breve cronistoria dell'epistemologia

Ciò che i filosofi dicono della realtà è così deludente come il cartello "Qui si stira" che vediamo nella vetrina di un rigattiere. Se vi portiamo il nostro vestito per farlo stirare, restiamo delusi, perché ciò che si vende dal rigattiere non è la stiratura bensì il cartello.
Soeren Kierkegaard, Aut Aut, in Opere, vol. I, a c. di C. Fabro, Casale Monferrato, Piemme, 1995

evoluzione: dalla scimmia all'homo computerizzato

Questo quadro sinottico è volutamente incompleto in quanto ha il solo scopo di fornire un breve riassunto cronologico a complemento di quanto esposto negli articoli precedenti (si veda La filosofia dei greci e elementi di epistemologia). I filosofi e le scuole di pensiero qui ricordate, sono quindi essenzialmente limitate alle riflessioni sul problema della conoscenza (la storia della scienza non è inserita in questo contesto). Alcune di queste riflessioni oggi possono sembrare banali, dato che sono entrate a far parte del patrimonio culturale di qualsiasi persona istruita del nostro tempo; tuttavia, questa è anche una conseguenza dell'impostazione scelta. Infatti, non si è accennato alla vita dei singoli pensatori - pur riconoscendone l'importanza - la quale avrebbe permesso di avere un'idea della libertà di pensiero del filosofo. Per esempio, è opinione diffusa che se Newton avesse incontrato le "difficoltà" di Galilei non avrebbe pubblicato le sue opere, o almeno queste non avrebbero avuto la forma ed i contenuti che conosciamo. Anche la storia del pensiero religioso è stata trascurata, sebbene rivesta notevole importanza in quanto ha indubbiamente orientato o condizionato l'evoluzione del pensiero scientifico. Si noterà infatti come le idee della conoscenza non si avvicendino perfezionandosi, bensì si sviluppino intrecciandosi con argomentazioni precedenti a volte prima respinte.


David Hume (1711-1776), padre del fenomenismo, estese logicamente le argomentazioni di Hobbes e Berkeley ottenendone conclusioni ardite. Hume afferma che ogni nostra conoscenza ha origine dalla sensazione: non possiamo conoscere le sostanze ma solo le loro rappresenrtazioni. A questo proposito, distingue le impressioni dalle idee: le impressioni sono le sensazioni primitive, le idee sono le impressioni riprodotte (immagini, idee astratte, ecc.), caratterizzate da un grado minore di forza e di vivacità: le immagini sono quindio gli originali, le idee sono le copie. Tanto le une quanto le altre vanno soggette a speciali leggi di associazione: quando un'impressione o un'idea si presenta, essa si associa automaticamente ad un'altra idea, o per somiglianza o per contiguità spaziale e temporale, o per rapporto di causa e di effetto.

Il principio di causa efficiente consiste nell'ammettere tra due fatti una connessione necessaria, per cui uno si dice causa dell'altro che si chiama effetto: così, ad esempio, diciamo che la fiamma è causa del caldo, che ne è l'effetto; il lampo è causa del tuono, e via dicendo.
Però, riguardo a questo principio l'esperienza si limita a darci un semplice rapporto di successione (post hoc), per cui un fatto A (causa) succede ad un fatto B (effetto): siamo noi che, vedendo abitualmente come ad un fatto A succede un fatto B, crediamo che uno sia connesso con l'altro, e trasformiamo la successione (post hoc) in connessione (propter hoc).
In questa successione causa-effetto agisce un sentimento particolare, definito fede o credenza: sentimento per cui la ripetizione abituale di certi fatti si impone sul nostro spirito con tale eneregia da trasformare in coscienza vera e propria ciò che è semplice probabilità. La fede o credenza è la grande guida della vita umana, poiché supplisce là dove la ragione nojn è sufficiente.
Con queste argomentazioni, Hume porta l'empirismo alle sue estreme conseguenze: noi non possiamo conoscere ciò che ci appare (fenomenismo) ed ogni metafisica è impossibile (scetticismo).

La filosofia di Hume è estremamente varia ed interessante, e riguarda anche questioni religiose discusse laicamente e criticamente. D'altra parte, ad un moderno lettore, dotato di un discreto senso critico, l'insieme - benché rivoluzionario per i suoi tempi - appare abbastanza logico e ragionevole. E così, proprio come accade in una discussione i cui partecipanti sono d'accordo nelle linee generali, gli scambi di "vedute" si esauriscono ben presto, a meno che si cerchi qualcosa di nuovo sul quale far convergere i propri sforzi. Allo stesso modo, dedicheremo maggior spazio a due personaggi la cui filosofia è molto più complessa e meno aderente alla odierna mentalità.

Immanuel Kant (1724-1804), le sue opere principali sono: Critica della Ragion Pura (1781), Critica della Ragion Pratica (1788), Critica del Giudizio (1790). La filosofia di Kant è molto complessa, ma per le finalità di questo sommario è sufficiente limitarci ad accennare gli elementi essenziali della prima opera (la quale, come vedremo, pur nella sua enorme complessità ha solo valore storico); la seconda riguarda il problema morale, e l'ultima concilia le prime due.

Nella Critica della Ragion Pura, Kant esamina i fondamenti ed i limiti della conoscenza umana per delineare un'epistemologia capace di legittimare razionalmente le conquiste della scienza moderna. In modo simile ad alcuni filosofi precedenti, Kant differenzia le modalità del pensiero in giudizi analitici, o a priori, e giudizi sintetici, o a posteriori.

Nella Critica della Ragion Pura, Kant sostiene che è possibile formulare giudizi sintetici a priori, ossia fecondi (come quelli a posteriori) ma nel contempo universali e necessari.

Esempi di tali giudizi sono le operazioni matematiche come: "7 + 5 = 12" , perché il predicato "12" arricchisce la nostra conoscenza in quanto è il risultato di un'operazione di addizione. Un altro esempio: "in un triangolo la somma degli angoli è uguale a due angoli retti". il predicato "due angoli retti" deriva da un'operazione di addizione (il triangolo in questione, è "il" triangolo come... modello platonico).
Quindi, la matematica e la fisica contengono proposizioni, giudizi sintetici a priori, che non sono frutto di semplici generalizzazioni di esperienze, ma sono necessarie ed universali pur non essendo analitiche: solo tali giudizi permettono una scienza rigorosa.
A questo punto, sorge un problema: la necessità e l'universalità - abbiamo premesso - non derivano dall'esperienza, mentre la nozione nuova deriva dall'esperienza. Il problema che si pone è da dove derivino la necessità e l'universalità per i giudizi a priori.

Dopo una prima fase "razionalista", Kant afferma di essere stato svegliato dal suo sonno dogmatico da Hume: la necessità non deriva dall'esperienza. Dunque, la soluzione deve trovarsi in una sorta di “innatismo”.
Per Kant, il problema di cercare che cosa renda possibile la conoscenza, riguarda non solo la conoscenza matematica, ma anche la conoscenza sensibile. La conoscenza sensibile richiede una spiegazione in quanto noi, nel momento in cui percepiamo un oggetto (immagine) sensibile, facciamo ricorso ad uno schema mentale: come si può affermare che questo è un albero, senza avere l'idea di albero?
La soluzione proposta da Kant, implica che la nostra conoscenza sensibile presupponga una sorta di innatismo. Sebbene la tesi proposta da Kant parta da quella di Platone, egli la approfondisce: noi non potremmo percepire alcun oggetto sensibile senza collocarlo in uno spazio ed in un tempo. Per Kant "spazio" e "tempo" sono appunto schemi a priori, che non derivano dall'esperienza.

Questa tesi sembra in contrasto con il fatto che da bambini abbiamo appreso proprio grazie all'esperienza i concetti di spazio e tempo (almeno, credo che sia stato così... ce lo conferma la psicologia!)
In effetti, è vero che senza l'esperienza non sapremmo cosa sia il tempo e lo spazio; ma questo significa solo che la conoscenza sensibile "inizia" con l'esperienza, non che "derivi" da essa. Questi concetti secondo Kant sono innati, così come (esempio non di Kant) avverrebbe ad una collettività isolata dedita al baratto che dopo aver trovato un forziere pieno di monete potrebbe comprenderne il valore solo dopo aver imparato che con esse si possono acquistare delle merci.

Dunque, per Kant è evidente che se spazio e tempo non fossero presupposti alla percezione sensibile, non potremmo collocare nello spazio e nel tempo gli oggetti percepiti: lo spazio e il tempo sono schemi a priori. Non si può ritenere rigorosa la tesi secondo cui spazio e tempo derivano dall'esperienza: se fosse così, percepiremmo con la prima esperienza degli oggetti sensibili senza nessun collocamento nello spazio e nel tempo, il che è logicamente impossibile... non potremmo percepirli o rappresentarceli!
Spazio e tempo sono delle “forme” (non dei contenuti), ossia delle “modalità” con cui la percezione sensibile percepisce i contenuti (gli oggetti sensibili). Si tratta di modalità di organizzazione del materiale sensibile che viene percepito: spazio e tempo, in altre parole organizzano gli oggetti percepiti.
Inoltre, spazio e tempo sono forme "pure", in quanto sono "a priori". Lo spazio è la forma a priori del "senso esterno": attraverso esso noi "unifichiamo il molteplice sensibile" secondo l'"ordine" della coesistenza delle cose (le cose, cioè, vengono disposte l'una “accanto” all'altra). Il tempo è la forma pura del "senso interno": è esso che unifica le nostre sensazioni secondo l'ordine della “successione” (le sensazioni vengono disposte l'uno “dopo” l'altra).

Kant nega che gli schemi di spazio e tempo derivino direttamente o indirettamente dall'esperienza (per Locke le idee di spazio e tempo, in quanto complesse, non sono altro che la rielaborazione delle idee semplici di distanza e di durata), e nega anche il carattere oggettivo che gli attribuiva Newton: se spazio e tempo fossero dei recipienti vuoti che esistono in sé, come farebbero ad esistere se non vi fossero in essi degli oggetti reali?

Questo punto è interessante: lo spazio e il tempo, secondo Kant, perdono il carattere “assoluto” che attribuiva loro Newton. Questa proposizione sembra ragionevole: se tempo e spazio sono pure modalità di funzionamento delle nostre percezioni sensibili non possono avere il carattere di assolutezza (assoluto è il contrario di relativo).

Anche questa volta, Kant (come aveva fatto con l'innatismo di Platone) sostiene, rielaborandola, la tesi di Newton: considerato che tali schemi sono modi di funzionamento del percepire sensibile di ogni uomo, hanno un carattere di universalità e quindi di assolutezza (Einstein ha dimostrato che l'assolutezza è un prodotto del nostro senso comune, ingabbiato nei pregiudizi).
Precisiamo il ragionamento di Kant. Spazio e tempo sono, effettivamente, modalità del percepire, funzioni a priori (e quindi soggettive), però sono di fatto "oggettive", in quanto essendo comuni a tutti gli uomini, non sono relative, ma assolute, quindi non sono soggettive, ma oggettive. Spazio e tempo conferiscono un ordine al molteplice sensibile: la materia. La conoscenza, per Kant, è una sintesi di forme a priori e materia (contenuto sensibile). La conoscenza sensibile, quindi, non è che il risultato dell'unificazione del molteplice sensibile ad opera delle funzioni di spazio e tempo.

Un breve commento: se accettiamo l'idea che l'ordine non sia nelle cose, ma nella modalità con cui noi percepiamo gli oggetti, si cade nel soggettivismo più radicale: se gli oggetti sensibili si palesano in base a schemi mentali soggettivi, tutto diventa una... illusione, anche se comune a tutti (problema risolto da Cartesio... ma, solo per sè stesso). La tesi di Kant indubbiamente rivoluziona la nostra convinzione comune. Questa convinzione comune (argomento del consenso collettivo) ovviamente, non significa che Kant abbia torto o... ragione. Ma è essenziale comprenderla bene perchè appartiene al suo contesto storico. In breve, Kant era un solipsista.

Kant considerava la sua critica una rivoluzione paragonabile a quella di Copernico: per opera di Copernico, si iniziò a ritenere che non fosse il Sole a girare attorno alla Terra, ma il contrario; per opera di Kant si sarebbe compreso che non è il pensiero a dipendere dalle cose, ma le cose dal pensiero.
Dunque, è la mente umana che conferisce un “ordine” al caos delle informazioni che provengono dai sensi. E' come se noi guardassimo le cose attraverso delle lenti azzurre: tutti vedono azzurro e, fuor di metafora, un molteplice sensibile ordinato. Oppure (esempio non di Kant) è come se le informazioni sensibili venissero colte e rielaborate da programmi fissi, immutabili, propri della nostra mente: oggi diremmo che gli schemi di spazio e tempo sono una sorta di programma genetico uguale per tutti.

Ora, riprendiamo le proposizioni matematiche. Per Kant sono - come abbiamo detto - sintetiche a priori. Ad esempio l’"8” non è una semplice ripetizione del soggetto "3 + 5", ma il risultato dell'operazione di addizione: si tratta di un giudizio che arricchisce il soggetto e nello stesso tempo di un giudizio in cui il nesso tra predicato e soggetto è necessario e universale.
Le proposizioni analitiche si fondano sul principio di identità (sono quindi tautologiche) mentre quelle sintetiche si fondano sull'esperienza (da qui il loro essere feconde, ma anche il loro non essere né necessarie né universali). E dunque, su cosa si fondano le proposizioni sintetiche a priori?

Ovviamente non possono fondarsi sul principio di identità e sull'esperienza. In particolare: non possono fondarsi sul principio di identità (A = A) perché in tali proposizioni il predicato non ripete il soggetto (ricordiamo che nelle proposizioni sintetiche a priori il predicato non è contenuto nel soggetto). Qual è, allora, il fondamento di tali proposizioni? Per Kant si fondano sulla forma a priori dello "spazio".
Esaminiamo ad esempio una proposizioni della geometria: "la linea retta è la più breve tra due punti". Solo lo schema a priori dello spazio ci consente di connettere la "linea più breve tra due punti" con il concetto di "retta". "la linea più breve tra due punti" non è inclusa nel concetto di "retta" per cui la proposizione non si fonda sul principio di identità. Per Kant, la connessione necessaria risiede nella funzione unificatrice del molteplice che è la forma a priori di spazio, una forma comune a tutti gli uomini. Da qui l'universalità e la necessità.

Riprendiamo ora in considerazione l'esempio aritmetico. Cos'è che fonda "3 + 5 = 8"?
A questo punto della nostra discussione, la risposta di Kant è ovvia. Si tratta della funzione a priori del tempo: l'addizione consiste nel mettere insieme una dopo l'altra le unità. Dunque, "3 + 5 = 8", per Kant non è una proposizione analitica in quanto l’"8" non è incluso nel soggetto "3 + 5", ma è il risultato di un'operazione. Non si tratta, dunque, di una proposizione fondata sul principio di identità. Su cosa si fonda allora la connessione necessaria? Per Kant sulla funzione unificatrice del tempo (che associa uno "dopo" l'altro i numeri). A questo punto siamo in grado, allora, di comprendere perché le proposizioni matematiche hanno una connessione necessaria e quindi sono universalmente accettate.

Per Kant la scienza presenta insieme i caratteri di “necessità” e “universalità” da una parte e di “novità” dall'altra: le leggi scientifiche, cioè, hanno un valore assoluto e nello stesso tempo non sono mere tautologie in quanto arricchiscono la nostra conoscenza. E questo perché necessità e universalità sono "forme pure", forme, cioè, che non derivano dall'esperienza. In altre parole sono forme a "priori". Queste forme a "priori" sono collegate in modo necessario e universale dalla mente umana. E' la nostra mente che conferisce un ordine immutabile ai fenomeni (ad esempio dove c'è fuoco c'è fumo), un ordine che non è dato dall'esperienza.
E' la mente umana che conferisce l'”ordine” ai fenomeni, un ordine “immutabile”, “necessario” (fuoco e fumo, determinate condizioni di temperatura e di pressione e il vento...).

Per Hume - come abbiamo visto - la necessità è il prodotto di una credenza, a sua volta prodotto dell'abitudine a vedere concomitanti certi fenomeni: le leggi scientifiche sono, in ultima analisi, il prodotto della credenza e quindi solo probabili. In realtà, Kant condivide l'analisi di Hume secondo cui la necessità non deriva dall'esperienza (anche miliardi di fatti, di concomitanze, non fanno una necessità), ma nel contempo non segue Hume nel suo scetticismo. Per Kant le leggi scoperte da Newton sono "le leggi scientifiche", hanno cioè un valore assoluto, non solo probabile. Da qui la sua soluzione: la connessione necessaria tra fenomeni è data dalla mente umana.

E' la mente umana che connette i fenomeni in modo necessario: da qui l'universalità della legge (si noti che Kant in questo modo, dimostra che il metodo induttivo è del tutto superiore al metodo deduttivo). Lo stesso discorso vale per gli altri ingredienti della scienza che non hanno una base empirica: vedi la “causalità” (già implicita nel discorso del nesso "necessario") e la “sostanza”. E' la mente che connette i fenomeni con un rapporto di causa ed effetto (e non semplicemente di successione o di concomitanza).
E' la mente che unifica le qualità sensibili (di un oggetto, di una stella...) in un supporto che chiamiamo "sostanza". “Sostanza”, “causalità”, “necessità”, “universalità” (ed altre) sono per Kant le forme a priori dell’“intelletto”, forme che Kant chiamerà “categorie”. Si tratta di modalità con cui l'intelletto conferisce ordine al molteplice sensibile.

Kant sviluppò la sua analisi basandosi sulla convinzione che la scienza newtoniana fosse... “la scienza”, che fosse, cioè, il sapere vero, un sapere che ha come oggetto leggi necessarie, immutabili, eterne, leggi che non sono proposizioni semplicemente tautologiche, ma “sintetiche a priori”. Questa convenzione è errata, sebbene corretta in chiave storica, cioè nei problemi dell'epoca in cui viveva: con la filosofia del XX secolo, le teorie scientifiche hanno perso il carattere di assolutezza e sono considerate delle teorie che prima o poi potrebbero essere sostituite o racchiuse in altre teorie.

Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831) identifica la ragione con la realtà, da cui il suo famoso motto: «ciò che è razionale è reale, ciò che è reale è razionale». La filosofia di Hegel è forse anche più difficile di quella di Kant; tuttavia, almeno nelle sue linee essenziali se ne possono comprendere i prìncipi.

Hegel fa una distinzione tra Intelletto e Ragione. L'intelletto è la facoltà dell'analisi e della distinzione, che fissa i diversi aspetti della realtà giustapponendoli rigidamente gli uni agli altri e badando soltanto alla loro "differenza", senza poter giungere ad una concezione unitaria del reale. Al contrario, la ragione deve cogliere un momento di "indifferenza" (cioè di non-differenza, di unità) che risolva la fondamentale opposizione di soggetto e oggetto, di infinito e finito e, quindi, tutte le opposizioni particolari che da essa conseguono. Da questa differenza tra intelletto e ragione, deriva la concezione di Hegel per la matematica.
Nella sua opera, Inopportunità di una filosofia matematica, scrive: " [...] la matematica è in breve la scienza delle determinazione finite della grandezza, le quali determinazioni devono restar fisse nella loro finitezza e devono valere come tali senza passare in altre; di conseguenza la matematica è una scienza intellettiva. E, poichè essa ha la capacità di essere una tale scienza in modo perfetto, conviene piuttosto conservarle il privilegio rispetto alle altre scienze di tipo analogo, e non contaminarlo intromettendovi il concetto, che le è eterogeneo, o fini empirici".
Questa, per Hegel, è in sintesi la concezione della matematica, ossia nella sua differenza fra Ragione e Intelletto. In altri termini, la matematica hegeliana è la scienza perfetta dell'intelletto ma, l'intelletto per Hegel è nettamente inferiore rispetto alla ragione, poiché esso fa cogliere astrattamente le parti separate le une dalle altre, mentre la ragione ha il merito di farci cogliere le singole parti in un vivace rapporto reciproco da cui scaturisce il tutto, che altro non è se non l'insieme delle singole parti relazionate tra loro senza la perdita della specificità propria di ogni parte appunto. Per Hegel, dunque, la matematica è scienza intellettiva: essa è la più perfetta delle scienze intellettive, ma perde di valore di fronte alla ragione.

realtà e razionalità: la celebre frase di Hegel, che si trova nella Prefazione dei Lineamenti della Filosofia del Diritto recita: «Ciò che è razionale è reale, ciò che è reale è razionale».
Per non fraintendere il significato di questa affermazione, è necessario non identificare il "reale" con il semplicemente "esistente". Hegel non vuole dire che tutto ciò che esiste deve necessariamente esistere bensì che tutto ciò che ha in sé una razionalità assoluta non può non esistere. Hegel si riferisce qui a quelle che lui chiama le "determinazioni universali dello Spirito Oggettivo" (per Hegel lo "spirito" è lo spirito "umano", il suo pensiero, concetto che origina dal "cogito" cartesiano), cioè le istituzioni, i costumi e soprattutto lo Stato...
Ovviamente, le Istituzioni e gli Stati sono tutto fuorché perfetti e razionali. Però, è futile osservare che "le cose non vanno come dovrebbero", "lo Stato non è presente", ecc.; al contrario, si deve convenire che la famiglia, la società, lo Stato sono istituzioni concrete e necessarie, e quindi razionali. Ed è proprio questo che vuole dire Hegel: ha voluto affermare la necessaria identità fra Ragione e realtà. La Ragione non è pura astrazione, idealità, bensì governa il mondo e lo costituisce; la realtà non è che il dispiegarsi della Ragione che si manifesta in una serie di passaggi, i quali rappresentano, ognuno, il risultato di quelli precedenti ed il presupposto di quelli seguenti.
Così la realtà intera à da Hegel accettata e giustificata, poiché, dal punto di vista dello Spirito Assoluto, tutto ciò che è, è necessariamente quello che deve essere.
La finalità della filosofia, per Hegel, non è quella di modificare o trasformare la realtà indicando un modello ed insegnando "come il mondo debba essere", ma è quello di prendere atto della realtà così com’è, essa deve cioè "mantenersi in pace con la realtà" e deve solo elaborare in concetti il contenuto reale che le offre l’esperienza, dimostrandone l’intrinseca razionalità.
Per Hegel, la filosofia è paragonabile alla nottola ("portar nottole ad Atena"... significa far cosa inutile o superflua) della dea Minerva (l'Atena dei greci), la quale inizia a volare al crepuscolo, cioè quando il giorno è finito, ovvero quando la realtà è già fatta, conclusa.

la dialettica: la realtà assoluta è pensiero e quindi conoscibile mediante le leggi del pensiero che non sono pure forme coordinatrici senza alcuna volontà (come sosteneva Kant), ma vere leggi universali. La dialettica non è una convenzione ma il processo fondamentale della realtà. La realtà, ovverosia il pensiero, si esplica in una serie di processi ternari, profondamente intrecciati l'uno nell'altro, il cui schema è il seguente: in un primo momento il pensiero pone sé stesso come identico a sé stesso, formula cioè la tesi...

tesi: l'affermazione o posizione di un concetto;

tuttavia, se il pensiero rimanesse immobile ed inerte in questa affermazione di sé, cadrebbe nel nulla, mentre il pensiero è attività continua. In un secondo momento, dunque, cerca di definirsi, ovverosia di porre dei limiti e facendo questo, si nega, formulando l'antitesi...

antitesi: la negazione del precedente concetto nel passaggio ad un concetto opposto;

E' importante capire che - per Hegel - la negazione dialettica non è affatto puramente negativa: essa ha lo scopo di negare il carattere in apparenza specifico ed esclusivo (Hegel dice la determinatezza) dell'oggetto, la sua fissità, la sua astrazione, la sua posizione intellettualistica che lo isola facendo così dimenticare che ogni cosa è in relazione col resto.
Viene così stabilita una dualità di elementi contrastanti e perché il pensiero non si distrugga, occorre un terzo momento risolutore e pacificatore nel quale i primi due momenti, in sé insufficienti, vengono ugualmente aboliti ma subito riconfermati perché fusi in un'affermazione superiore che è il superamento dell'uno e dell'altro in quanto sancisce la loro unione.

sintesi: l'unificazione della precedente affermazione e negazione in una sintesi positiva comprensiva di entrambe.

Per comprendere un pò meno astrattamente questo processo, riflettiamo a quel che accade ai nostri pensieri quando dopo aver affermato qualche cosa, abbiamo un dubbio (ovverosia una negazione) su questa affermazione e infine superiamo il dubbio con una risposta esauriente: in questa sono compresi tanto l'affermazione quanto il dubbio, e tuttavia entrambi sono superati in una visone più completa.
In altre parole, gli opposti non vengono eliminati ma considerati ad un livello superiore, nell’unità che risolve il loro carattere di opposizione. Ed è solo la Ragione(o Idea, o Assoluto ecc.), nel momento che Hegel chiama speculativo o dialettico, che riesce a cogliere la concretezza del reale, l’interazione reciproca dei vari aspetti della realtà nella dinamicità del loro sviluppo, mentre l’intelletto, essendo la facoltà dell’analisi e della distinzione, riesce solo a pensare staticamente, astrattamente. Gli opposti sono logicamente uniti in quanto non si può pensare l'uno se non in relazione all'altro. Ora, "parte" e "tutto" sono opposti. Quindi non si può pensare la "parte" se non in relazione al "tutto ". In altre parole pensare alla "parte" separata dal tutto è di fatto pensarla come "non parte", cioè come "tutto" (contraddizione): che “parte " sarebbe una parte che non fosse messa in relazione al "tutto"? Da qui la tesi hegeliana secondo cui "la Verità è l'Intero”.
In questo modo - sebbene Hegel non lo dica esplicitamente - si può dunque concludere che l'insieme è maggiore della somma delle sue parti.

Con la dialettica Hegel nega il principio di contraddizione (A non è non-A): infatti se la realtà è edivenire e sviluppo, tutto si trasforma incessantemente e quindi si otterrà un sintesi superiore che li verifica entrambi.

La realtà è per Hegel movimento, divenire, processo, sviluppo. Non è quindi staticità o astrazione, ma un soggetto vivo, concreto, attuale, che si manifesta nel mondo sia naturale che storico. La realtà è lo "pirito infinito", detto anche "assoluto", ovverosia "idea", ovverosia "ragione". Per questo Hegel definisce la sua filosofia una forma di Idealismo in un duplice senso: da un lato perché la vera realtà è appunto l’Idea, cioè il Pensiero, lo Spirito, l’Assoluto, la Ragione; dall’altro perché afferma la idealità cioè la non realtà di ciò che noi chiamiamo "finito": per Hegel infatti il finito non esiste di per sé (altrsì sarebbe l’Assoluto) ma solo in un contesto di relazioni o rapporti; in altre parole, se la realtà è un tutto unitario, quello che esiste ne costituisce una parte o manifestazione: il finito esiste così solo nell’infinito e in virtù di questo.

Se la realtà consiste in un processo di sviluppo infinito, allora solo alla fine, cioè con lo Spirito (per Hegel è la mente umana), giunge a conoscere e a rivelarsi per quello che è. "Il vero è l’intero" afferma Hegel nella Prefazione della Fenomenologia dello Spirito, proprio per indicare come l’Assoluto si conosca per ciò che veramente è solo al termine del processo di sviluppo. Soltanto quando tale processo è compiuto, infatti, si può comprendere appieno la razionalità che in esso si è dispiegata. Si faccia attenzione: la verità – e la realtà – hanno un andamento circolare, poiché si parte da un soggetto per ritornare ad esso, dopo aver capito che ciò che sembrava essere contro o indipendente da esso, non è altro che una "espressione" del soggetto stesso (ecco l’idealismo, perché l’oggetto deriva dal soggetto, la materia deriva dallo spirito).

Dalla dialettica discende quindi, il recupero della "metafisica" come il sapere che ha come oggetto la "Totalità". Da qui, quindi, la presa di distanza dalla scienza che si limita a studiare "una parte" del Tutto e dunque costituisce un sapere parziale.

Ovviamente questa tesi non è più accettabile: non è vero che il sapere scientifico sia un sapere "parziale" perché oggi la scienza affrontare problemi per molti secoli appannaggio della filosofia come l'origine dell'universo e la struttira della materia, e non è vero che sia inferiore alla filosofia perché - come sappiamo - la scienza sottopone a controllo sperimentale le sue teorie, mentre la filosofia è un "sapere" di per sé, dunque essenzialmente astratto.
D'altra parte, sebbene la scienza stia trattando problemi che sono stati appannaggio della filosofia, non si può negare che in qualche modo si è autolimitata ponendo come suo oggetto solo ciò che è "quantificabile", riducibile in numeri. Per esempio, la bioetica è scienza o filosofia?

nemesi

copyright Marcello Guidotti, 2003
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