo ha di conoscere l’uno nel suo legame con il molteplice, nell’armonia del tutto. L’intelligenza non dà riposo all’uomo finché questi non abbia raggiunto un’ampia e profonda comprensione della realtà che ha fra le mani. Comprensione etimologicamente dice con prendere: quasi voglia indicare lo sforzo di dilatazione che la mente umana deve fare per prendere dentro le proprie ragioni e spiegazioni la realtà. L’animale beve al ruscello e gli basta sorseggiare l’acqua che sazia la sua sete. L’uomo, invece, nell’onda che lambisce con le sue labbra, coglie il legame con la sorgente e con la foce del ruscello. Quindi, osservando la sorgente, coglie il legame con la vena acquifera, con la montagna, con le nubi, con il fenomeno dell’evaporazione, con il mare, con il sole che riscalda il mare, ecc. L’intelligenza rimbalza l’uomo in una rincorsa infinita: più rincorre e più è spinto a rincorrere. L’intelligenza scorge sempre un orizzonte più ampio delle cause e degli effetti. Finché, avendo esaurito nella ricerca tutto il suo vigore, l’intelligenza fermi la sua attività ed entri nel riposo, stando in piedi serena e dignitosa davanti alla soglia dell’oltre il pensabile. Allora, entrando nel silenzio di se stessa, l’intelligenza bussa alla porta della fede. Raissa, come Jaques, era un’assidua lettrice di Tommaso d’Aquino, il filosofo cristiano il cui motto fu: intellego et credo – comprendo (con la ragione) e credo, in contrapposizione ad altri che invece dichiaravano: credo ut intellegam – credo per comprendere. Raissa scrive: "Uno dei motivi per amare la metafisica è che essa dispone mirabilmente lo spirito, attraverso la conoscenza indubitabile che gli dà dei suoi limiti, a quella obbedienza ragionevole che accoglie la fede. Rationale est obsequim nostrum (la ragionevolezza è la nostra sottomissione)… Non seguire la verità che l’intelligenza ci mostra, è disobbedire a Dio; perché l’intelligenza è in noi una certa similitudine della luce increata".

L’intelligenza che scala la china dello scibile, fino all’esaurimento, educata dalla stessa fatica della ricerca, si dischiude alla fede, con rispetto. Ugualmente, la fede che scatta avendo esaurito le energie della razionalità, è autentica. Non rimane rammarico per non poter andare oltre, perché tutto lo sforzo è stato esaurito. Esaurire tutto e dischiudersi alla fede che non obbediscono rigidamente a un prima e a un poi cronologici; ma che avvengono simultaneamente in ogni situazione, secondo la gradualità propria della psiche umana. Così l’intelligenza e la fede non si invadono a vicenda, ma rispettano la soglia del vuoto, senza pruderie. C’è un credere che immiserisce l’uomo e uno che lo eleva e gli dà respiro. Il segreto sta tutto qui: se il vuoto in cui si libra sia fecondo, oppure sterile. È sterile il vuoto che consegue dalla mediocrità e dall’indolenza propria di chi non sta di fronte alle domande, ma le evita e le ignora; è invece fecondo il vuoto che la ricerca assidua scava nello spirito. La mente approfondisce la conoscenza, e lo spirito riconosce la sua natura vuota, disposta alla fede.

La conoscenza abbatte le separazioni e crea l’accostamento immediato con la cosa conosciuta. Il vuoto è dunque immediatezza di rapporto, è l’aderire pelle a pelle fra il soggetto che conosce e l’oggetto conosciuto. Conoscere, come dice etimologicamente il latino cognosci, è il con nascere del soggetto e dell’oggetto. Conoscere è già puro amore, reso attuabile dallo svuotamento da ciò che egoicamente isola e contrappone. La Bibbia usa il verbo conoscere per dire il concepimento della vita umana: "Adamo conobbe Eva e questa partorì…" (Gn 4,1). Come il concepimento fisico si ammanta di pudore, così pure l’intelligenza che concepisce la conoscenza trova il suo habitat connaturale nel pudore. Sì, perché quando con l’intelligenza l’uomo conosce qualcosa, si mette in atto una funzione che oltrepassa l’uomo stesso, di cui egli non può ergersi a soggetto, né ridursi a oggetto. È la funzione creativa che opera e lo fa sentire nudo, allo stato di creazione. Si attua in lui una funzione che lo coinvolge, di cui fa intima esperienza; ma che contemporaneamente lo proietta oltre i suoi limiti. Nasce con la cosa che conosce e la cosa conosciuta nasce con l’uomo che la conosce. Mai l’uomo si sente tanto ignudo, come quando conosce profondamente. Conoscere è atto generativo di novità. È manifestazione e attualità del Logos eterno: "In principio era il Logos (il Verbo), e il Logos era presso Dio e il Logos era Dio. Egli era in principio presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui… " (Gv 1,1-3).

La conoscenza, cum nasci – con nascere, è la stessa opera della creazione; non una sua conseguenza posteriore. Il pudore! Lo stupore! L’intelligenza umana è come l’antenna che capta l’eterna creazione nel Logos. Forse nello Zen si intende indicare la stessa verità quando si afferma che l’essere si fa evidente; e il farsi evidente è lo stesso essere.

L’uomo che ritiene l’attività dell’intelligenza come ostacolo alla fede, o viceversa, tratta impudicamente la sua propria natura, la sua stessa fisionomia di fondo. Coglie il presente come fatto meccanicistico, e non ne percepisce il seno vuoto e pregno di novità. È disarmonico e non può avvertire la carica artistica di cui è gravido l’esistere, soprattutto l’esistere religioso. Concepimento, gravidanza, parto, sono fenomeni vitali, inseparabili dal pudore. Quando fra fede e intelligenza non aleggia il pudore, allora né la fede, né la conoscenza esprimono il loro autentico vigore.

Tommaso indica la soglia con l’et – e: intellego et credocomprendo e credo. Et – e è congiunzione semplice, senza tendenza a sottoporre l’una della due parti all’altra. Dice la distinzione di ambito di due aspetti in cui la distinzione è vera natura. L’et dice il rapporto di pudore. Ormai al termine della sua vita, Raissa scrisse così nel suo diario: "Un dogma è la punta di un cono la cui apertura si allarga all’infinito. La realtà divina ci tocca con questa punta". Il dogma, come è noto, è una affermazione che la Chiesa cattolica dichiara come assolutamente veritiera, quindi obbligante tutti i credenti. Anche il semplice dubbio su un dogma ha dato adito alla condanna di eresia; e a volte anche al rogo. Una proposizione di fede enunciata senza pudore, è come il fissare con l’occhio scoperto un fascio potente di luce. Allora la luce, anziché illuminare, acceca chi la fissa senza pudore; mentre crea il variopinto mondo dei colori se giunge al nostro occhio riflettendosi sulle cose. La religione che presume di spiegare in proprio la verità produce la violenza del fondamentalismo; invece arreca liberazione e salvezza quando agisce nel cuore umano con pudore, indicando la via, annunciando la lieta notizia, proclamando il perdono. In altre parole, rimandando all’intelligenza la valutazione della sua opera. La fede vera rimane pudicamente nel suo ambito. "Nessuno mai ha visto Dio; se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l’amore di lui è perfetto in noi" (Prima Lettera di Giovanni 4,12).

 

Pudore e pruderie

"Là dove san Tommaso, pervenuto all’ultima espressione d’una verità metafisica, mette un punto finale e si riposa, certi spiriti che sembrano incapaci di certezza razionale mettono un punto interrogativo e restano in sospeso… Non è scetticismo. È impotenza intellettuale, e la si trova tuttavia in uomini di grande ingegno. Il pericolo per i discepoli di San Tommaso, è di mettere il punto troppo presto". L’intelligenza mediocre che non stima la propria funzione e non ne riconosce il limite, ristagna in un eterno prurito. Sfiora superficialmente la realtà e prude per la polvere che alza, oppure accumula nozioni su nozioni senza fermarsi a digerirle, e prude per la sua stessa insaziabilità. "Pudore e pruderie si oppongono, sono in ragione inversa l’uno dell’altro", scrive Raissa. Pruderie: è comunque una immagine carica di umore, molto adatta per descrivere l’instabilità quasi ridicola della fede impudica o, al contrario, della razionalità impudica.

La fede impudica, il fideismo, evita la verifica dell’intelligenza, perché questa è molto esigente. La fede autentica invece accoglie la verifica dell’intelligenza, come un velo di pudore. Avvolta di pudore, la fede esprime la sua potenza liberatoria, posandosi sulla realtà con tenerezza, ungendola con l’olio che ammorbidisce. La fede con pudore è amabile. Quindi è forte.

Ugualmente il razionalismo è il comportamento della ragione che pretende di ridurre l’ampiezza della verità all’orizzonte dei propri occhi. Come fosse irrazionale che il cielo sia più ampio della boccata d’aria che i nostri polmoni riescono a inspirare e che la sorgente di montagna continui a buttare acqua anche dopo che lo scalatore ha saziato la sua sete. L’intelligenza che intristisce davanti a ciò che l’oltrepassa, non trova riposo, prude e invade tutto, intristendolo della sua tristezza.

Ciò che non dimora sereno nel suo limite, mentre si apre a ciò che gli è più grande, si scompone, si agita, prude. Salterella qua e là, senza scendere nel profondo di nulla. Un esempio di prurito religioso è il catechismo. Ignorando il pudore proprio del Vangelo, il funzionario di chiesa che scrive o detta il catechismo, curiosa impudicamente su tutto, scalza l’ambito proprio del politico o dell’artista, o perfino del credente di un’altra religione, per fornire una risposta pronta su tutti i problemi, affinché non rimanga alcun spazio vuoto. Come fosse più esaltante possedere una sete tale da bere tutta l’acqua fino a esaurire la sorgente, anziché saziare la propria sete, cessare di bere e osservare la sorgente che imperterrita continua a versare acqua abbondantemente, ignara della mia sete o non sete. Forse nel mondo buddista la pruderie può consistere in quel dimenarsi davanti allo specchio del , per misurare l’illuminazione da raggiungere o raggiunta. "Non misurare quanto hai realizzato la via (misurare Budda): essa non ha niente a che fare con lo stare seduti o sdraiati", ammonisce Doghen nel Fukanzazenghi.

Raissa percepiva che i dogmi enunciati dalla Chiesa sono, per la loro stessa natura, avvolti nel velo del pudore, come l’embrione è avvolto nell’utero. Manifestano solo la punta della verità che ci tocca, mentre il loro corpo rimane avvolto dal mistero che è indicibile con la semplice definizione dogmatica. "Un dogma è la punta di un cono la cui apertura si allarga all’infinito. La realtà divina ci tocca con questa punta".

 

 

Il seguito di questo articolo sulla rivista


 

 

 

Il cammino del cercatore

Kosho Uchiyama

 

Il testo che presentiamo è una parte di un lungo discorso tenuto dall’abate del monastero zen di Antaiji in Giappone, Uchiyama Kosho, nel febbraio del 1975, in occasione del suo ritiro dalla carica di abate. Quel discorso era motivato dall’intenzione di lasciare ai propri discepoli una traccia da seguire, condensando gli elementi essenziali della propria esperienza di uomo della Via buddista. Esso mantiene intatta la sua validità anche fuori da quel contesto e risulta pienamente attuale perché non è un discorso di circostanza ma quella che definirei una lectio humana: una lezione per la vita, in cui procedono di pari passo la lettura delle indicazioni della tradizione religiosa buddista come luce che illumina l’esperienza della vita, e la lettura della propria esperienza esistenziale come specchio che riverbera la medesima luce sulle indicazioni della tradizione religiosa.

Nel rielaborare il discorso, ne abbiamo ridotto la lunghezza a un terzo del totale, in modo che fosse proponibile come articolo, mantenendo l’armonia e l’andamento dell’insieme, selezionando le parti che ci sembrano più adatte al lettore laico. Qui con il termine laico non si intende il termine contrapposto a religioso, ma si indica chi vive uno stile di vita che non esclude responsabilità sociali, di lavoro e familiari, distinto da chi vive con modalità e ritmi di vita monastica o clericale. Inoltre abbiamo introdotto direttamente nel testo le spiegazioni che ci sono parse opportune per i nostri lettori, evitando così di appesantire con note a piè di pagina un articolo che deve risultare scorrevole sia per restare fedele all’intenzione che lo ha originato, sia per essere appropriato alla sede in cui ora viene pubblicato.

Il risultato è dunque un testo che ha valore in sé stesso, indipendentemente dall’occasione che lo ha generato, come un fiore raccolto e posto in un vaso con qualche rametto di contorno, a esaltarne la bellezza: con la speranza che la composizione trasmetta la stessa fragranza di vita che il fiore ha quando è nel suo ambito naturale.

 

Ho riflettuto a lungo su che cosa sia Buddha Dharma, perché esso è l’essenza del buddismo, così come è trasmesso nell’insegnamento di Dogen Zenji, a cui noi ci ispiriamo. E ultimamente ho pienamente realizzato che l’espressione del monaco cinese Shih Tou (700-790; Sekito in giapponese) "non guadagnare, non sapere" esprime al meglio il significato di Buddha Dharma.

Il monaco Tien Huang chiese al suo insegnante Shih Tou:

"Qual è il significato essenziale di Buddha Dharma?"

Shih Tou rispose: "Non guadagnare, non sapere".

Tien Huang chiese di nuovo: "Puoi dire questo in modo differente?"

Shih Tou rispose: "Il vasto cielo non ostacola le bianche nuvole fluttuanti ".

Il grande cielo non ostacola le bianche nuvole fluttuanti. Le lascia fluttuare liberamente. In un primo tempo alla domanda "Qual è il significato essenziale del Buddha Dharma?", Shih Tou rispose: "Non guadagnare, non sapere", intendendo dire con questo che la condizione che esprime pienamente il Buddha Dharma è "non guadagnare, non sapere", cioè l’atteggiamento di astenersi dall’aggiungere qualsiasi cosa alla realtà. In altre parole, essere liberi da qualsiasi cosa fabbricata nella nostra mente. Io ho chiamato ciò "aprire le mani del nostro pensiero". Questo è esattamente ciò che "facciamo" in zazen: quando sediamo in zazen apriamo le mani del nostro pensiero. Lasciamo che tutti i nostri pensieri sorgano e se ne vadano liberamente. L’espressione di Shih Tou "Il vasto cielo non ostacola le bianche nuvole fluttuanti " descrive precisamente il nostro zazen.

In altri termini Buddha Dharma è la realtà della vita realizzata da Buddha come Via da percorrere. Buddha significa colui che si è risvegliato, e quindi Buddha Dharma è la Via del Risveglio. Da che cosa ci dobbiamo risvegliare, che cos’è questa condizione di risveglio?

Noi diventiamo obnubilati, nel senso di non desti alla realtà delle cose, a causa del nostro cervello, della nostra mente discriminante. Tutti gli esseri umani sono ingannati dalla loro stessa mente. In primo luogo, siamo ingannati dal sonno, dormendo. Questo non è molto serio, perché in questo caso possiamo facilmente renderci conto che non siamo desti. Per svegliarci dall’intontimento del sonno dobbiamo essere vividi.

Ma siamo anche preda delle illusioni, della confusione mentale, dell’ira o degli stereotipi comportamentali di gruppo. Queste cose sono più difficili da trattare, perché sono causate dalla nostra stessa mente. Mettiamo insieme vari tipi illusione nella nostra mente, poi ci saltiamo in mezzo e siamo immersi in esse.

Gli esseri umani fabbricano illusioni fitte come una selva e si perdono e confondono nella giungla creata da loro stessi. Allora, come possiamo svegliarci da queste illusioni? La via per risvegliarci da queste illusioni è "aprire le mani del pensiero", perché siamo ingannati dalle illusioni create dai nostri pensieri. Quando aprite le mani del vostro pensiero e diventate vividamente desti, tutte le illusioni causate dalle delusioni, dall’ira e dagli stereotipi comportamentali di gruppo scompariranno improvvisamente. Questo è il nostro zazen. Quando fate zazen dovete abbandonare tutti i vostri problemi. In quel momento sarete vividamente coscienti. Quindi in zazen non dovreste né dormire né essere assorbiti nei pensieri. Il punto essenziale nel fare zazen è esser vividamente coscienti e aprire le mani del vostro pensiero.

 

Zazen è la cosa più onorata ed è il vero maestro

La statua di Buddha esposta nei luoghi di culto buddista in giapponese viene chiamata Honzon, che letteralmente si riferisce a ciò che è degno del più alto rispetto. Una volta un tale venne a visitare il nostro monastero e volle rendere omaggio alla statua di Buddha situata nella sala principale. Quando aprii la porta, egli fu sorpreso nel vedere i ventilatori elettrici davanti all’altare ed esclamò: "Mio Dio! E’ irriverente mettere i ventilatori davanti al Buddha!" La gente pensa che la statua di Buddha sia ciò che vi è di più riverito. Ma da noi ciò che vi è di più riverito, l’Honzon, non è sull’altare bensì di fronte, da questa parte della sala, dove noi sediamo in zazen. Zazen è infatti la cosa più onorata. Il ventilatore elettrico è stato messo davanti alla statua di Buddha per dare un po’ di refrigerio d’estate ai praticanti che siedono in zazen. Nel fare zazen mantenere l’ambiente fresco d’estate e riscaldarlo d’inverno è importante. La statua di Buddha è un modello di zazen, il quale è ciò che vi è di più riverito.

"Aprire le mani del nostro pensiero" dovrebbe essere il nostro valore definitivo e fondante. La gente è inconsapevolmente preda di valori artefatti, e pensa che il denaro, la fama o lo stato sociale siano le cose di maggior valore. Ma per noi praticanti "aprire le mani del pensiero" deve essere la cosa più riverita e di maggior valore. Poiché qualche volta, distrattamente, ce ne dimentichiamo, dobbiamo continuare a praticare e a riflettere su noi stessi. Questo è ciò che intendo con "zazen è ciò che vi è di più riverito". Lo stesso discorso vale per quanto riguarda il vero maestro. Doghen Zenji disse una volta: "Se non potete trovare il vero maestro, è meglio per voi non praticare". Che cos’è allora il vero maestro? Se lo valutate nei termini del vostro modo di pensare convenzionale e arrivate a concludere: "Ecco! Lui (lei) sì è il vero maestro!" questo è un errore, perché fate semplicemente affidamento sul "vostro pensiero" che quella persona sia il vero maestro.

Il vero maestro non può essere un essere umano. Zazen, che è "aprire le mani del nostro pensiero", è l’unico vero maestro. Dovete capire ciò con chiarezza! Non ho mai detto ai miei discepoli: "Io sono il vero maestro!" Sin dal primo giorno ho sempre detto che lo zazen che ciascuno di noi pratica è il solo vero maestro. Dalla morte del mio predecessore ho tenuto molti discorsi di studio ai miei discepoli. Ma questo è soltanto il mio ruolo. Non ho mai detto: "Io sono il vero maestro, e come tale sono sempre nel giusto". Sia che voi pensiate che io sia il vero maestro oppure no, questo è solo il vostro pensiero. Quindi il vero maestro non è qualcosa che ha a che fare con questo tipo di valutazioni, ma lo zazen che è "aprire le mani del pensiero" di ciascuno di noi è il vero maestro. Per piacere non dimenticate che "zazen è ciò che vi è di più riverito e il solo vero maestro".

 

Zazen deve operare nella nostra vita di ogni giorno sotto forma delle due pratiche (voto e pentimento) e dei tre tipi di mentalità (mentalità lieta, mentalità amorevole, mentalità magnanima); e dobbiamo mettere in pratica il detto "guadagno è illusione, perdita è risveglio".

Non tutto ciò che ha la stessa forma dello zazen è equivalente. Alcuni buddisti praticano discipline come lo yoga sedendo nel loto. Alcune nuove religioni popolari in Oriente e in Occidente hanno, anch’esse, un tipo di meditazione simile allo zazen. I buddisti dell’Asia sud-orientale praticano anch’essi seduti come in zazen. La forma è la stessa ma il contenuto è realmente differente. Ora, non è facile, soprattutto per gli occidentali, capire la differenza.

In effetti il contenuto dello zazen è determinato dal nostro atteggiamento verso di esso.

Nel buddismo si usano distinguere sei mondi che sono sei differenti situazioni esistenziali: il mondo infernale, il mondo degli spiriti famelici, il mondo degli animali, il mondo degli spiriti combattenti, il mondo degli esseri umani e il mondo degli spiriti celesti. C’è un tipo di zen per ognuno di questi mondi. Vediamoli da vicino perché la cosa ci riguarda.

Ci sono persone che pur facendo zazen, in realtà lo odiano. Molte di queste persone sono preti buddisti. Senza comprendere il senso di fare zazen per la propria vita, lo fanno perché si sentono obbligate a farlo dalle circostanze. A parole esaltano lo zazen, ma in cuor loro lo aborrono. Questa è una condizione come quella di essere all’inferno. É realmente senza significato.

Ci sono poi persone che corrono dietro all’illuminazione o a qualche conseguimento "spirituale" esattamente come gli spiriti famelici corrono dietro al cibo.

C’è lo zen di chi si comporta come un animale domestico, un cane o un gatto. Alcuni stanno in un gruppo religioso, seguono una certa dottrina e pratica perché si sentono protetti e sostenuti da un certo rituale, come gli animali domestici stanno in una casa perché vengono nutriti. Per costoro zazen è solo un modo di ammazzare il tempo.

Poi c’è lo zen inteso come concorrenza fra le persone. Alcuni competono con gli altri per vedere chi ha la pratica più seria; guardano gli altri con spirito competitivo e comparativo; valutano la propria pratica sulla base di quella altrui.

Inoltre c’è lo zen del mondo umano. Qui lo zazen è concepito a fini utilitaristici. Si pratica zazen per ottenere qualche beneficio, come avere le idee chiare, oppure guadagnare in salute, ecc. Molti libri sullo zen hanno questo tono: zen per la salute, zen come terapia psicologica, zen per ogni benessere. Le persone che vogliono sempre avere qualcosa in cambio della loro pratica appartengono a questa categoria.

Infine lo zen come paradiso. Vi sono persone che vogliono diventare asceti o eremiti. Vogliono sfuggire la materialistica e frastornante società consumistica e vanno a vivere in montagna, per godere della quiete. Non di rado costoro amano lucidare lo scettro di qualche prete. Questo tipo di Zen non ha assolutamente niente a che fare con il Buddha Dharma.

Dobbiamo guardare la nostra pratica dal punto di vista finale per capire cos’è il vero zazen. Una volta che vi trovate in mezzo a questi "Sei Mondi Zen" non siete più in grado di vedere il punto essenziale del Buddha Dharma.

Allora qual è il punto essenziale del Buddha Dharma?

Il Buddismo è l’insegnamento dell’impermanenza e del non-egocentrismo. "Aprire le mani del nostro pensiero" (non-egocentrismo) è la base del Buddha Dharma. Il passo successivo è espresso dal detto "guadagno è illusione, perdita è risveglio". Significa perdere qualcosa attivamente. Ma attenzione a non approfittare degli slogan. Non dovete pretendere di ricevere denaro o altro dalle persone dicendo: "Perdere è importante, quindi…" In questo caso realizzereste un guadagno. Dovete invece applicare questo detto solo a voi stessi, rinunciando a qualche cosa. Niente è più importante di rinunciare a qualche cosa se si vuol "rompere" il nostro ego. "Perdita è risveglio" significa "Rompere il nostro ego è risveglio".

A questo punto dovremmo chiaramente distinguere tra "Sé condizionato" e "Sé originale". Pensiamo sempre che il "Sé condizionato" sia "Io". Ma se sbucciate il "Sé condizionato" troverete il "Sé originale". Il "Sé condizionato" è il cosiddetto "Sé karmico", che cerca continuamente di appagare i desideri. Poiché gli esseri umani hanno una mente fin dalla nascita, che funziona in un certo modo, abbiamo un karma che ci spinge nel labirinto delle illusioni generate dalla nostra mente. Questo è il "Sé condizionato". Ma è un grande errore pensare che il "Sé condizionato" sia il "vero Sé". Il "vero Sé" apparirà quando spoglierete questo "Sé condizionato" o "karmico". "Spogliare il Sé condizionato" significa "aprire le mani del nostro pensiero". Questo è il "Sé originale".

Vi è un koan a proposito del "Volto originale prima della nascita dei nostri genitori". Potreste pensare che vi sia qualcosa di speciale chiamato "volto originale", ma non sarebbe un’interpretazione corretta. Quando apriamo le mani del nostro pensiero il "Sé originale" è proprio li. Non è una particolare condizione mistica. Non dovete cercarlo da qualche altra parte. Quando non trattenete i vostri pensieri, la forza che vi fa vivere e la forza che fa soffiare il vento sono la stessa forza. La forza che permette al vento di soffiare è la stessa che vi permette di respirare. Dovreste riflettere su ciò ripetutamente e attentamente.

Anche se non lo teorizziamo, noi viviamo come se la nostra vita fosse regolata dai nostri pensieri, fosse in funzione del nostro cervello. Questo è un grande errore. L’ambito dei nostri pensieri è proprio limitato. Beviamo una tazza di tè quando pensiamo: "Voglio bere". Possiamo in effetti bere in accordo agli ordini del cervello. Quando parliamo, diciamo ciò che pensiamo nella nostra testa. Ma ciò che segue gli ordini del nostro cervello sono, al più, le mani, le gambe, la lingua. Il nostro stomaco non è sotto il controllo del nostro cervello. Cuore e polmoni sono indipendenti dal pensiero. Noi respiriamo anche quando dormiamo. Non è un nostro sforzo personale. Quando dormiamo apriamo le mani del pensiero. Nessuno pensa a respirare quando dorme. In realtà respiriamo senza curarci di ciò. Allora, non è "Io" che respira senza il controllo del mio cervello? Sì, è certamente "Io". Questo è il "Sé originale".

Una delle parole che Doghen spesso utilizza nei suoi scritti è "Jin" (l’insieme, l’intero). Qualcuno ha detto che è impossibile tradurre questa parola in italiano. Doghen Zenji usava spesso espressioni come "Jin-jippo-kai" (l’insieme delle dieci direzioni nel mondo), "Jin issai" (ogni cosa), "Jin Daichi"(l’intera grande terra), "Jin shujo" (tutti gli esseri viventi), "Jin kai" (l’intero mondo), "Jin ji" (l’intero tempo), "Jin ho" (l’intero Dharma). In breve, significa qualcosa che include tutto. Cioè "la mia vita". "La mia vita" è connessa a ogni cosa. Non può essere separata da niente. Nella nostra mente pensiamo che "Io" sia soltanto "me stesso", che sia indipendente. Ma, quando aprite le mani del vostro pensiero, "Io" è "uno con tutte le cose".

E’ difficile capire questa "Vita" che è "una con tutte le cose". Non possiamo credere in questa "Vita". Ho praticato zazen per circa cinquant’anni da quando sono diventato monaco. Una cosa che ho chiarito a me stesso è che "Io" sono "uno con tutte le cose". Zazen non serve a nulla, è veramente inuti1e. Ma più a lungo pratico e più chiaramente mi appare che niente è separato da me. Per piacere, cercate di fare ciò. Se mettete tutta la vostra energia nel praticare zazen aprendo continuamente le mani del vostro pensiero, vedrete chiaramente che siete connessi a ogni cosa.

Dove andremo dopo la nostra morte? Da nessuna parte. La vita è universale. Noi siamo, senza eccezioni, universali. Tuttavia le nostre menti sono prese dal pensiero che noi siamo individuali. Siamo universali, anche se non lo crediamo.

La realtà non ha niente a che vedere col fatto che pensiate così oppure no. Per il tempo in cui siamo in vita mangiamo verdure, carni, pasta, riso, frutta ecc. Il nostro corpo è un insieme di tali elementi. In superficie il nostro corpo sembra che sia indipendente dal mondo esterno, ma di fatto calore e umidità sono irradiati dalla nostra pelle, come pure nutrimento e luce sono assorbiti dalla nostra pelle. Ogni cosa entra ed esce liberamente. Siamo davvero universali. Dove andremo dopo la morte? Ritorneremo alla vita universale! Per questo in giapponese chiamiamo le persone morte "shin kin gen" (un nuovo tornato indietro). Questa vita universale è il "Sé originale". Certo, non possiamo dire che ogni cosa è universale eccetto ciò che pensa il nostro cervello. Il pensare della nostra mente è anch’esso una delle funzioni del "Sé originale". Ma il cervello può pensare come reale ciò che in realtà non esiste. Penso a ciò che ho fatto ieri, ma questo è passato, non è il presente mentre sto pensando. Pensiamo anche a qualcosa riguardante domani, e anche questo non è realtà, perché domani non è arrivato. Pensiamo a qualche cosa di irreale proprio qui, proprio ora. Questo è un tipo di illusione. Fare zazen significa vedere l’illusione come un’illusione, capire che è un’illusione. Per tutto il tempo in cui viviamo non possiamo essere separati dal "Sé originale", che lo vogliamo o no. Siamo universali sia da vivi che da morti. Ma, nello stesso tempo, è anche vero che non possiamo essere separati dal nostro "Sé condizionato" che ha il karma che produce tutti i tipi di illusione. Quindi possiamo concludere che noi esseri umani esistiamo nella relazione tra "Sé condizionato" e "Sé originale".

Quando guardiamo dal punto di vista del "Sé condizionato", il "Sé originale" è la direzione verso la quale dovremmo andare. Il Voto è andare verso questa direzione.

Il primo dei "Quattro voti del Bodhisattva", la persona della Via, è: "Per innumerevoli che siano gli esseri senzienti, faccio voto di salvarli tutti". Vuol dire radicarsi nella "vita" che è una sola cosa con tutte le cose.

Il secondo voto è: "Benché le cose su cui ci si inganna siano inesauribili, faccio voto di porre fine a esse". Questo significa non lasciarsi trasportare dalle illusioni.

Ma siccome siamo esseri umani e siamo continuamente soggetti alle illusioni, abbiamo bisogno di studiare il cammino percorso dal Buddha, il Buddha Dharma, per poter riflettere su noi stessi. Questo è il terzo voto: "Anche se i percorsi del Dharma sono illimitati, io faccio voto di comprenderli".

Il quarto voto è: "La Via del Buddha è infinita, io faccio voto di raggiungerla e percorrerla". Questo vuol dire costruire le proprie fondamenta su ciò su cui dovremmo basarci, in quanto Sé originale.

Nel Daijokishinron giki (un commentario sul "Risveglio della fede") è scritto: "E’ la vera Mente di ogni essere senziente che da se stessa insegna e guida ogni essere senziente". Questo è il voto del Buddha. Il voto non è qualcosa di speciale escogitato nella nostra mente e riflesso verso l’esterno. La vera Mente degli esseri senzienti (cioè il "Sé originale") è in se stessa il Voto. Per questo quando guardiamo al "Sé originale" da un punto di vista del "Sé condizionato", non possiamo vivere senza il Voto.

Per un altro verso, quando guardiamo al "Sé condizionato" dal punto di osservazione del "Sé originale", comprendiamo di non essere ciò che dovremmo essere. Non possiamo realizzare in pratica il "Sé originale", perché siamo condizionati dalle catene e dalle manette del karma. Per questo motivo non possiamo fare a meno di pentirci. Nella correlazione tra il "Sé originale" e il "Sé condizionato", noi abbiamo il voto e il pentimento in modo naturale.

E’ uno sbaglio guardare a un aspetto soltanto. Per esempio, di solito i preti buddisti raccontano un sacco di storie moralistiche. Non è una buona cosa. Se riflettete riguardo a voi stessi senza remore, non potete certo raccontare solo storielle moralistiche. Non poteste nascondere il fatto di non essere in grado di mettere in pratica quelle storie. Quindi c’è una menzogna, a meno che non parliate anche dei vostri difetti in termini di pentimento, oltreché delle storie moralistiche. Penso che questo sia il motivo per cui la gente non è stimolata dai discorsi dei preti. La gente ascolta le mie parole senza sbadigliare, perché se parlo di storie morali rivelo anche che non sono in grado di metterle in pratica. Cerco di esporre anche i miei sbagli in termini di pentimento. E quando mi pento, il mio voto diventa più forte, come una fiamma.

Noi, persone dello zazen, dovremmo avere in noi questi due aspetti, del voto e del pentimento. Dovete comprendere: "Uno zazen, Due pratiche, Tre mentalità". Non cercate di trovare questa espressione in alcun sutra. E’ impossibile, perché l’ho inventata io. Nessun dizionario buddista la spiega, forse un giorno ce la troverete. Con "tre mentalità" intendo tre concreti modi di essere del nostro cuore, i modi in cui dovremmo funzionare per quanto riguarda il "Sé originale" nel "Sé condizionato". In primo luogo, la "mentalità magnanima, della grande comprensione". Ciò significa aprire le mani del nostro pensiero astenendosi da ogni paragone e discriminazione. Nel Buddismo la parola "grande" non vuol dire "essere più grande di qualcos’altro". Qualunque cosa sia grande in termini di comparazione non è realmente "grande", per quanto grande sia.

Sono rimasto davvero ammirato quando ho sentito dire che ci sono persone che studiano gli organi genitali delle pulci. Costoro classificano i genitali delle pulci in base alla forma, per esempio un triangolo equilatero, un triangolo isoscele o una forma piatta. E sono in grado di dire che la tal pulce vive su certi orsi dell’Alaska, un’altra sugli orsi siberiani o su quelli dell’Hokkaido in Giappone, ecc. loro studi sono davvero interessanti. Comunque, pare che gli organi genitali della pulce risultino proprio grandi. Ci devono essere alcuni microrganismi che sono parassiti dei genitali delle pulci.

D’altra parte, se andate nello spazio in un satellite artificiale, la terra diventa indistinta. Una volta ho visto la foto del Giappone scattata da un satellite artificiale. Non potevo vedere me stesso riprodotto nella foto, benché ci fossi. Potevo vedere il lago Biwa. C’era la città di Kyoto. Quindi senza dubbi dovevo esserci anch’io. Ero senz’altro nella foto, perché era presa dall’alto del cielo. Ma in quella foto. sono più piccolo di un microrganismo. Perciò, quando paragoniamo la grandezza, non possiamo dir che cosa è realmente grande e che cosa realmente piccolo.

Ora, nel Buddismo, "grande" significa qualcosa al di là di paragone e differenziazione, che si rivela quando apriamo le mani dei nostri pensieri che discriminano ogni cosa. E quando noi apriamo completamente le mani del nostro pensiero, il cuore della grande comprensione è lì. In quel momento qualunque cosa incontriate è "Jin jippo, Jin issai Jiko" (il Sé che comprende tutte le dieci direzioni, qualunque cosa interamente). Sempre, dovunque, io vivo il Sé nel mio proprio modo di essere. Questa è la "mentalità della grande comprensione". Quindi, siccome è sempre e dovunque, ogni cosa non è altro che il mio Sé.

Mi prendo cura della mia vita con sincerità. Questa è la "mentalità amorevole", il cuore amorevole di un padre e di una madre. L’amore fra amanti è diverso dall’affetto coniugale. Se vi sposate spinti dall’amore che c’è fra amanti, il vostro matrimonio farà una triste fine. Prima di sposarvi non c’è bisogno che siate l’uno al servizio dell’altro: avete solo bisogno di amore. Ma dopo che vi siete sposati e vivete insieme, questo tipo di amore da solo non funzionerà. Nel rapporto di affetto coniugale dovete mettere voi stessi al posto dell’altro, dovete avere cura l’uno dell’altro. Spesso le persone sono adulte solo fisiologicamente, ma pur sempre infantili nella loro mente. Quando queste persone infantili si sposano, è normale che abbiano problemi tra loro, perché le persone infantili vogliono sempre che ci si prenda cura di loro. Solo dopo che una persona è diventata matura può prendersi cura di altri; allora può avere il cuore amorevole di un padre e di una madre. Gli esseri umani devono diventare maturi in senso reale. Se siete adulti solo fisiologicamente ma non siete realmente maturi, andrete senz’altro incontro a una triste fine. Essere maturi significa incontrare gli altri con la mentalità amorevole di un padre e di una madre. Ho compreso ciò a causa dei miei errori, e do questo suggerimento a ogni nuova coppia.

Questa capacità matura di incontrare gli altri con il cuore amorevole di un padre e di una madre nel buddismo è allargata e applicata al mondo intero :

"Ora questo triplice mondo

intero è il mio dominio;

gli esseri viventi in esso

sono tutti miei figli".

Quindi, trova il vero significato della vita prendendoti cura degli altri, e metti lo spirito vitale nel fare ciò. Arrivare alla conclusione che la vita vale la pena di essere vissuta, non vuol dire sentirsi felici emozionalmente. Avere uno spirito vitale nell’incontrare ogni cosa con mente amorevole è la "mentalità serena".

"Cuore sereno", "cuore amorevole", "cuore grande": queste sono le "tre mentalità". Noi persone dello zazen dovremmo seguire le due pratiche e le tre mentalità nel praticare zazen. Un atteggiamento del tipo: "In ogni caso sono al sicuro e in pace finché sto seduto" non va per niente bene. Tutti gli esseri si lamentano con sofferenze e preoccupazioni. Dunque, dovremmo avere nel profondo del nostro cuore il Voto: "Mi adoprerò per gli esseri senzienti perché abbiano il proprio fondamento in ciò su cui si dovrebbero fondare". E quindi il Voto è la base della nostra pratica. Ma un tale Voto è difficile da mettere in pratica. Quindi dovremmo riflettere riguardo a noi stessi e pentirci. E il modo in cui il Voto opera sono le tre mentalità.

Quando penso al Voto mi viene sempre in mente la parte riguardante Bodhidharma nel capitolo dello Shobogenzo di Dogen intitolato "Gyoji" ("Proteggere e mantenere viva la pratica"). Questa è la più pura e la più concreta forma di voto. Dato che mi ci vorrebbero un paio d’ore solo per spiegare una frase di esso, ora ve lo leggerò.

Il primo patriarca in Cina venne, venne dall’Ovest per decreto del reverendo Hannyadara. Gli ci vollero tre anni ad andare in Cina per mare. Deve aver incontrato un gran numero di difficoltà a causa del vento e della neve. Deve aver corso molti pericoli navigando nel grande oceano. Egli si recò in un paese sconosciuto, nonostante un così duro viaggio. La gente normale che ha cara la propria vita non può neppure concepirlo. Questo Gyoji (proteggere e mantenere viva la pratica) deve provenire dalla sua grande compassione di trasmettere il Dharma e di salvare gli esseri senzienti che si illudono. Poteva farlo poiché egli era il "Sé del Dharma che si trasmette" e per lui l’intero universo è il "mondo della trasmissione del Dharma". Lo fece poiché comprese che questo mondo dalle dieci direzioni non è altro che la vera Via, che questo mondo dalle dieci direzioni non è altro che il Sé, e che il mondo dalle dieci direzioni è proprio il mondo dalle dieci direzioni. Ovunque voi viviate è una reggia e non vi è reggia che non sia il posto adatto per praticare la Via. E così egli venne dall’Ovest in un simile modo. Non ebbe dubbi né paura, poiché egli era il Sé del "Salvare gli esseri viventi che sono nell’illusione" (il Voto).

Sono stato in questo monastero dal 1949. A quell’epoca il Giappone era un paese distrutto, le costruzioni di Antai-ji erano terribilmente malridotte, con la nostra vita di elemosina non di rado non c’era nulla da mangiare: ma fin da allora io andavo dicendo a tutti che avrei creato la generazione successiva. In realtà creare la generazione successiva era stato il mio voto fin da quando ero studente delle medie. Divenni monaco buddista per mettere in pratica questo voto. Dopodiché la fiamma del voto ha continuato ad ardere anche in una vita grama e miserabile come quella che vissi. Quando erano giorni duri, ero incoraggiato e traevo energia soprattutto da quel passo del "Gyoji" di Bodhidharma. In quei giorni la mia vita era così misera che mi sentivo come fossi calpestato. Ero calpestato ancora e sempre come erbaccia, sopra e sotto, e non potevo mettere fuori neppure un germoglio. Tuttavia, siccome avevo il voto, scelsi di radicarlo profondamente in terra in quei giorni così difficili. Se non avessi avuto il voto sarei morto; poiché ero continuamente calpestato, tanto più radicavo nella terra il mio voto di creare la generazione successiva.

Non perdete la vostra forza vitale nei periodi della vita in cui siete calpestati. Perderete la vostra forza vitale se non avete il Voto. Solo se avete il Voto ogni cosa è la vostra vita dovunque, sempre, qualunque cosa succeda. Fintanto che avete il Voto di vivere fino in fondo la vostra propria vita dovunque, sempre, la primavera verrà prima o poi. Quando giunge la primavera voi avete la forza di crescere. Questa è la forza vitale. Dovete comprendere profondamente che ciò è diverso dall’essere ambiziosi.

 

Il seguito di questo articolo sulla rivista

 

 

 

Canzoniere

 

 

Veglie

Arthur Rimbaud

 

Presentando l’edizione del 1912 delle opere di Rimbaud, uno scrittore di intensa sensibilità religiosa come Paul Claudel ebbe a dire: "Arthur Rimbaud fu un mistico allo stato selvaggio, una sorgente perduta che torna a scaturire da un suolo saturo". E, più vicino a noi, il teologo e filosofo francese Olivier Clément ha insistito nell’affermare che la medesima rivolta radicale (poetica ma non solo, sociale ma non solo, metafisica ma non solo), che aveva portato il giovane di Charleville a scrivere "Morte a Dio" sui muri delle strade in cui viveva e a ad aderire alla Comune di Parigi, l’aveva condotto alla fine presso Dio. Giusto per limitarci alle opinioni di due importanti figure contemporanee. Ed è in questa prospettiva, lasciata aperta, che desideriamo proporre una delle celebri illuminations del poeta.

 

E’ il riposo luminoso, né febbre, né languore, sul letto o sul prato.

 

E’ l’amico né ardente né debole. L’amico.

 

E’ l’amata né tormentosa né tormentata. L’amata.

 

L’aria e il mondo non cercati. La vita.

 

- Era dunque questo?

 

- E il sogno rinfresca.

 

 


 

 

 

 

Voci

 

 

L’intervento che segue è la testimonianza relativa al percorso di nascita e sviluppo dell’Associazione Soto Zen di Monza raccontata da uno degli animatori. E’ nostro desiderio proseguire nei numeri a venire la riflessione iniziata con la raccolta di altre esperienze riguardanti percorsi di dialogo religioso compiuti collettivamente.

 

Raccontarsi

Massimo Beggio

 

I.

 

Parlare dell’esperienza fatta a Monza nel corso di questi anni, come gruppo di meditazione Zen, induce a molte considerazioni. La ‘materia’ stessa del nostro stare insieme obbliga, oltre a guardarsi indietro, anche a guardarsi dentro, per dare un senso all’oggi e a tutti gli avvenimenti che fin qui ci hanno portato.

La nostra storia come gruppo ha avuto inizio nella prima metà degli anni ’80, dall’idea di alcune persone (tre o quattro) di poter avere un luogo dove praticare insieme lo Zazen. Ci accomunava l’esperienza che in quel momento ciascuno di noi stava vivendo nello Zen e che consisteva nel seguire l’insegnamento di Fausto Taiten Guareschi, erede in Italia di Taisen Deshimaru Roshi. Questa idea di poter avere a disposizione un posto nella nostra città rispondeva all’esigenza di una pratica della meditazione più assidua e costante ed alla voglia di far conoscere anche ad altri questa preziosa opportunità che a nostra volta avevamo ricevuta in dono.

Qualche tempo prima, reduce anch’io da esperienze politiche che avevano ampiamente coinvolto e fatto sognare la mia generazione e da altre esperienze, più personali ma anch’esse abbastanza generazionali, avevo ripreso a leggere qualche libro sullo Zen. Si trattava di una vecchia passione che, in anni giovanili, mi aveva affascinato molto. Devo ammettere che lo Zen era per me ancora qualcosa di molto sconosciuto e riprendendo a leggerne tentavo di dare corpo a questa passione che ritornava a farsi sentire nella mia vita. I libri, che all’epoca non erano poi molti, esaurirono presto una loro prima funzione e l’idea che occorresse qualcosa d’altro per una conoscenza più concreta cominciò in me a farsi strada con insistenza. Alcuni di questi libri proponevano suggestive ‘Vie’ dell’arco o della spada o altre cose ancora ed ero un po’ su questi pensieri quando una locandina in un negozio favorì il mio incontro con lo Zazen. Da allora ho sempre pensato che fosse importante e giusto dare anche ad altri la possibilità di conoscere questa pratica, così come io, da altri, avevo ricevuto questa opportunità. Un luogo in Monza dove praticare significava anche questo.

Ricordo con molto affetto e con molta gratitudine le persone incontrate nel mio primo approccio con lo Zen e gli insegnamenti che ho potuto ricevere. Di alcuni ambienti ricordo però anche una certa ‘spavalderia’ e qualche certezza di troppo, tutte cose riversate e vissute di conseguenza anche nella realtà del gruppo di Monza. Che intanto però cresceva e maturava, grazie anche a persone nuove che si univano al nostro cammino, portando la loro esperienza e ricerca.

Ci siamo sentiti sempre molto legati alla Via dello Zen, ma fin dall’inizio ci siamo sentiti anche parte di un cammino più ampio e aperto al contributo di altri percorsi. Questa caratteristica ci ha permesso esperienze individuali e collettive molto preziose e la comprensione che anche altre Vie possono essere testimoni della Verità.

Alcuni incontri avuti in quegli anni, spesso molto personali ma sempre condivisi all’interno del gruppo, sono stati di grande ricchezza per tutti noi. Il mondo è pieno di falsi e cattivi maestri, ma è anche pieno di maestri autentici, di santi e di profeti e, per nostra fortuna, non è poi così raro e impossibile incontrarne. Alcune tra queste persone incontrate hanno significato molto nella nostra crescita e nella nostra maturazione come gruppo e, più in generale, hanno avuto anche una grande importanza nella vita di molti di noi.

Il maestro giapponese Inoue Muhen, ad esempio, che dello Zen è riuscito a darci una visione più soffice e meno marziale e del Buddhismo ci ha fatto conoscere il significato concreto di compassione e di non attaccamento. Cose che lui riusciva ad incarnare andandosene in giro per il mondo, in età molto avanzata, per portare una sua terapia del tutto originale a chiunque ne avesse bisogno, vivendo solo di qualche offerta e di un po’ di ospitalità. Ci ha insegnato a vivere con intensità il presente e ad abbandonarci alla vita "liberi da ansie e timori", come è scritto in una sua modesta calligrafia che ci ha regalato e che conserviamo.

Importante nel nostro cammino è stato anche p. Luigi Soletta, missionario del P.I.M.E., che molti anni fa, tornando dal Giappone, ci fece sentire il gusto della Parola del Vangelo dopo il silenzio della meditazione celebrando l’Eucaristia al termine di un ritiro dedicato alla pratica intensiva dello Zazen. Padre Soletta ci ha fatto comprendere che il cuore dell’uomo è grande al punto da poter contenere la fede incrollabile nel proprio cammino religioso ed apprezzare, allo stesso modo e senza altri fini, il contributo di un’altra visione della Verità.

Questi solo per citarne alcuni con i quali il rapporto è stato particolarmente ricco ed intenso. Voglio ricordare anche alcune letture che ci aiutarono a comprendere lo Zen come qualcosa di estremamente vivo e diedero un sapore nuovo alla nostra pratica. Fra tutti, per primi, i libri di Uchiyama Roshi che ci aprirono ad una dimensione dello Zen per noi nuova e sconosciuta.

Uchiyama Roshi contribuì anche fortemente a farci sentire sul terreno di un cammino religioso e ce ne fece intravedere tutta la profondità, mentre noi per anni ci eravamo accontentati della superficie. Sono stati tutti semi che maturando hanno dato una direzione al nostro cammino e che ci hanno portato, sul finire degli anni ’80, ad incontrare Jiso Forzani e successivamente p. Luciano Mazzocchi. L’esperienza della "Stella del Mattino", vissuta con loro, ci ha visti coinvolti fin dal suo nascere. Il cuore del dialogo e dell’incontro era già presente dentro di noi come un seme e questa nuova esperienza ci ha permesso di farlo maturare nella nostra vita.

 

II.

 

Per come ne abbiamo parlato finora può sembrare che questa nostra storia sia stata tutto un procedere quieto e senza scossoni nel corso di questi anni ma non è stato così. Il cammino che abbiamo fatto insieme ci ha spesso costretti a salti, a momenti di maturazione che a volte abbiamo vissuto con difficoltà e con tutta la fatica che queste cose portano naturalmente e necessariamente con sé, sia a livello personale che collettivo, quindi qualche nota va ancora aggiunta a questa narrazione. Come ho già avuto modo di dire i nostri primi passi nello Zen sono stati all’interno di ambienti che trasmettevano fortemente l’impressione di avere per le mani certezze solide e molto ben radicate. All’epoca forse avevamo bisogno proprio di quello ed abbiamo accolto volentieri un insegnamento che aveva anche caratteristiche piuttosto ‘didattico’.

Oltre ad introdurci alla pratica dello Zazen venivamo abituati a mantenere una certa presenza mentale nelle cose di ogni giorno e a non considerare, pur nella consapevolezza dello sfondo, il particolare e l’ordinario come poco significanti. Questa ‘educazione Zen’, pur vissuta con qualche difficoltà, dava corpo nella nostra vita a molte delle cose lette. Ci insegnava per esempio a considerare l’importanza della forma e a comprenderla nel suo stretto rapporto con la sostanza delle cose, a capire che un cammino è davvero un cammino ed è fatto di tante cose che vanno vissute tutte con lo stesso cuore.

Ad un certo punto ci parve però che questi insegnamenti non fossero completi e l’esperienza che stavamo vivendo, come mancasse di profondità, sembrava girare intorno a sé stessa senza portare da nessuna parte. Avevamo ricevuto molto, ma quel periodo forse era da considerarsi concluso. Prendere in mano carta e penna e scrivere a qualcuno che una relazione si sta chiudendo non è mai una cosa facile. Mi toccò farlo; naturalmente parlando per me stesso e per quel che mi riguardava, pur nella consapevolezza di essere in qualche modo di riferimento anche per altri. Qualcuno, sentendosi anche un po’ tradito, preferì restare con le certezze di prima ed abbandonò il gruppo, con i rimasti continuammo a ritrovarci per lo Zazen.

Tra le cose che avevamo lette e le cose che ci avevano dette, due erano i miti che a quei tempi ci accompagnavano nel nostro cammino zen: quello del maestro e quello della posizione di Zazen. Entrambe le cose, nel nostro modo di concepirle, si completavano anche bene tra di loro.

Infatti se avessimo dovuto raffigurare un maestro lo avremmo dipinto come una specie di samurai giapponese che siede immobile e senza battere ciglio in una posizione perfetta esprimendo tutta la marziale dignità di un guerriero antico. Conoscendo Inoue Muhen queste nostre convinzioni ricevettero qualche scossone. Era un monaco molto anziano e, se pur con una buona energia, aveva parecchi acciacchi dovuti all’età. Le gambe gli dolevano spesso e faceva molta fatica a restare immobile per lungo tempo in meditazione. Nonostante ciò tutte le mattine si sedeva in silenzio nella sua stanza, faceva meditazione e recitava i suoi Sutra. A noi raccomandò sempre di pregare e di praticare Zazen con costanza nella nostra vita. La sua posizione non era proprio perfetta, ma il cuore con il quale sapeva sedersi lo si poteva toccare. Qualche volta gli scappò detto che costruire templi e tirarsi dietro discepoli non era il suo genere; lo frenava anche una certa timidezza. Nel rapporto con lui, che fu di grande affetto e di grande amicizia, ci fece sentire sempre molto alla pari.

Credo che qualcuno accettasse l’idea di pensarlo come un maestro buddista più per il fatto che fosse giapponese che per il valore dell’insegnamento che sapeva trasmettere con semplicità attraverso il suo modo di affrontare la vita. Che era davvero grande. Dobbiamo certamente a lui per primo una visione più autentica del buddismo, una visione che ci ha permesso di fare qualche passo in avanti.

Prima di conoscere p. Soletta, missionario del P.I.M.E. in Giappone, non credevo molto che un prete cattolico potesse avvicinarsi allo Zen davvero con purezza di cuore, anche per un problema di appartenenza e di fedeltà. Questa posizione era abbastanza condivisa all’interno del nostro gruppo. Più in generale ritenevamo anche che dalla religione cattolica non ci fosse molto da imparare e va detto che pure sulla parola ‘religione’ eravamo molto prevenuti: ci inquietava solo a pensarla e non l’avremmo mai usata in relazione allo Zen.

Padre Soletta ci ha aiutati a toglierci dal limite di questo nostro modo di pensare, mostrandoci lo spirito con cui viveva la tradizione religiosa nella quale si era formato e la purezza con cui viveva lo Zen. Attraverso di lui (ma dovrei dire anche altri che sono stati importanti nella nostra formazione: David Turoldo, Cornelius Tholens, Raimon Panikkar, Don Lorenzo Milani e tanti ancora) abbiamo potuto comprendere che lo Spirito soffia liberamente, ed è questo Spirito che attraversa il tuo cammino religioso e può renderlo autentico. Il problema della fedeltà è un problema nei confronti dello Spirito più che della Via che si sceglie di percorrere.

Togliendoci di dosso il peso di qualche pregiudizio abbiamo cominciato ad ascoltare meglio ed abbiamo così potuto accogliere la ricchezza che anche altre esperienze potevano offrirci. Il cammino dell’incontro del Vangelo e dello Zen avvenuto attraverso la comunità "Stella del Mattino" è stata vissuta da noi come uno sbocco naturale del percorso, come un frutto nato dai semi che molte mani avevano piantato nel tempo e che era arrivato a maturazione. Era forse ormai venuto il momento di abbandonare ogni vaghezza per percorrere con più decisione questo cammino, il momento di coltivare più profondamente nel nostro cuore questo sentimento, il momento di una nuova scelta.

Da un lato abbiamo potuto toccare con mano quanto profonda è la Via dello Zen di Doghen, abbandonando un certo folclore che continuavamo a tenerci addosso, comprendendo che lo Zen è una Via che punta direttamente al centro della tua vita e la apre ad una visione nuova. E’ un cammino religioso che va percorso con serietà e non un minestrone di storielle accattivanti. Dall’altro versante, quello cristiano, abbiamo potuto sentire il gusto della tradizione religiosa da cui proveniamo, verificando quante cose ci erano sconosciute e come spesso la lettura di quelle che pensavamo di conoscere si era fermata troppo in superficie.

Tutto ciò ci fa sentire fortemente membri di una comunità, con tutto quello che questa cosa comporta: il piacere, ad esempio, di condividere insieme un cammino con il sostegno e l’affetto delle persone intorno a noi; persone con le quali viviamo rapporti intensi e veri, che comprendono anche le difficoltà e la disponibilità a rimettersi in discussione. Dalla ricchezza di questo nuovo cammino, a cui tutti abbiamo creduto, continuiamo ad attingere.

 

 


 

Schede

 

 

Brian Daizen Victoria, Zen alla guerra, tr. it., Dogliani, Sensibili alle foglie, 2001

Richard Holloway, Una morale senza Dio. Per tener fuori la religione dall'etica, tr. it., Milano, Ponte alle Grazie, 2001

 

Mi capitano fra le mani, e poi via via sulla scrivania, in borsa, sul comodino e nei pensieri, due libri che poco o nulla hanno all'apparenza in comune. Il primo è "una documentata indagine sul ruolo svolto dal buddismo zen a sostegno del militarismo giapponese" come promette in copertina l'editore, sotto un titolo abbastanza inquietante di questi tempi, soprattutto per chi trova nel buddismo zen un punto di riferimento. Avevo già sentito parlare di questo lavoro, pubblicato negli Stati Uniti e in Giappone nel 1997 ad opera di un monaco buddista zen americano, con tutte le carte in regola per una ricerca del genere: Brian Victoria ha vissuto a lungo in Giappone, dove ha svolto il proprio training monastico e ha compiuto il corso di studi buddisti alla Università Komazawa di Tokyo e attualmente è ricercatore presso il Centro di Studi Asiatici dell'Università di Adelaide. Ha dunque, almeno in teoria, i requisiti necessari per il lavoro che si è prefisso: una conoscenza in prima persona del fenomeno religioso zen e della sensibilità giapponese, la padronanza della lingua giapponese parlata e scritta, l'accesso diretto ai documenti, la metodologia di ricerca scientifica. Devo ammettere che, nonostante fossi a conoscenza di tutto ciò, mi sono accinto alla lettura più per senso del dovere che per reale interesse, e sono partito armato, visto che di guerra si tratta, di una buona dose di prevenzione pregiudiziale. Deve trattarsi, mi dicevo, di un libro a tesi, del solito occidentale col dente avvelenato verso i giapponesi che gliene hanno fatte di tutti i colori, sindrome pressoché inevitabile per chi ha risieduto a lungo nel paese del Sol Levante: ora gliela vuol fare pagare, pensavo, ha trovato l'argomento giusto e, in sella al destriero del pragmatismo puritano americano, parte a testa bassa facendo di ogni erba un fascio. Onore al merito: quando si legge un libro col filtro di un solido pregiudizio è ben raro che la lettura riesca a dissolverlo: il libro in questione ci è riuscito, nel mio caso, perché è un lavoro documentato, pacato, politicamente corretto senza essere blando né inconcludente, rigorosamente orientato senza accanimento terapeutico né spirito vendicativo.

Lo spirito del libro viene così descritto dall'autore: "In quanto prete buddista della tradizione Soto Zen, non mi è stato facile scrivere questo libro perché sono stato costretto a rivelare un lato oscuro della storia moderna del buddismo, pur rimanendo fedele alla religione da me adottata. Ricordo di essermi profondamente commosso, cinque o sei anni fa, quando incontrai un vecchio prete buddista cinese che avevo messo a parte dei risultati preliminari della mia ricerca. "La prego non scriva questo, mi scongiurò, perché metterà in cattiva luce il Dharma!" Il fatto che il prete fosse cinese e vittima, insieme ad altri, dell'aggressione giapponese rendeva ancor più commovente quella preghiera. Mi chiesi se per caso stessi per diffamare il Dharma del Buddha. Che vi sia diffamazione del Dharma del Buddha dipende dal punto di vista dell'osservatore - in questo caso il lettore - ma io ho condotto la mia ricerca e ho scritto su questo argomento difficile e imbarazzante con in mente un solo pensiero: la verità non può mai essere diffamazione. Dopo tutto fu lo stesso Buddha Shakyamuni a dire: "Siate luce a voi stessi; fidatevi di voi stessi e di nessun altro; fate del Dharma la vostra luce e il vostro sostegno e non fidatevi di niente altro". In questo spirito ho cercato di illuminare con più chiarezza possibile un passaggio oscuro e spaventoso della storia del buddismo, nella convinzione che i buddisti, come tutti coloro che aderiscono a qualsiasi religione e credo, debbano accettare le responsabilità tanto degli esiti migliori quanto di quelli peggiori della loro fede". A parte la questione se la verità possa o non possa in assoluto essere diffamazione (problematica che ci porterebbe lontano, fino a un tentativo di definizione di "verità" che fortunatamente esula dalla portata di una recensione) il fatto che dal punto di vista dell’osservatore dipenda o meno il diffamare o l’onorare la verità religiosa cui si fa fede, è la chiave di lettura a mio parere più interessante del libro. Non si tratta solo dell’atteggiamento verso il tema del libro, per cui se chi legge approfitta della critica in esso contenuta ai punti di vista e ai comportamenti dei preti buddisti giapponesi di un dato periodo storico per denigrare il buddismo in toto è un diffamatore, mentre se quella critica diventa occasione di riflessione e approfondimento religioso questo è un modo di onorare il dharma: c’è qualcosa di ancor più significativo. Questo libro è un’occasione di riflettere sulla religione come alibi, sul rischio intrinseco in ogni messaggio religioso, per raffinato e universale che sia, di venir utilizzato, senza alterarlo nella sua enunciazione ma operando sull’intenzione che lo orienta, per fini non solo del tutto impropri, ma addirittura opposti a quelli che ispirano il messaggio religioso stesso. Si tratta quindi di guardare con l’occhio più limpido possibile "gli esiti peggiori della propria fede", senza approfittare della scappatoia di imputare quegli esiti solo al carattere personale o culturale di chi quegli esiti ha prodotto, in questo caso non limitandosi a liquidare la questione come effetto dell’atmosfera giapponese dell’epoca (che certo ha svolto un ruolo tutt’altro che insignificante) ma scavando più a fondo, fino a vedere quegli aspetti del messaggio religioso che se per un verso ne costituiscono la forza, possono anche essere, per un altro verso, sintomo di una sua debolezza. Come è stato possibile che, come l’autore dimostra oltre ogni ragionevole dubbio, la quasi totalità della "classe dirigente" clericale del buddismo zen giapponese abbia utilizzato la visione, la pratica religiosa e la fede che il buddismo ispira a sostegno del militarismo, dell’imperialismo, del fanatismo e, molto concretamente, delle imprese efferate che il Giappone ha perpetrato in Asia (Cina, Corea, Manciuria…) dalla fine dell’Ottocento fino al 1945? Come è stato possibile che il sostegno incondizionato dato dal clero giapponese all’idea e alla prassi della Guerra Santa, della Grande Asia Orientale, della superiorità incondizionata del popolo giapponese fosse basato sui concetti buddisti di superamento dell’ego, di liberazione della vita e della morte, di trascendenza della dialettica di perdita e guadagno, persino sullo spirito della grande compassione universale? L’autore analizza con cura il fenomeno, per quanto riguarda l’utilizzo dei "valori" tipici del buddismo zen al servizio di una causa specifica, in questo caso l’imperialismo del Mikado. Formalmente non c’è nulla da eccepire: il riferimento allo spirito di sacrificio che, nella visione dell'inconsistenza di ogni forma di guadagno, giunge alla prassi della rinuncia alla propria e all’altrui vita è presente, in varie forme, in tutte le tradizioni religiose, e nello zen in modo forse specifico. Ma sono l’orientamento e l’applicazione di questo piano formale che vanno messi in discussione: altrimenti la più sublime enunciazione può anche avere come esito la più infame delle prassi. La teorizzazione dell’atto puro, che è premio a se stesso senza ulteriori aspettative, frutto immediato della totale dedizione alla via, può avere come esito una vita santa, ma anche una condotta criminale, a seconda del modo con cui la via si incarna nel mondo. Sotto questo punto di vista il libro non riguarda solo una particolare epoca storica di un particolare paese, ma chiunque pratichi e ami il buddismo: deve indurre a riflettere sull'orientamento della propria prassi, visto che la forma della prassi non è in se stessa garanzia di equità. A questo proposito sono interessanti anche alcune riflessioni critiche su certe caratteristiche del buddismo, che credo debbano diventare materia di approfondimento per i buddisti contemporanei. Ne cito una che mi ha colpito più di altre: una corrente del pensiero buddista giapponese contemporaneo suggerisce che la dottrina buddista della coproduzione condizionata, che dà luogo al concetto di non-ego, impedisce, così come è generalmente formulata, che "nel buddismo si sviluppi il principio occidentale di legge naturale, lasciando privi di fondamento i concetti moderni di ‘diritti umani’ e di ‘giustizia’". Certo è che il diritto formale assurto a norma definitiva costituisce una tentazione e un alibi proprio per quello spadroneggiare dell’io da cui il buddismo soprattutto mette in guardia, come insegna la storia delle ideologie del secolo appena trascorso ivi compresa una concezione solo quantitativa della democrazia. Questo libro ci ricorda che queste tematiche non sono estranee al discorso religioso, perché il messaggio religioso prende corpo sempre in realtà storiche determinate, e, pur rimanendo inalterato nel tempo, deve misurarsi con le condizioni, le comprensioni e le sensibilità del presente in cui si incarna.

E qui veniamo al secondo libro di cui suggerisco la lettura, anch’esso opera di un religioso, critico, in questo caso, del "sistema religione" nel suo complesso. La prima cosa che mi ha stupito di questo libro è lo status del suo autore, un vescovo cristiano; e la seconda è stato il mio stesso stupore: se stupisce, mi sono detto, che un vescovo (inteso come pastore di anime e autorevole legittimo rappresentante della propria tradizione religiosa) sia così lucido e intellettualmente onesto nei confronti della religione, vuol dire che il fenomeno religioso non gode di buona salute, almeno a livello istituzionale. L'autore è, infatti, vescovo di Edimburgo e presidente della Conferenza Episcopale Scozzese di rito anglicano (o almeno lo era fino a poco tempo fa, perché ora si è dimesso, a quanto pare). Il libro sostiene una tesi semplice e chiara: vista la necessità di elaborare, o quantomeno di porre le basi per un'etica universale in cui tutti gli abitanti del pianeta possano almeno potenzialmente riconoscersi, la prima cosa da fare è tenere fuori Dio e la religione dalla questione. "L'argomento di questo libro non è né Dio né la sua esistenza, anzi, muove dalla convinzione che la religione e Dio debbano essere tenuti separati dalla ricerca di principi etici generali. In questo senso, allora, è un libro senza Dio, anche se i lettori più attenti vedranno in ciò un paradosso. Se vi è un'entità che chiamiamo Dio, e se Dio è qualcosa di più della proiezione dei nostri valori più alti e delle nostre aspirazioni alla trascendenza, allora l'idea di Dio è necessariamente implicita in tutte le nostre tensioni morali; quindi il tentativo di trovare una moralità scevra da Dio sarebbe, paradossalmente, il suo più grande trionfo, e il nostro tentativo di vivere moralmente come se Dio non esistesse la più grande prova di fede. In questo libro si troveranno frequenti riferimenti a Dio e alla religione ma il suo scopo è di unire i credenti e i non credenti nella ricerca di un'etica praticabile nella nostra epoca". Lasciatemelo dire: non si trova tutti i giorni un vescovo che ragiona così, per il semplice fatto che al giorno d'oggi non fanno vescovo un religioso che ragiona così.

Il libro, scritto con tono spigliato e non privo di sense of humor nonostante (o forse proprio in omaggio a) la serietà del tema, prende in esame alcune problematiche concrete attuali nella nostra società (uso delle droghe, sessualità, bioetica...) affrontando i problemi con cognizione di causa e con atteggiamento radicale: nel senso di analizzare i problemi alla loro radice, evitando la tentazione dottrinale e moralistica di innestarli su una radice impropria. Dio e la religione di appartenenza, infatti, quando sono invocati come radice della morale diventano un alibi per la pretesa indiscutibilità del canone morale di riferimento: e la rivelazione, invece di essere il segno particolare dell'universalità che si fa realtà concreta (e dunque com-promessa al mondo, in simbiosi con esso e partecipe di un identico destino) diviene rivendicazione di un privilegio e alienazione dal mondo, con la pretesa però di interferire su di esso da una posizione indiscutibile e non verificabile. Oggi più che mai, sostiene l'autore, la direttiva morale va cercata attraverso il confronto e la ricerca del consenso, e non appellandosi al principio di autorità, che sempre meno persone riconoscono come valida sorgente della norma etica. Questa ricerca passa attraverso la non identificazione fra immoralità e peccato, che sono due concetti intrinsecamente differenti. "A questa [nuova] morale spetta raggiungere un giusto equilibrio fra accettazione delle legittime differenze di sistemi di valori e rifiuto di credere che tutti i valori si equivalgono". Il pluralismo dei sistemi non ha nulla a che fare col relativismo della moralità. Ma perché siano possibili un dialogo e una ricerca oltre il limite della propria visione, che sono ormai indispensabili per la civile convivenza planetaria, è fondamentale prendere atto che le differenze e i conflitti in materia di morale non sono l'antitesi fra il bene da una parte e il male dall'altra, ma fra due diverse concezioni di bene. Laddove i detentori di un sistema morale, per quanto sofisticato, lo identifichino con il bene tout court, questo fa implicitamente di ogni altro sistema alternativo una modalità del male: questa rozza semplificazione, così appagante il buon senso comune e così stravolgente la realtà delle cose, è la matrice dei più feroci conflitti e vanifica ogni ricerca di una morale universale come base di una convivenza non sostenuta solo dalla legge del più forte. Ogni concezione assoluta che abbia la pretesa dell'esclusività assume la veste ideologica dell'assolutismo: per questo la ricerca di un valore universale nel senso di universalmente condivisibile e non di universalmente imposto, non deve appoggiarsi su nessuna concezione assoluta, di cui l'idea di Dio (la propria idea di Dio) è l'esempio più evidente.

Non dipendere da un'idea di Dio come punto di appoggio alla morale universale del vivere, non approfittare dell'indipendenza da un'idea di Dio per vivere con una morale autoreferenziale: sono, in fondo, le due facce dell'idea religiosa di fondo che è alla base di entrambe i libri la cui lettura consiglio, dato che si tratta di una prospettiva concreta per l'avvenire della religione e dell'umanità.

Giuseppe Jiso Forzani

 

Raimon Panikkar, L’incontro indispensabile: dialogo delle religioni, tr. it., Milano, Jaca Book, 2001

Remo Bodei, I senza Dio. Figure e momenti dell’ateismo, Brescia, Morcelliana, 2001

 

Leggere un saggio, fitto e denso, per avere lumi su di uno specifico argomento può essere un aiuto non indifferente, in certi momenti auspicabile. Armati di tempo e pazienza (d’altronde la pazienza richiede dosi abbondanti di tempo), procediamo passo a passo seguendo la pista che l’autore delinea. Talvolta, invece, la brevità di un libro è preferibile in quanto agisce come premessa e invito, spesso indispensabile, per un lavoro creativo la cui prosecuzione necessita delle proprie forze. Il mio cammino solo io posso compierlo: sarà lapalissiano o pleonastico dire ciò, ma ogni tanto è utile rammentare anche questo elementare principio.

I due libricini in questione obbediscono al criterio della brevità. Potemmo anche dire che ci troviamo di fronte a due originali breviari che in qualche modo finiscono per richiamarsi vicendevolmente. Il testo di Raimon Panikkar costituisce una sorta di compendio delle idee maturate dall’autore, nel corso della sua vita, in materia di incontro e di dialogo religioso. Nella prefazione al libretto, p. de Béthune, monaco benedettino, esordisce presentando il lavoro come un manifesto del dialogo interculturale e interreligioso. Ciò è sicuramente vero, in quanto lo stile essenziale dell’esposizione procede come un manifesto, per punti di discussione - nove parti, ciascuna articolata in tre momenti -, anche se poi intenderlo come manifesto tout court diventa riduttivo, poiché l’idea di un manifesto richiama un’altra idea, quella di una proposta compiuta, mentre una delle caratteristiche della ricerca di Panikkar è proprio quella di essere in progress: non a caso le voci che ricorrono nelle pagine finali parlano di dialogo inconcluso, provvisorio, imperfetto.

Il libro invece esordisce affermando che la condizione primaria affinché l’incontro e il dialogo religioso possa avvenire risiede nella sua apertura costitutiva, al cui interno nulla viene tralasciato per principio e nessuno è escluso a priori, in quanto l’invito a partecipare è universale e dinanzi a ciò le cosiddette religioni non possono rivendicare il monopolio in materia religiosa, "né Dio né la religione sono per forza da dare per scontati nel dialogo" (p. 31), afferma Panikkar.

Simile premessa risulta quantomai idonea a presentare il libro di Remo Bodei. Il testo in questione è la trascrizione di un ciclo monografico, realizzato da Radio Tre, per la fortunata trasmissione di cultura religiosa intitolata ‘Uomini e Profeti’, a cura di Gabriella Caramore. L’interesse della conversazione risiede nel fatto che Bodei si presenta come un ateo che si interroga sul senso della fede religiosa, con quell’apertura a cui Panikkar si richiama nel suo libro.

A Bodei sta peraltro stretto il termine ‘ateo’, in quanto nella sensibilità comune finisce per indicare una persona irreligiosa che non crede a niente, (ma fa notare che curiosamente il termine nella Roma antica era rivolto ai cristiani, i quali non seguivano i culti ufficiali). Ma, accettando la sfida, cerca di ricavare le conseguenze più radicali del rapporto tra l’ateismo della cultura occidentale e le domande delle religioni. La ‘morte di Dio’, con la conseguente distruzione di qualsiasi valore assoluto, annunciata da Nietzsche, mettendo l’uomo di fronte a responsabilità inedite, contribuisce a svelare gli equivoci che si annidano nel sentimento religioso, e quindi, attraverso questo allargamento di orizzonti, risulta essere un aiuto indispensabile nella ricostruzione di una religiosità essenziale, più nuda e semplice. La religione contemporanea, dopo Nietsche (ma anche dopo Marx e dopo Freud) non può non passare attraverso l’ateismo, sostiene Bodei: "L’ateismo ha il vantaggio di sottrarre l’uomo allo stato di minorità e di fargli perdere la nostalgia del padre, rendendolo per ciò stesso adulto, capace di una fede adulta" (p. 86). Apprendendo dall’esperienza che qualcosa nella vita ci sfugge inesorabilmente e che la ricerca di senso può terminare anche in un fallimento, la riflessione di Bodei procede con l’invito a tenere aperta, comunque, la porta della propria personale interrogazione: "Continuerò a cercare risposte, rifiutando la banalità e l’indifferenza. (…)Vorrei però che anche chi ha fede lasciasse la porta aperta al dubbio e al rispetto di quel che pensano o credono gli altri. (…) Trovo ripugnante sottostare all’ultimatum in base al quale, se non credo in un determinato sistema di dogmi, mi ritrovo fuori dalla dimensione religiosa, di un legame profondo con gli altri e con il mondo. Io penso di esserci dentro" (pp. 93-94).

Giunti alla fine del libro di Bodei si ha la sensazione che vi sia un’unica domanda che lo attraversa, la quale viene riformulata in modi diversi nei capitoli che lo costituiscono: vi è differenza netta tra chi procede ‘con Dio’, aderendo a una confessione religiosa, e chi procede ‘senza Dio’ , fuori dall’appartenenza a una religione? Oppure simile differenza è assai più sfumata, se non impalpabile, mentre altri distinguo è bene avere sotto i propri occhi? Il dubbio, l’incertezza, l’incredulità e altre forme di tensione interiore abitano costitutivamente il cuore dell’uomo. Allora non è esercizio ozioso ricordare che il termine ‘credente’ è participio presente del verbo credere, non quello passato. Ha a che fare con un processo di costante rinnovamento di fronte alle domande che la vita mi pone. La domanda sulla fede potrebbe essere così riformulata: tu a quale participio appartieni? Sei un credente o il tuo rapporto con la vita lo coniughi al passato? Mi sembra che qui passi una sottile linea di demarcazione che percorre trasversalmente, toccando nel vivo coloro che si trovano collocati tra gli opposti (e artificiosi) steccati di ateo e religioso. Enzo Bianchi, priore della Comunità di Bose, a questo proposito diceva che alla fine saremo tutti giudicati non sulla base della nostra fede o non-fede, ma sulla base della nostra idolatria. Molti infatti sono gli idoli pronti a tentarci, i quali possono indossare all’uopo le sembianze più impensate…

Federico Battistutta

 

Jules Isaac, Gesù e Israele, tr. it., Genova, Marietti, 2001.

 

James Isaac, l'autore di questo interessante libro, era professore di Storia in Francia quando iniziarono le persecuzioni naziste. Tutta la sua famiglia fu costretta a fuggire e a rifugiarsi in un luogo nascosto in campagna; la moglie e i figli, ad eccezione di uno, vennero deportati e non fecero più ritorno; fu proprio in queste condizioni precarie che Isaac scrisse questo testo, ossessionato dal perché potesse essersi generato un tale disprezzo e accanimento sul popolo ebraico all'interno di una civiltà progredita e fondamentalmente cristiana, come era quella della Germania e della Francia, per non parlare della cattolicissima Polonia, senza che nessuno vi si opponesse con ferma decisione.

Isaac decide di ristudiare le scritture e i vangeli, seguendo i passi di Gesù all'interno della tradizione ebraica, analizzando con estrema cura le sue radici culturali e spirituali, riscoprendo un Gesù nutrito amorevolmente di ebraismo da una madre ebrea. Isaac, nel suo studiare i vari commentari alle sacre scritture, si accorge che molti studiosi cattolici avevano, nel corso dei secoli, volutamente mal interpretato la storia della vita del Messia e del suo popolo, convogliando l'attenzione dei lettori, credenti a loro volta, solo sul tradimento del popolo che da eletto si trasformò in deicida: mai una parola di comprensione né di affetto per una genia che dette la vita al Messia cristiano. Raramente venne fatta un'analisi corretta e distaccata della situazione storica e politica in cui gli avvenimenti del Vangelo si snodavano, mai una luce sull'amore che Gesù portava alle sue radici terrene: non l'amore del Cristo che salva tutti ma quello dell'uomo falegname con una visione religiosa meravigliosamente universale nel cuore, che respirava l'aria e la religiosità del suo luogo di nascita. Quell'atmosfera torva contro gli ebrei, e tutte le loro generazioni, sostenuta dal mondo cattolico, continua l'autore, aveva senza ombra di dubbio avvallato la Shoah, in molte situazioni, creando una condizione psicologica di accettazione del destino profetizzato del "popolo traditore". Certamente Isaac, se fosse ancora vivo, sarebbe felice di sapere che un Papa, Giovanni Paolo II, si è fatto carico degli errori di molte generazioni di cristiani, chiedendo perdono al così tanto amato popolo di Gesù.

Ho trovato questo libro estremamente piacevole da leggere, con molti riferimenti a passi del Vangelo e della Torah, un libro umile senza pretese scientifiche, mosso da un grande amore per la spiritualità ebraica e grande rispetto per la figura di Gesù; un libro che molti catechisti ancora oggi dovrebbero leggere, per evitare, nonostante l'intervento del Pontefice, di continuare a mantenere un atteggiamento di sfiducia e di fatalismo ogni volta che, nello studio della storia evangelica, viene riproposto l'arresto, il processo e la condanna a morte di Gesù, come di avvenimenti guidati da una regia di matrice ebraica. Gesù e Israele si suddivide in ventidue argomentazioni ed una conclusione e, nonostante le numerose pagine, ben 408, e le accurate note, non è un libro pesante: lo si può leggere a più riprese e non richiede una particolare erudizione perché la terminologia usata è di uso comune.

Consiglio a tutti di leggerlo, in particolare a chi non ha ancora bonificato del tutto il proprio cuore dal sentimento sottile che il popolo d'Israele sia, proprio come popolo, portatore di colpa, a chi ancora ritiene, magari solo nell'intimo inconfessato, che la Diaspora e la Shoah siano conseguenze della morte del Cristo, e nonostante tutto continua a professarsi cristiano.

Suggerisco inoltre a chi volesse approfondire ulteriormente l’argomento: Gesù ebreo di Riccardo Calimani, apparso presso gli Oscar Saggi Mondadori.

Luciana Mida Della Flora

 

 

 

 

 

 

 

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