Ultimo aggiornamento: 1 dicembre 2000
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LIBRI/CULTURA

FUOCO ALLE SINAGOGHE: COSÌ MARTIN LUTERO VOLEVA RIEDUCARE "I PARASSITI DEI CRISTIANI"
Einaudi pubblica una nuova edizione del libello "Degli ebrei e delle loro menzogne": scritto nel 1543, fu strumentalizzato dal nazismo

Dal Corriere della Sera del 2 novembre 2000:
Dar fuoco alle scuole e alle sinagoghe; distruggere le case; sequestrare i libri di preghiere e i testi talmudici; proibire ai rabbini di continuare a insegnare; abolire i salvacondotti che permettono di circolare per le strade; confiscare denaro contante e oggetti preziosi. Non basta tutto questo a distruggere il castello di menzogne architettato dagli ebrei? E allora, che si diano loro in mano zappa, vanga e conocchia, in modo da rieducarli al sano lavoro, invece che all'ozio da parassiti alle spalle dei cristiani! Queste ed altre crudeltà pedagogiche, che potrebbero far pensare al diario privato di un SS alloggiato dalle parti di Auschwitz, provengono invece da un libello parareligioso corredato da una firma illustre: quella di Martin Lutero. Il titolo: Degli ebrei e delle loro menzogne , testo integrale corredato da una prefazione di Adriano Prosperi, da lunedì nelle librerie per la collana Tascabili della Einaudi. Un solo precedente, di alcuni anni fa: l'edizione curata da Attilio Agnoletto per la Terziaria. Contenuto incendiario, al punto da far pensare a una strategia promozionale per eccitare passioni e polemiche sull'antisemitismo cristiano e tedesco. Sospetto legittimo, ma infondato: la decisione di ripubblicare il testo classico dell'antisemitismo luterano è stata presa tre anni fa, quando il tema delle colpe e delle richieste di perdono non era di certo così impellente. Di fatto, però, il libello scritto nel lontano 1543, e poi strumentalizzato dai seguaci di Hitler e addirittura invocato come attenuante dal nazista Julius Streicher davanti al tribunale internazionale di Norimberga, assomiglia in modo impressionante ad una istigazione al pogrom. E' vero infatti che questa specie di pulizia religiosa fantasticata da Lutero rimane verbale e dimostrativa: il bersaglio dei suoi attacchi non è la stirpe ebraica in sé, ma la sua espressione religiosa e il modello di vita conseguente. Anche là dove Lutero si abbandona al puro pregiudizio ("convertire gli ebrei è impossibile") o alla incontrollata volgarità ("vogliono consumare pigre giornate dietro la stufa, a ingrassare e scoreggiare, vantandosi per questo in modo blasfemo di essere signori dei cristiani"), non c'è mai l'esplicita invocazione al delitto e al sangue. L'ebreo è condannato soprattutto in quanto "formalista" (l'accusa di giudaismo è rivolta agli stessi cristiani più preoccupati del valore delle opere che di quello della fede), proprio come le sette estremiste protestanti degli anabattisti erano duramente condannate da Lutero per l'eccesso opposto di "spiritualismo". Il punto dunque è questo: Lutero non fu il primo antisemita della storia, ma certo l'anello robusto di una catena infame destinata ad allungarsi attraverso tutto il Novecento. Dal tempo delle conversioni forzate degli ebrei nella Spagna di fine '400 (i "Libri verdi" che ricostruivano le genealogie dei marrani), alle accuse di "delitto rituale" lanciate contro i giudei nell'800 dall'italiano monsignor Benigni; dal razzismo "scientifico" del francese Gobineau alla Russia dei "Protocolli dei Savi di Sion", fino alle leggi razziali di Mussolini, ai lager di Hitler, alla liquidazione bolscevica dell'"ebreo Trotckij", la catena ideologica ha continuato la sua infame opera di strangolamento degli ebrei. Rileggere oggi quelle pagine, come ricorda Adriano Prosperi, aiuta a comprendere non una generica "vocazione al male" del popolo tedesco o una particolare connivenza della Chiesa protestante con il regime nazionalsocialista; è piuttosto la testimonianza del legame organico, lungo tutta la storia europea, tra integralismo ideologico e violenza. E nel ragionamento di Lutero ("Dio non può che avere abbandonato gli ebrei, dal momento che non mette fine al loro esilio") già si può intravvedere quella che Hannah Arendt definirà "banalità del male".

[Dario Fertilio]

 

 
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