di Fernanda Pivano, tratto da "Amici scrittori" Mondadori, 1995 

Linda stava lavorando, con le mani protette da grossi guantoni, nel giardino pieno di alberi da frutta, di cespugli di rose e di grandi fiori californiani. Per casa si aggiravano tre gatti. Quando Bukowski arrivò dalle corse gli chiesi come mai avesse tre gatti, dopo aver dichiarato tante volte di non amare la natura. E lui: "Bé, uno dei gatti è di Linda, sicchè quando ci siamo messi insieme c'è stato automaticamente un gatto, è venuto con la signora, giusto? OK. L'altro apparteneva a Sam del bordello, è un gatto vecchio. Sam è diventato matto e così abbiamo preso il gatto. Si chiama Butch. E il terzo è arrivato in casa da sé, moriva di fame. Si può non tener conto di molte cose ma quando un gatto perde la voce e si vedono le ossa che sporgono dai peli, gli si da almeno da mangiare, no? Se si da da mangiare a un gatto una volta, lui non se ne va più. Non ho scuse per avere tre gatti".
Mentre Bukowski parlava, la bella Linda con il viso sofferto ma lo sguardo tenero degli ex figli dei fiori si tolse i guantoni e ci fece sedere in un grande soggiorno con i tipici divani larghi della provincia californiana. Davanti al caminetto erano disposte, ben allineate e con le etichette bene in vista, sessantun bottiglie di birra, ciascuna di una marca diversa dall'altra: una bottiglia per ogni anno di età dello scrittore più una di buon augurio nelle intenzioni dell'amico che gli aveva fatto questo regalo di compleanno.
Bukowski era appena sceso dalla stanza minuscola dove la notte, ubriaco (o così diceva lui), scriveva i libri ormai popolarissimi: diceva che soltanto per i due volumi pubblicati dalla City Lights aveva pagato per le tasse più di quanto aveva guadagnato in tutta la vita. In casa indossava sandali e bermuda californiani che gli lasciavano scoperte le gambe di cui andava orgoglioso ("Sono l'unica cosa bella che ho", diceva con modestia) e una camicia con le maniche corte. Era molto sedentario, non andava mai da nessuna parte: l'unica eccezione l'aveva fatta quando era andato in Germania a trovare lo zio Heinrich, novantenne, e il suo traduttore tedesco Carl Weissner (traduttore anche di Burroughs, Allen Ginsberg, Bob Dylan) al quale sapeva bene di dover la sua fortuna in Europa.
Durante il viaggio, che durò una quindicina di giorni, si recò ad Amburgo e a Parigi per un reading e partecipò alla compianta trasmissione televisiva di Bernard Pivot "Apostrophe", dalla quale venne scacciato come ubriaco molesto. In Germania venne contestato da una manifestazione organizzata dalle femministe tedesche che reggevano cartelli con la scritta "Bukowski è un porco macho", visitò qualche castello, andò a Andernach, la città dove era nato e dove risiedeva lo zio, per scoprire che la sua casa natale era in vendita dopo essere stata a lungo un bordello, andò a Düsseldorf a vedere le corse dei cavalli e cominciò una delle sue tipiche avventure a base di biglietti sbagliati, treni perduti, visite ad amici nel cuore della notte.(…)
"Dicono che sono un duro, che salto dentro e fuori dal letto con tutte le signore. Hanno esagerato, per quello che sono e per quello che ho fatto. E' tutto un po’ hyped-up, pompato". Quell'immagine è nata, com'era inevitabile, dalle sue pagine sensazionalistiche che raccontavano le storie vere supersensazionalistiche della sua giovinezza cruda e disperata. Fuori da questo sensazionalismo, a conoscerlo bene, emerge un Bukowski infelice e insofferente, vittima disperata della sua dipendenza dall'alcol, dilaniato da ambiguità insolubili che lo conducono a detestare la natura perché è crudele e non gli dava emozioni, a non amare la vita perché gli riusciva priva di interessi quando lavorava otto o dodici ore al giorno, a non amare l'umanità perché conformista, a non sopportare la conversazione della gente perché è banale. In questa infelicità provocatoria riusciva ad essere felice soltanto quando scriveva, perché, diceva: "E' come rotolare giù da una montagna. E' liberatorio. E' piacevole, è un volo, è come andare a letto con una belle donna". (…) Dalle sue pagine neoespressioniste scaturiscono orrore e squallore, desolazione e sgomento, terrore e cinismo, decadenza e nichilismo, violenza e sessismo. Dalle sue parole scaturiva invece una specie di paura che la vita gli sfuggisse e tornasse a essergli avara di amore e di fortuna come lo era stata per tanti anni della sua giovinezza.


 

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