Yves Klein

Stabilito che... (manifesto dell’Hotel Chelsea 1961)


Stabilito che per quindici anni ho dipinto monocromi.

Stabilito che ho creato delle situazioni di pittura immateriale.

Stabilito che ho manipolato le forze del vuoto.

Stabilito che ho scolpito il fuoco e l’acqua e dal fuoco e dall’acqua ho tratto dipinti.

Stabilito che ho usato pennelli vivi per dipingere, cioè il corpo nudo di modelle vive spalmato di colore, e con questi pennelli vivi costantemente ai miei ordini tipo - un pò più a destra, ed ora verso sinistra, di nuovo un pò a destra -, ecc. ho risolto così il problema del distacco dall’opera nel mantenere una distanza fissa obbligatoria dalla superficie del dipingere.

Dato che ho inventato l’architettura e l’urbanesimo dell’aria - naturalmente questa nuova concezione trascende il tradizionale significato delle parole architettura e urbanistica - essendo mio scopo originario rinnovare la leggenda del paradiso perduto. Questo progetto è stato applicato alla superficie abitabile della Terra con la climatizzazione di grandi distese geografiche, e attraverso un controllo assoluto delle condizioni termiche atmosferiche, nei loro rapporti con la nostra situazione d’esseri morfologici e fisiologici.

Dato che ho proposto una nuova concezione della musica con la mia Sinfonia-Monotono-Silenzio.

Stabilito che fra innumerevoli altre avventure ho raccolto il precipitato di un teatro del vuoto, quindici anni fa, all’epoca delle mie prime ricerche, non avrei mai creduto che un giorno, improvvisamente, avrei provato la necessità di soddisfare il vostro desiderio di sapere ed il perchè ed il per come di ciò che sta accadendo, e che mi preoccupa in particolare, l’influenza della mia arte sulle giovani generazioni d’artisti oggi nel mondo. Sono imbarazzato nel sentire che alcuni di loro pensino che io rappresento un pericolo per l’avvenire dell’arte e che io sia uno di quei prodotti disastrosi e nocivi della nostra epoca, che occorre eliminare e distruggere prima che il progredire del male possa estendersi. Sono desolato di doverli informare che tali non erano le mie intenzioni, e di dover dichiararare con piacere, per coloro che non credono alla molteplicità di nuove possibilità che la mia ricerca lascia intravvedere, che: Attenzione! Nessuna cristallizzazione di questo genere s’è ancora prodotta e non mi è possibile pronunciarmi su quanto avverrà in seguito.

Tutto ciò che posso dire è che oggi non mi sento più spaventato come un tempo, nel trovarmi di fronte a1 pensiero del futuro.

Un artista si sente sempre un po’ imbarazzato quando gli si chiede di spiegare la sua opera. I suoi lavori dovrebbero parlare da sè, particolarmente quando si tratta d’opere valide.

Di conseguenza che devo fare? devo fermarmi?

No! perchè ciò che chiamo indefinibile sensibilità pittorica vieta assolutamente, e precisamente, questa soluzione personale.

Allora…

Allora penso a quelle parole, che un’ispirazione improvvisa mi fece scrivere una sera: L’artista futuro non sarà forse colui che, attraverso il silenzio, ma eternamente, esprimerà un’immensa pittura, cui mancherà ogni concetto di dimensione?.

I visitatori delle gallerie - sempre le stesse persone, e simili a tutti gli altri - porteranno con sé quest’immensa pittura nella loro memoria (una memoria che non deriverà affatto dal passato ma che in se stessa sarà conoscenza di una possibilità di accrescere indefinitamente l’incommensurabile, all’interno della sensibilità umana dell’indefinibile). E’ sempre necessario creare e ricreare in un’incessante fluidità fisica in modo da ricevere questa grazia che permette una reale creatività del vuoto.

Nello stesso modo con cui creai nel 1947 una Sinfonia-Monotono-Silenzio composta di due parti - un enorme suono continuo seguito da un silenzio altrettanto enorme e ampio, cui avevo dato una dimensione illimitata - oggi mi accingo a tentare di far scorrere davanti a voi un quadro scritto su ciò che è la breve storia della mia arte, e anch’esso sarà naturalmente seguito, al termine della mia esposizione, da un puro silenzio affettivo. La mia esposizione si concluderà con la creazione di un irresistibile silenzio a posteriori, la cui esistenza nel nostro spazio comune, che dopo tutto non è altro che lo spazio di un solo essere vivente, è immunizzata contro le qualità distruttrici del rumore fisico. Ciò dipende in gran parte dal successo del mio quadro scritto nella sua fase iniziale tecnica e audibile. E’ allora soltanto che lo straordinario silenzio a posteriori, in mezzo al rumore come nella cellula del silenzio fisico, genererà una nuova ed unica zona di sensibilità pittorica dell’immateriale.

Avendo io oggi raggiunto questo punto dello spazio e della conoscenza, mi propongo di cingermi le reni, poi di arretrare di qualche passo, retrospettivamente, sul trampolino della mia evoluzione. Come un campione olimpionico di tuffi nel più classico stile dello sport, devo apprestarmi a fare un tuffo nel futuro di oggi, indietreggiando prima di tutto con la mia più estrema prudenza, senza mai perdere di vista questo limite oggi coscientemente raggiunto: l’immaterializzazione dell’arte.

Qual è lo scopo di questo viaggio retrospettivo nel tempo? Semplicemente vorrei evitare che voi ed io cadessimo preda di quel fenomeno di sogno che descrive i sentimenti e i paesaggi che verrebbero provocati da un nostro brusco atterraggio nel passato. Il quale passato è precisamente il passato psicologico, l’anti-spazio, che ho abbandonato dietro a me nel corso degli eventi che ho vissuto in questi quindici anni. Oggi, mi sento particolarmente entusiasmato dal cattivo gusto. Io ho l’intima convinzione che là, nell’essenza stessa del cattivo gusto, esista una forza capace di creare cose che sono situate ben al di là di ciò che tradizionalmente è chiamata opera d’arte. Io voglio giocare con la sentimentalità umana, con la sua morbidezza, freddamente e ferocemente.

Recentemente sono diventato una sorta di affossatore dell’arte (molto curiosamente, in questo momento utilizzo le stesse parole dei miei avversari). Alcune delle mie opere più recenti sono delle bare e delle tombe. E nello stesso tempo io riuscivo a dipingere col fuoco, utilizzando a questo scopo delle fiamme di gas particolarmente potenti ed essiccanti, alcune delle quali raggiungevano tre o quattro metri di altezza. Sfioravo con esse la superficie del dipinto, in. modo tale da registrare la traccia spontanea del fuoco.

Il mio proposito è quindi duplice: in primo luogo registrare l’impronta della sentimentalità dell’uomo della civiltà di oggi; e poi registrare la traccia di ciò che precisamente aveva generato questa medesima civiltà, cioè la traccia del fuoco. E tutto questo perchè il vuoto è sempre stato la mia preoccupazione essenziale; io sono sempre ben sicuro che, nel cuore del vuoto come nel cuore dell’uomo ci sono dei fuochi che bruciano.

Yves Klein durante la realizzazione di Peinture Feu (F 3) Yves Klein. "Mur de feu et Fontane de feu" (1961). Strutture con ugelli da gas accesi. Giardino del Museum Haus Lange, Krefeld, durante l'esposizione "Monochrome und Feuer" 14 gennaio 1961.

          

Tutte le realtà in sè contraddittorie, sono autentici principi di una spiegazione dell’universo. Il fuoco è veramente uno di questi principi autentici che sono essenzialmente contraddittori gli uni agli altri, essendo nello stesso tempo dolcezza e tortura, nel cuore e nell’origine della nostra civiltà. Ma che cosa provoca in me questa ricerca della sentimentalità attraverso la fabbricazione di super-tombe e di super-bare? Che cosa provoca in me questa ricerca dell’impronta del fuoco? Perchè bisogna, che io ne cerchi la traccia stessa? Perchè tutto il lavoro della creazione, senza tener conto della sua posizione cosmica, la rappresentazione di una pura fenomenologia tutto ciò che è fenomeno si rappresenta da se stesso. Questo manifestarsi è sempre distinto dalla forma, ed è l’essenza dell’immediato.

Qualche mese fa, per esempio, io provai la necessità di registrare le impronte del comportamento dell’atmosfera, ricevendo sopra la tela le tracce istantanee degli acquazzoni di primavera, dei venti del sud e dei fulmini (c’è bisogno di precisare che quest’ultimo tentativo si risolse in un disastro?). Per esempio, un viaggio da Parigi a Nizza sarebbe stato una perdita di tempo se io non l’avessi messo a profitto per fare una registrazione del vento. Posai una tela, spalmata di fresco con il colore, sul tetto della mia CitrØen bianca. E mentre divoravo la nazionale 7 a cento chilometri l’ora, il caldo, il freddo, il sole, e la pioggia fecero sì che la mia tela si ritrovò prematuramente vecchia. Trenta o quaranta anni almeno si trovano concentrati in una sola giornata. L’unica cosa noiosa in questo progetto era che per tutto il viaggio non mi potevo separare dal mio dipinto.

Le impronte atmosferiche che io registravo erano state precedute qualche mese prima da impronte vegetali. Prima di tutto, il mio scopo è estrarre ed ottenere la traccia dell’immediato negli oggetti naturali, quale che ne sia l’incidenza, quali che ne siano le circostanze, umane, animali, vegetali o atmosferiche. Vorrei ora, con il vostro permesso - e vi chiedo la più estrema attenzione - rivelarvi la fase della mia arte che è forse la più importante, e certo la più segreta. Non so se mi crederete o no, ma è il cannibalismo. Dopotutto essere mangiati non sarebbe preferibile che morire sotto le bombe?

Mi è molto difficile sviluppare quest’idea, che mi ha tormentato per degli anni. Perciò ve la do tale quale, affinchè voi ne traiate conclusioni personali, a proposito di quello che io credo sia l’avvenire dell’arte. Se facciamo di nuovo un passo indietro, seguendo la linea della mia evoluzione, arriviamo nel momento nel quale pensavo di dipingere servendomi di pennelli viventi. Era due anni fa. Lo scopo di quel modo di procedere era di giungere a mantenere una distanza definita e costante tra il dipinto e me, per tutto il tempo della creazione.

Molti critici si sono messi a sbraitare che con questo modo di dipingere non facevo altro che ricreare semplicemente la tecnica di quello che è stato definito action painting. Ma vorrei ora che ci si rendesse ben conto che quest’esperienza si distingueva dall’action painting per il fatto che io, in effetti, sono completamente staccato da ogni lavoro fisico per tutta la durata della creazione.

Per non citare che un solo esempio degli errori antropometrici in proposito che sono alimentati dalle idee deformate diffuse dalla stampa internazionale, parlerò di quel gruppo di pittori giapponesi, che, con il più grande ardore possibile, utilizzarono il mio metodo in un modo davvero strano. Questi pittori, semplicemente, si trasformano essi stessi in pennelli viventi. Tuffandosi nel colore e rotolandosi sulle loro tele, essi diventano così i rappresentanti dell’ultra action painting! Personalmente, io non tenterei mai di impiastricciarmi il corpo, per divenire così un pennello vivente; ma preferirei al contrario vestirmi con lo smoking e infilarmi i guanti bianchi. Non mi sognerei neppure di sporcarmi le mani con della vernice. Distaccato e lontano, è sotto i miei occhi e sotto i miei ordini che deve compiersi il lavoro artistico. Allora, dal momento in cui l’opera inizia la sua fase finale, io mi drizzo là, presente alla cerimonia, immacolato, calmo, disteso, perfettamente cosciente di ciò che sta accadendo e pronto a ricevere l’arte al suo nascere nel mondo tangibile.

Che cosa mi ha condotto all’antropometria? La risposta sta nelle opere che ho eseguito tra il 1956 e il 1957, nel periodo in cui prendevo parte a quella grand’avventura che era la creazione della sensibilità pittorica immateriale.

Avevo appena sbarazzato il mio atelier di tutte le mie opere precedenti. Risultato: un atelier vuoto. Tutto quello che potevo fisicamente fare era restare nel mio atelier vuoto, e la mia attività creatrice di situazioni pittoriche immateriali si manifestava meravigliosamente. Tuttavia, poco a poco, diventavo diffidente; a tu per tu con me stesso, ma mai a tu per tu con l’immateriale. A partire da quel momento, io presi delle modelle a pagamento, come fanno tutti i pittori. Ma al contrario degli altri, io non volevo altro che lavorare in compagnia delle modelle, e non farle posare per me. Avevo passato veramente troppo tempo da solo in quell’atelier vuoto: e non volevo più rimaner solo con quel vuoto meravigliosamente blu che stava per sbocciare.

Per quanto ciò possa sembrare strano, ricordatevi che io ero perfettamente cosciente del fatto che non provavo per nulla quella vertigine sentita da tutti i miei predecessori; quando si sono trovati faccia a faccia con il vuoto assoluto che è ovviamente l’autentico spazio pittorico. Ma nel prendere coscienza di una simile cosa, per quanto tempo sarei ancora stato sicuro?

Anni prima di questi fatti, l’artista andava dritto al suo soggetto, lavorava all’aperto in campagna, e aveva i piedi per terra. Oggi i pittori di cavalletto, diventati pittori d’accademia, sono arrivati al punto di rinchiudersi nei loro ateliers per confrontare gli specchi terrificanti delle loro tele. Allora la ragione che mi spingeva a utilizzare delle modelle diventa praticamente ovvia: era un mezzo per evitare il pericolo di trovarmi rinchiuso nelle sfere non troppo spirituali della creazione, rompendo così con il più elementare buon senso, costantemente riaffermato dalla nostra condizione di persone incarnate. La forma del corpo, la sua linea, i suoi strani colori oscillanti tra la vita e la morte non presentavano alcun interesse per me. Soltanto l’atmosfera affettiva, pura, essenziale della carne ha importanza. Con l’avere respinto il nulla, io avevo scoperto il vuoto. Il significato delle zone pittoriche immateriali, derivate dal profondo del vuoto che in quel momento ero giunto a dominare, era veramente d’ordine materiale. Ritenendo inaccettabile vendere per denaro queste zone pittoriche immateriali, io in cambio della più alta qualità dell’immateriale pretendevo la più alta quantità del compenso materiale: un. Lingotto d’oro puro. Per quanto incredibile possa sembrare, ho già venduto un gran numero di queste situazioni pittoriche immateriali.

Ci sarebbero tante cose da dire sulla mia avventura nell’immateriale e nel vuoto, che ciò approderebbe a una pausa particolarmente lunga, anche se io sono sempre immerso nell’attuale elaborazione di una pittura scritta.

Non mi sembrava più che la pittura dovesse essere funzionalmente legata al vedere, quando, nei corso del mio periodo monocromo blu del 1957, presi coscienza di ciò che ho definito la sensibilità pittorica. Questa sensibilità pittorica esiste al di là di noi, e tuttavia appartiene ancora alla nostra sfera. Noi non deteniamo alcun diritto sul possesso della vita. E’ soltanto con l’intermediario della nostra presa di possesso della sensibilità che possiamo acquistarci la vita. La sensibilità, che ci permette di continuare la vita al livello delle sue manifestazioni materiali di base, negli scambi e nei baratti che sono l’universo dello spazio e la totalità immensa della natura.

L’immaginazione è il veicolo della sensibilità! Trasportati dall’arte, si materializza istantaneamente. Essa fa la sua apparizione nel mondo tangibile, allorchè io rimango in un luogo geometricamente definito, sulle orme di spostamenti volumetrici straordinari, con una velocità statica e vertiginosa.

La spiegazione delle condizioni che mi hanno condotto alla sensibilità pittorica sta, nella forza intrinseca dei monocromi del periodo blu del 1957. Quel periodo dei monocromi blu era il frutto della mia ricercar dell’indefinibile in pittura, che il maestro Delacroix era già in grado di segnalare al suo tempo.

Dal 1946 al 1956, le mie esperienze monocrome effettuate con colori diversi dal blu non mi fecero mai perdere di vista la verità fondamentale del nostro tempo, cioè che la forma non è oramai più un semplice valore lineare, ma un valore di impregnazione. Quando ero ancora un adolescente nel 1946, stavo per scrivere il mio nome sull’altra parte del cielo, durante un fantastico viaggio realistico-immaginario. Quel giorno, mentre ero sdraiato sulla spiaggia di Nizza, io incominciai a provare odio contro gli uccelli che volavano di qua e di là, nel mio bel cielo blu senza nuvole, perchè essi tentavano di fare dei buchi nella più bella e più grande delle mie opere.

Bisogna distruggere gli uccelli, fino all’ultimo.

Allora noi, gli umani, avremo acquistato il diritto di evolvere in piena libertà, senza alcun impedimento fisico o spirituale.

Nè i missili, né i razzi, né gli sputniks faranno dell’uomo il conquistador dello spazio. Questi mezzi ci sollevano dalle fantasmagorie dei sapienti d’oggi, che sono sempre animati dallo spirito romantico e sentimentale che era proprio del XIX secolo. L’uomo non arriverà a prendere possesso dello spazio se non attraverso le forze terribili, sebbene improntate alla pace, della sensibilità. Non potrà conquistare veramente lo spazio - il che è certamente il suo più caro desiderio - se non dopo aver realizzato l’impregnazione dello spazio con la sua propria sensibilità. La sensibilità dell’uomo è onnipotente sulla realtà immateriale. La sua sensibilità può anche leggere nella memoria della natura, che si tratti di passato, di presente o di futuro! Questa è la nostra autentica capacità di azione extra-dimensionale!.

E, ce n’è bisogno, ecco qualche prova di ciò che affermo:

Dante, nella Divina Commedia, ha descritto con precisione assoluta quel che nessun viaggiatore del suo tempo avrebbe ragionevolmente potuto scoprire, la costellazione, invisibile dall’emisfero nord, conosciuta sotto il nome di Croce del Sud; Jonathan Swift, nel suo viaggio a Laputa fornì le distanze e i periodi di rotazione di due satelliti di Marte allora completamente sconosciuti. Quando l’astronomo americano Asaph Hall li scoprì nel 1877, verificò che le sue misure erano uguali a quelle di Swift. Preso dal panico, li chiamò Phobos e Deimos, cioè Paura e Terrore. Io mi ritrovo ora davanti a voi, pronto a tuffarmi nel vuoto. Lunga vita all’immateriale!

E adesso, vi ringrazio della vostra amabile attenzione.

 

Testo pubblicato nel catalogo dell’esposizione alla Iolas Gallery, New York 1962 ripreso in: YVES KLEIN IL MISTERO OSTENTATO di G. Martano.


Yves KLEIN

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