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ESISTENZA  DI  DIO  E  IMMORTALITA'  DELL'ANIMA  UMANA
 
 

LE   "PROVE"  FILOSOFICHE  DELL'ESISTENZA  DI  DIO
(dal Dizionario di filosofia - N. Abbagnano)

Credere in Dio è una questione di Fede. Non ci sono ovviamente prove dirette, ma solo prove indirette, ovvero (parafrasando il diritto penale) ci sono indizi gravi, precisi e concordanti.

"Per chi ha Fede nessuna prova è necessaria, per chi non ha fede nessuna prova è sufficiente"(Franz Werfel). "C'è abbastanza luce per chi vuole credere e abbastanza tenebre per chi non vuole credere" (Blaise Pascal).

La domanda fondamentale: perché c'è qualcosa anziché il nulla ?

 

DIO, PROVE DI
(ingl. Arguments for God; franc. Preuves de Vieu; ted. Gottesbeweise).
Intenderemo con quest'espressione non soltanto le " dimostrazioni " ma anche gli indizi o le indicazioni che sono state assunte come prove dell'esistenza di Dio. Ognuna di queste prove è nata nell'àmbito di una particolare concezione di Dio e fa appello un certo tipo di causalità; ma ogni concezione si avvale anche di prove desunte da concezioni differenti, sicché un certo sincretismo è la regola di questa branca del pensiero filosofico. C'è però un argomento che non mira ad una particolare concezione di Dio e lo enunceremo per primo.

1) L 'appello al comune consenso è una prova che ogni tanto ricorre nella storia della filosofia. Se ne avvale Aristotele, per dimostrare, più che l'esistenza della divinità, che essa ha per abitazione il primo cielo (De caelo, I, 3, 270 b 17). Ma l'argomento dovette essere molto sviluppato dai platonici eclettici del I secolo a.C. e da essi, probabilmente, lo desume Cicerone. "Per dimostrare l'esistenza degli dèi, l'argomento più forte che possono addurre è che nessun popolo è tanto barbaro, assolutamente nessun uomo è tanto selvaggio, da non aver sentore nella sua mente della credenza degli dèi" (Tusc.,I, 30). Si può ritenere equivalente a questo argomento la credenza che l'idea di D. sia una delle idee innate o costitutive della natura razionale umana. Tale fu la tesi dei neo-platonici di Cambridge del XVII secolo (Herbert di Cherbury, Cudworth, Moore) che Locke tenne presente nella sua critica dell'innatismo del I Libro del Saggio. E tale fu la tesi che nel secolo successivo fu difesa dalla scuola scozzese del senso comune (Tommaso Reid e Dougald Stewart). L'affermazione del carattere innato dell'idea di D. equivale all'appello al consensus gentium, perché la presenza dell'idea di D. in tutti gli uomini è la sola base presunta per ammettere l'innatezza dell'idea stessa.

2) L'argomento più antico e venerabile, che è anche quello più semplice e convincente, è desunto dall'ordine o disegno del mondo, e con termini moderni si chiama argomento teleologico o fisico-teologico. È l'argomento che aveva convinto Anassagora ad ammettere l'Intelligenza come causa ordinatrice del mondo. Platone e Aristotele fanno ad esso riferimento frequentemente. Il primo dice, per es. : "Che l'Intelligenza ordini tutte le cose è affermazione degna dello spettacolo che il mondo, il sole, la luna e gli astri e tutte le rivoluzioni celesti ci offrono " (Fil., 28 e). E Aristotele che aveva ripetuto l'argomento nel suo dialogo giovanile Sulla filosofia, adattando ad esso il mito platonico della caverna (gli uomini riconoscerebbero l'esistenza di D. appena usciti dalla caverna, solo a guardar la natura) (Fr., 12, Rose), lo presuppone quando paragona D. al capo di una casa bene ordinata o di un esercito (Met., XII, 10, 1075 a 14). Possiamo leggere questo argomento nella formulazione di Filone. "Se si vede una casa costruita con cura, con vestiboli, portici, appartamenti per uomini e donne e per altre persone, ci si farà un 'idea dell'artista: non si penserà che sia stata fatta senza arte e senza artigiani. E lo stesso si dirà di una città, di un battello, o di un qualsiasi oggetto costruito, piccolo o grande. Allo stesso modo colui che è entrato, come in una casa o in una città grandissima, in questo mondo ed ha visto il cielo che gira in circolo e contiene tutto, i pianeti e le stelle fisse mossi di movimento identico a quello del cielo, simmetrico, armonioso e utile al tutto, e la terra che ha avuto il posto centrale... costui concluderà che tutto ciò non è stato fatto senza un'arte perfetta e che l'artigiano di quest'universo è stato ed è D. " (All. leg ., III, 98-99). Ovviamente, come notava Kant, l'argomento conclude all'esistenza di un Derniurgo, cioè del creatore dell'ordine del mondo, non del creatore del mondo. Esso è tuttavia stato utilizzato anche da coloro che ammettono la causalità creatrice di Dio. La sua forza probativa poggia sulla nozione di ordine e precisamente sul carattere assoluto di questa nozione (v.ORDINE). Esso è stato, è e rimane l'argomento più semplice e popolare ma non perciò il più debole. Stuart Mill ha cercato di esprimerlo nella forma più rigorosa in quattro parti, in conformità dei quattro metodi induttivi: concordanza, differenza, residui e variazioni concomitanti (Three Essays on Religion, 1875, col titolo Theism, 1957, pag. 27). Una forma non molto diversa da quella tradizionale l'argomento ha ricevuto da C. S. Peirce che ha considerato D. come l'Ens necessarium, creatore di tutti i tre universi di esperienza (cioè di quello delle pure idee, di quello delle cose reali e di quello dei segni), la cui esistenza può essere dimostrata dall'ordine di questi tre mondi e dalla loro concordanza (Coll. Pap., 6. 452 sgg.; lo scritto è del 1908). Tuttavia non bisogna dimenticare che il concetto di ordine (v.) è un concetto relativo, per cui, come lo stesso Peirce osservava, " un mondo a caso è semplicemente il nostro mondo reale dal punto di vista di un animale col minimo assoluto di intelligenza " e che pertanto la nozione di ordine difficilmente serve a risalire a quella di uno Spirito ordinatore (Chance, Love and Logic, I, 5, 2; trad. ital., pag. 83).

3) Una variante o determinazione di esso è la prova causale che si può trovare in Aristotele (Met., II, 2) ed è poi ripresa dagli autori arabi (Avicenna) e da S. Tommaso. Essa si fonda sul principio che è impossibile risalire all'infinito nella serie delle cause materiali e delle cause efficienti o delle cause finali o delle conseguenze; e che perciò vi deve essere, in ogni serie, un primo principio dal quale l'intera serie dipende. Poiché l'argomentazione vale anche per le cause finali, essa conduce a vedere in D. il fine ultimo, cioè il bene supremo al quale sono ordinate tutte le cose del mondo (Ibid., XII, 7, 1072 b 2). Questa prova può essere considerata come un passaggio tra la prova teleologica e quella del movimento ed è in realtà interpretata qualche volta nel senso dell'una e qualche volta nel senso dell'altra.

4) La prova ritenuta nel mondo classico e medievale la più solida, è quella desunta dal movimento. Essa fu esposta per la prima volta da Platone (Leggi, X, 894-95) e riesposta da Aristotele (Fis., VIII, 1; Met., XII, 7). Nella Scolastica latina fu introdotta nel sec. XI da Adelardo di Bath (Quaest. nat., 60). Possiamo leggerla nell'esposizione di S. Tommaso che è la più chiara e succinta. Essa parte dal principio che "tutto ciò che si muove è mosso da altro". Ora "se ciò da cui è mosso a sua volta si muove, bisogna che anch'esso sia mosso da un 'altra cosa e questa da un'altra. Ma non è possibile procedere all'infinito; altrimenti non ci sarebbe un primo motore e neppure gli altri motori muoverebbero come, per es., il bastone non muove se non è mosso dalla mano. Dunque è necessario giungere ad un primo motore che non sia mosso da alcun altro, e per esso tutti intendono D. " (S. rh., I, q. 2, a. 3). Questo argomento fu sottoposto a critica già sul finire della Scolastica: Ockham nega la validità dei due principi su cui esso si fonda. Difatti, egli osserva, si può ragionevolmente affermare che qualcosa si muove da sé, come l'anima o l'angelo o il peso stesso che tende al basso; e che il processo all'infinito si dà spesso nell'esperienza, per es., quando si colpisca ad uno dei capi una lunghezza continua: la parte colpita muoverà la parte più prossima, e questa un'altra, e cosi via all'infìnito (Cent. theol., Concl. I, D). Anche questa prova conclude soltanto all'esistenza di un primo motore e non di una causa creante e a questo scopo fu infatti adoperata da Platone e da Aristotele. Kant ha considerata questa prova come identica con le due precedenti e ha osservato come sia difficile stabilire una proporzione precisa tra il movimento e il motore, cioè indurre dall'ordine e dal movimento l'esistenza e i caratteri di una Causa infinita. " lo non spererò, egli ha detto, che alcuno abbia mai l'ardire di conoscere il rapporto della grandezza del mondo da lui osservata (per estensione e contenuto) con la onnipotenza, dell'ordine cosmico con la somma sapienza, dell'unità cosmica con 1 'unità assoluta del creatore, ecc. & (Crit. R. Pura, Dialettica, cap. III, sez. 6).

5) L'argomento detto dei gradi era stato esposto da Aristotele nel suo maggior dialogo giovanile, quello Sulla filosofia: "In generale, nelle cose in cui vi è il meglio, c'è anche l'ottimo; e poiché c'è l'ottimo nelle cose che esistono in un modo o nell'altro, ci sarà in esse anche l'ottimo, che potrebbe essere il divino" (Fr., 16, Rose). Esso veniva riprodotto da Cicerone nel modo seguente: "Non si può affermare che in ogni ordine di cose non vi sia qualche termine estremo, una perfezione assoluta. Giacché per una pianta, per un animale, vediamo che la natura, e non le si oppone qualche forza, segue la sua strada e giunge al termine ultimo; e la pittura, l'architettura e le altre arti raggiungono anch'esse un risultato perfetto nelle loro opere. Lo stesso è per ogni natura e a molto maggior ragione: si deve necessariamente produrre e compiere una forma assolutamente perfetta" (De nat. deor., II, 13, 35). Questa prova fu riesposta da S. Agostino (De Civ. Dei, VIII, 6) e trovò la sua forma classica nel Monologion di Anselmo. Dice Anselmo: "Se non può negarsi che alcune nature sono migliori di altre, la ragione ci persuade che ce n'è una cosi eccellente da non averne altra a sé superiore. Infatti se questa distinzione di gradi procedesse all'infinito, in modo che non ci fosse un grado superiore a tutti, la ragione sarebbe condotta ad ammettere che il numero di queste nature fosse infinito. Ma poiché ciò è ritenuto assurdo da chiunque non sia privo di ragione, ci deve essere necessariamente una natura superiore, tale da non poter essere subordinata a nessun'altra come inferiore" (Mon., 4). Il fondamento di questa prova è il principio platonico che tutto ciò che possiede una certa qualità la possiede per partecipazione a ciò a cui la qualità stessa inerisce in modo essenziale ed eminente, per es., tutto ciò che è caldo è caldo per partecipazione al fuoco, che è caldo per essenza (Fed., 101 d sgg.). Tale principio era stato anche ammesso da Aristotele (Met., II, 1, 993 b 25) al quale spesso rinviano gli scrittori medievali.

6) La prova detta da S. Tommaso ex possibili et necessario, da Leibniz a contingentia mundi, e da Kant prova cosmologica, una delle più fortunate, è stata esposta per la prima volta da Avicenna ed è strettamente legata con la concezione di D. propria del neo-platonismo arabo. Avicenna (Met., II, 1, 2) aveva infatti distinto l'essere in necessario e possibile; e aveva definito il possibile come ciò che non esiste per sé, ma ha bisogno per esistere di qualcosa d'altro. Pertanto, se un possibile esiste, esiste qualcosa che lo fa esistere; ma se questo qualcosa è a sua volta possibile, rinvia ancora ad un altro che sia causa della sua esistenza; e cosi via, finché non si arriva all'essere necessario che è ciò che esiste per sé. Da questa prova risulta la definizione di D. come essere necessario: una definizione che può trovare il suo antecedente in Aristotele (Met., XII, 7, 1072 b 10); ma acquista un senso diverso nella filosofia araba, perché qui viene adoperata ad affermare la necessità di tutto ciò che esiste, quindi anche del possibile che, se esiste, esiste necessariamente, per l'azione di una causa necessaria. Nonostante questo collegamento della prova col necessitarismo arabo la prova stessa fu accettata da Maimonide (Guide des égarés, II, 1) e dalla Scolastica latina nella quale fu introdotta da Guglielmo di Alvernia (De Trinitate, 7), nella prima metà del sec. XIII. Da allora in poi essa è rimasta una delle prove che ricorrono più frequentemente nella storia della filosofia. Essa, ed essa sola, viene infatti ripetuta frequentemente nel '600 e nel '700, cioè anche nel periodo in cui vengono sottoposti a critica e abbandonati molti concetti teologici e metafisici. Nel suo più semplice schema questa prova suona così: " Se qualcosa esiste, deve esistere un essere necessario. Ma qualcosa esiste (per es., io stesso) dunque esiste l'essere necessario". In modo conforme a questo schema, la prova viene esposta da Cartesio (Secondes Réponses, prop. 3); da Locke (Saggio, IV, 10); da Leibniz (Théod., I, § 7; Mon., § 45); da Clarke (Demonstration of the Being and Attributes of God, 1705). La prova stessa che Berkeley desunse dal principio esse est percipi è una variante della prova cosmologica: "Le cose sensibili realmente esistono; se realmente esistono, sono necessariamente percepite da uno spirito infinito; dunque c'è uno Spirito infinito o Dio" (Dialogues Between Hylas and Philonous, II, Works, ed. Jessop, II, pag. 212). Kant ha ritenuto che la prova cosmologica fosse "una prova ontologica mascherata", cioè una prova che passa dalla connessione puramente concettuale fra le nozioni di possibile e necessario all'affermazione della realtà necessaria (Crit. R. Pura, Dialettica, cap. III, sez. 5). G. Boole, il fondatore dell'algebra della logica, trascrivendo in simboli l'argomento di Clarke, mostrava che non c'è conclusione derivabile dalle premesse che affermano la verità o falsità della proposizione "qualcosa che è, esiste per la necessità della sua natura" o dalla proposizione "qualcosa che è, esiste per la volontà di un altro essere" né dalla combinazione delle due proposizioni (Laws of Thought, 1854, cap. 13). A questa prova si deve la definizione di D. come essere necessario che è tra le più comuni ed è talora usata anche da chi non si avvale della prova relativa o ne disconosce la validità.

7) La prova ontologica fu formulata nel sec. XI da Anselmo d'Aosta. La sua caratteristica è di passare dal semplice concetto di D. all'esistenza di Dio. Ecco la formulazione di Anselmo: " Certamente, ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore non può essere nel solo intelletto. Giacché se fosse nel solo intelletto si potrebbe pensare che fosse anche in realtà e cioè che fosse maggiore. Se dunque ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore è nel solo intelletto, ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore è, invece, ciò di cui si può pensare alcunché di maggiore. Ma certamente questo è impossibile. Dunque non c'è dubbio che ciò di' cui non si può pensare nulla di maggiore esiste sia nell'intelletto, sia nella realtà .) (Prosl., 2). L 'argomento consta di due punti: 1° che ciò che esiste in realtà sia " maggiore " o più perfetto di ciò che esiste solo nell'intelletto; 2° che negare che ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore esista in realtà, significa contraddirsi. All'argomento il monaco Gaunilone nel suo Liber pro insipiente (Anselmo aveva diretto il suo argomento contro lo sciocco del XIII Salmo " che disse in cuor suo: D. non c'è ") oppose che, in primo luogo si può dubitare che l'uomo abbia un concetto di D. e che, in secondo luogo, non può dal concetto di un essere perfettissimo dedursi l'esistenza di tale essere più che non si possa dedurre dal concetto di un'isola perfettissima la realtà di quest'isola. Nel Liber apologeticus Anselmo rispose che si può pensare D. come dimostra la fede stessa che Anselmo e Gaunilone professano e che, se si può pensarlo, si deve ammetterlo esistente, senza che ciò valga per qualsiasi altro essere che, per quanto perfetto, non sarà mai ciò di cui non si può pensare nulla di più perfetto. Respinto dalla maggior parte degli scolastici (compreso S. TOMMASO, S. Th., I, q. 2, a. I ad 2°) che preferirono di regola gli argomenti a posteriori cioè ricavati dal rapporto di D. col mondo, l'argomento ontologico ha avuto fortuna nella filosofia moderna. Esso infatti fu ripetuto da Cartesio, secondo il quale l'esistenza di D. è implicita nel concetto di D. al modo stesso in cui è implicito nel concetto di triangolo che i suoi angoli interni siano uguali a due rette (Princ. Phil., I, 14). Leibniz a sua volta ha accettato la prova formulandola come identità di possibilità e realtà in Dio. D. solo, egli ha detto, Cioè l'essere necessario, ha questo privilegio che bisogna che esista, se egli è possibile. E come niente può impedire la possibilità di ciò che non racchiude nessun limite, nessuna negazione, e per conseguenza nessuna contraddizione, questo solo basta per conoscere l'esistenza di D. a priori (Monad., § 45). Secondo Kant la prova stessa è invece contraddittoria o impossibile: è contraddittoria se già nel concetto di D. si ritiene implicita la sua esistenza perché in tal caso non si tratta più del semplice concetto; ed è impossibile se non la si ritiene implicita perché in tal caso l'esistenza dovrà essere aggiunta al concetto sinteticamente, Cioè per via dell'esperienza, mentre Dio è al di là di ogni esperienza possibile (Crit. R. Pura, Dial., cap. III, sez. 4). Hegel invece difese la prova affermando che solo in ciò che è finito l'esistenza è diversa dal concetto e che "D. deve espressamente essere ciò che può esser pensato solo come esistente, il cui concetto implica l'esistenza. Questa unità del concetto e dell'essere costituisce appunto il concetto di Dio" (Enc., § 51). E da questo si può vedere come la prova ontologica più che una prova è l'esplicitazione del concetto stesso di Dio come essere necessario: difatti l'essere necessario esiste per essenza o per natura sua, cioè per definizione. La prova viene tuttavia frequentemente ripetuta nella filosofia moderna: Lotze, ad es., la ripete negli stessi termini di Anselmo (Mikrokosmus, III, II ediz., pag. 557).

8) Assai simile alla precedente, ma più antica, è la prova desunta dalla semplice presenza nell'uomo dell'idea stessa di Dio. La prova consiste nel ritenere che è impossibile spiegare questa presenza in altro modo che come una produzione di D. stesso, che perciò dev'essere considerato esistente. In questo modo ragionavano Giustino (Apologia sec., 6), Tertulliano (De testimonio animae, 5) e Giovanni Damasceno (De fide orth., I, 1). E a questa tradizione appartiene una delle prove cartesiane della esistenza di D. e precisamente quella secondo la quale l'autore dell'idea di D. deve possedere almeno tanta perfezione quanta è quella rappresentata nell'idea e così non può essere che D. stesso (Discours, IV, Med., II; Secondes Réponses, prop.3). Una forma abbreviativa di questa prova (o della precedente) consiste nel ritenere la proposizione "D. esiste" come di per sé nota, cioè come nota in base agli stessi termini che la compongono. Così fa, per es., Duns Scoto (Op. Ox., I, d. 2, q. 2, n. 3) in polemica con S. Tommaso. Stuart Mill che chiama questa prova "argomento dalla coscienza" la ritiene inaccettabile in quanto essa "nega all'uomo uno dei suoi più familiari e più preziosi attributi, quello di idealizzare o, come si dice, di costruire con i materiali dell'esperienza una concezione più perfetta di quella che l'esperienza sopporta" (Three Essays on Religion, 1875, col titolo Theism, 1957, pag. 24).

9) La prova morale si accompagna di regola con un certo scetticismo sulla validità delle dimostrazioni razionali. Essa consiste nel mostrare che l'esistenza di D. è un'esigenza della vita morale, nel senso che è conveniente o necessario per l'uomo credere in Dio. Ma l'aggettivo "morale" qui non indica solo la sfera alla quale appartiene la prova, ma anche una limitazione della validità della prova a questa sfera. Una prova morale di D. è la Scommessa di Pascal. Secondo Pascal, non si può rinviare il problema di D. e rimanere neutrali di fronte alle soluzioni di esso. L'uomo deve scegliere tra il vivere come se D. ci fosse e il vivere come se D. non ci fosse; se la ragione non può aiutarlo in questa scelta, tanto vale che consideri qual è la scelta più conveniente proprio come si trattasse di un gioco o di una scommessa nella quale bisogna considerare da un Iato la posta, dall'altro la perdita o la vincita eventuale. Ora, chi scommette sull'esistenza di D., se guadagna, guadagna tutto, se perde, non perde nulla: bisogna dunque scommettere senza esitare. La scommessa è già ragionevole quando si tratta di una vincita finita e di poco superiore alla posta e diventa tanto più conveniente quando la vincita è infinitamente superiore alla posta. Né vale dire che l'infinita distanza tra la certezza di ciò che si scommette e l'incertezza di ciò che si può guadagnare rende uguale il bene finito, che si rischia certamente, a quello infinito, che è incerto. Ogni giocatore azzarda con certezza per guadagnare con incertezza e azzarda un finito certo per guadagnare un finito incerto senza peccare contro la ragione. In un gioco in cui vi sono uguali probabilità di vincere o di perdere, arrischiare il finito per guadagnare l'infinito ha ovviamente la convenienza massima (Pensées, 233). Questa scommessa sembra parlare più il linguaggio del tavolo da gioco che quello della vita morale; ma bisogna osservare che Pascal se ne avvale unicamente per combattere l'impotenza a credere che deriva dalle passioni e che il risultato della prova dovrebbe esser quello di "lavorare a convincersi, non aumentando le prove dell'esistenza di D., ma diminuendo le passioni". Ad ogni modo è ovvio che una prova siffatta non ha che una validità morale, cioè nei confronti del comportamento umano: non ha validità teoretica. Lo stesso carattere ha la prova morale dell'esistenza di D. formulata da Kant: per il quale D. è un postulato della vita morale. Precisamente, secondo Kant, l'esistenza di D. è richiesta dalla realizzazione del sommo bene, cioè dell'unione di virtù e felicità, che non si verifica per il gioco delle leggi naturali. "Il sommo bene nel mondo è possibile solo se si ammette un Essere supremo che ha una causalità conforme alla intenzione morale... Dunque la causa suprema della natura, in quanto dev'essere presupposta per il sommo bene, è un Essere che, mediante l'intelletto e la volontà, è la causa (perciò l'autore) della natura, cioè D. " (Crit. R. Prat., I, l. II, cap. 2, sez. 5). Questa prova che Kant ha desunta dalle famose considerazioni del Vicario savoiardo nel IV libro dell'Emile di Rousseau è stata spesso ripresa nella filosofia contemporanea. Un'altra forma della prova morale è quella avanzata da James che ha ripreso la scommessa di Pascal (The Will to Believe, cap. I), riaffermando l'utilità e la convenienza della credenza in D. ai fini di una vita morale attiva e fiduciosa. Sotto quest'aspetto D. è "l'oggetto più adeguato del nostro spirito". In un universo senza D. l'azione morale sembra destinata all'insuccesso e d'altronde l'azione morale e la fede in D. possono contribuire a rafforzare l'esistenza del mondo invisibile. "D. stesso può trarre forza vitale e accrescimento di essere dalla nostra fedeltà" (Essays on Faith and Morals, pag. 30).

10) C'è infine una prova variamente atteggiata che ha il suo punto di partenza in qualche tipo di esperienza immediata e privilegiata che s'interpreta come un rapporto diretto con Dio. Dice Filone: "Ma vi è un 'intelligenza più perfetta e più purificata, iniziata ai grandi misteri, che conosce la Causa non a partire dai suoi effetti come si conosce l'oggetto immobile dalla sua ombra; ma che ha trasceso l'effetto e che riceve una chiara apparizione dell'essere non generato in modo da comprenderlo in se stesso e di per se stesso e non nella sua ombra, che è la ragione ed il mondo" (Allegoria legis, III, 100). Plotino e i Mistici ammettono per l'appunto questa forma di esperienza diretta di D.; e secondo Bergson quest'esperienza fornisce l'unica prova possibile dell'esistenza di Dio. L'accordo tra i Mistici non solo cristiani ma anche appartenenti ad altre religioni è "il segno di un'identità d'intuizione che si può spiegare nel modo più semplice con l'esistenza reale dell'essere col quale si credono in comunicazione" (Deux sources, pag. 265). In forma attenuata quest'argomento si può ripetere per la pura e semplice ricerca di D.: la ricerca stessa, nella varietà dei suoi procedimenti e dei suoi risultati, può essere un'intrinseca prova dell'esistenza, senza che tuttavia sia definibile o determinabile in modo compiuto ciò che si cerca (Paul Weiss, in Science, Philosophy and Religion, New York, 1941, I, pag. 413 sgg.). II che è quanto aveva già detto Pascal: "Non solamente lo zelo di quelli che lo cercano prova D., ma anche l'acciecamento di quelli che non lo cercano affatto" (Pensées, 200).

 

 

La domanda fondamentale: perché c'è qualcosa anziché il nulla ?
Se la verità non esistesse in assoluto tutto potrebbe essere vero.

 

 

 

 

 

Sottofondo musicale:
Pink Floyd - "Shine On You Crazy Diamond", tratto dal cd
"Wish You Were Here" (1975)