LA
“PARTITA DOPPIA” COME LOGICA SOCIALE
Se
c’è uno spostamento di valore tra due entità in modo che
esso passi dall’una all’altra, quest’ultima,
ricevendolo, rimane in “dare”, mentre quella che lo
emette rimane in “avere”.
Questo
processo è detto pertanto “partita doppia”. Se infatti
do’ dei soldi a qualcuno, io rimango in avere, mentre la
persona che riceve i soldi, va in “dare”. Quando egli me
li restituirà, in quel momento egli andrà in “avere” e
pareggerà il suo conto. Lo stesso vale naturalmente se
questa persona mi offre una quantificabile prestazione di
lavoro: va in “avere”, mentre io in “dare”, e i
conti chiudono a zero.
La “partita doppia” è dunque tale che, sommando
tutto il “dare” e tutto l’“avere”, si chiude
sempre a zero.
La sua realtà nasce da un movimento, che è
alleggerito da una parte e caricato dall’altra. Qualunque
valore venga spostato crea sempre un soggetto che è in
“dare” e un altro che è in “avere”.
Chi
da’ soldi o beni o altro è in “avere” in quanto vuole
poi “riavere” ciò che prima aveva e che ora non ha più
perché l’ha passata a un altro.
Chi invece riceve, è in “dare” perché deve poi
ritornare, cioè ridare
ciò che ha avuto.
Se il cittadino ricevesse il Reddito di Cittadinanza,
egli nel suo conto centrale rimarrebbe in “dare”. La
collettività invece resterebbe in “avere” in quanto gli
stampa i soldi (E’ infatti la collettività che dovrebbe
stampare i soldi, non lui).
Anche dal punto di vista teologico, la cosa si
presenta così: il Signore ha detto che la terra è di
tutti.
Il
riconoscimento che i beni del creato attualmente fuori da
ogni proprietà e sovranità (risorse minerarie dei fondi
oceanici o della luna, Antartide, bacini idrici o orbite
satellitari per le telecomunicazioni) valorizzati dalle
tecnologie avanzate, sono di pertinenza comune, conduce
all'ipotesi che coloro che li sfruttano e li
commercializzano siano in debito verso l'umanità. La
creazione di un Fondo per la perequazione del debito e per
lo sviluppo con i proventi dei canoni di concessione dei
beni di pertinenza comune, tramite l’adozione del progetto
Afimo(Fiscalità monetaria) potrebbe non solo far uscire
l'umanità dall'attuale impasse sul debito dei paesi in via
di sviluppo, ma decondizionare ogni cittadino dall’obbligo
di lavorare per vivere.
L’espressione "la terra è di Dio" (cfr.
G. Franzoni “La
terra è di Dio, Ed. Edup, 1973) è tratta proprio dal
passo del Levitico (25,10 sgg.) in cui vi è l’istituzione
del giubileo, l’anno della ‘remissione’: "ciascuno
di voi - dice tra le altre disposizioni il testo biblico
- tornerà nella sua
proprietà... le terre non si potranno vendere per sempre,
perché la terra è mia, e voi siete per me come forestieri
e inquilini". La stessa affermazione ricorre nel
salmo 49, in cui all’uomo che crede di contentarlo con
sacrifici e offerte il Signore ricorda: "Sono
mie tutte le bestie della foresta,/ animali a migliaia sui
monti./ Conosco tutti gli uccelli del cielo,/ è mio ciò
che si muove nella campagna. Se avessi fame, a te non lo
direi: mio è il mondo e quanto contiene" (vv.
8-12).
Nello stesso senso, riconoscendo cioè la regalità
del "re dei Giudei che è nato" i Magi portano
doni a Gesù bambino "per adorarlo" (cfr. Mt 2,
passim). Secondo la stessa logica, infine, i poveri, che Gesù
associa e assimila a sé ("ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei
fratelli più piccoli, l’avete fatto a me", Mt
25,40 ), sono i veri destinatari dei beni della comunità
cristiana, sono il vero tesoro della Chiesa (Si ricordi a
questo proposito che san Lorenzo, diacono addetto alla carità
della chiesa di Roma, all’imperatore Valeriano, desideroso
di impadronirsi dei beni che la chiesa metteva in comune per
i poveri, presentò i poveri come il vero bene della chiesa
stessa).
Tutto questo fa comprendere meglio le parole di san
Gregorio Magno (cfr. I testi per la consultazione, n. 211):
"Dare il
necessario ai poveri è restituzione del dovuto e non
elargizione del nostro. E’ piuttosto pagamento di un
debito di giustizia, che soddisfazione di un’opera di
misericordia" (Regola pastorale, III,21). E’ un
pensiero che era già negli scritti di sant’Ambrogio (in
particolare nella Storia di Naboth, un commento al celebre
episodio del I libro dei Re, cap. 21): "Quanto
dai al povero non lo elargisci dal tuo, ma glielo
restituisci dal suo (non de tuo largiris, sed de suo reddis);
perché quanto è stato dato per l’utilità comune tu da
solo lo usurpi (il lat. usurpare equivale a ‘rapinare a
proprio uso’). La terra è di tutti, non dei ricchi"
(De Nab. 12,53).
L’espressione "la terra è di tutti" del
Giovanni Franzoni ha fatto pensare molti studiosi moderni ad
un ‘comunismo’ ante litteram di Ambrogio, ma in realtà
il suo pensiero è sempre quello biblico: la terra è di
tutti, perché Dio, a cui tutto il mondo appartiene, l’ha
data per tutti; lo stesso Ambrogio (ancora nella Storia di
Naboth, 16,67) spiega: "tutto
quanto offrirete in dono è mio, dice il Signore, perché
tutto il mondo è mio" (e qui cita il passo del
Salmo 49, sopra ricordato). La scelta preferenziale per i
poveri nasce dalla misericordia di Dio padre di tutti e
tende a restituire al Padre tramite il Figlio (e la chiesa e
i poveri) quanto dal Padre abbiamo ricevuto. Dare ai poveri
non è filantropia, ma celebrare il giubileo, riconoscere
cioè la signoria di Dio su tutto e su tutti, annunziare il
regno; non a caso Gesù per la propria missione lega le due
cose: "mi ha
mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio... e
predicare un anno di grazia del Signore" (Lc
4,18.19), cioè il giubileo, anno della remissione.
Del diritto di tutti sui beni della terra avevano
parlato anche i filosofi greci (soprattutto gli Stoici,
citati, peraltro, da Ambrogio), dei quali si erano fatti
portavoce nel mondo romano l’oratore Cicerone (I sec.
a.C.) nel De officiis (ripreso anche lui da Ambrogio nel suo
De officiis ministrorum, che ricalca l’opera ciceroniana)
e il filosofo Seneca (I sec. d.C.) nel De beneficiis (5,1,4:
"ciò che dai all’altro non lo presti, ma lo restituisci"); ma
Cicerone e Seneca (e gli Stoici) non vanno oltre un dovere
civile e sociale, guardano, ed è già tanto, ad una
solidarietà umana che si fonda sulla comune origine divina
degli uomini. Il pensiero cristiano vi aggiunge la salvezza
e il regno di Dio. Vi aggiunge, soprattutto, Gesù Cristo,
che non si è limitato ad ‘annunziare ai poveri’, ma si
è fatto povero lui stesso, nascendo in una stalla privo di
casa e di tutto, vivendo senza avere dove posare il capo,
morendo crocifisso tra due malfattori, risorgendo, perfino,
senza clamori mondani; e ha così riscattato tutti i poveri
e ha dato loro dignità regale.
Ora, se la terra è di tutti, un pezzo di terra
appartiene dunque anche a me cittadino.
Presupponendo che la terra avrebbe dato un reddito
perlomeno sufficiente alla mia vita, tale reddito potenziale
potrebbe essere pensato in “avere” rispetto al me
cittadino, mentre in “dare” rispetto alla collettività.
D’altra parte la collettività ponendosi in
“dare”, non può non avvertire che la terra non
appartiene più a se stessa, bensì ai vari proprietari
terrieri.
Tutti i redditi potenziali dei vari proprietari
terrieri dovrebbero pertanto - se il ragionamento è esatto
- essere messi in “dare”.
Per il solo fatto di possedere la terra, divengo
allora debitore della terra che quel reddito dovrebbe dare.
Il cittadino coltiva la terra e non solo produce quel
reddito ma cento volte quel reddito, che gli si trasforma in
denaro.
A
quel punto, essendosi trasformato in denaro, tramite la
decurtazione dell’8% annuo auspicata tecnicamente dal
Progetto-Bellia della neofiscalità,
vi saranno alla fine dei conti di ogni vita umana
alcuni che hanno tenuto la terra coltivata e quindi hanno
prodotto più di quello che era stato loro addebitato (e che
quindi di fronte al Padre eterno figurano di aver prodotto
di più); altri che invece hanno tenuto la terra lì ferma
solo per desiderio di possesso, e questi rimangono in
“dare”, in quanto responsabili verso il Padre eterno
perché non hanno fatto produrre la terra.
E’ la parabola dei talenti. Il Padre da’ i
talenti a tutti. Qualcuno li coltiva, qualcuno no. Il debito
rimane a quello che non ha coltivato.
In sintesi il ragionamento è molto semplice: la
terra è del Signore. Il Signore ama tutti i figli suoi in
uguale misura. Dunque vuole che un pezzo di questa sua terra
sia di ciascuno. Poiché però vi saranno alcuni che
possiedono anche le cose degli altri e alcuni che non
possono disporre delle proprie, questi ultimi rimangono in
credito, mentre gli altri rimangono in debito.
Nel Progetto-Bellia, ciò non succede, in quanto lo
Stato, li risarcisce attraverso il Reddito di Cittadinanza.
Ovviamente ciò non dovrà essere il rimborso
calcolato in base al sovrappiù che può essere prodotto con
l’intelligenza, l’impegno e la fatica, bensì nella
misura di una sopravvivenza minima capace tuttavia di
garantire il diritto alla vita di ogni cittadino.
Il cittadino infatti dovrebbe avere il diritto e - in
questo caso credo si potrebbe parlare anche di diritto
profetico o di diritto teologale, non solo di diritto
naturale o di diritto romano.
Come cittadino, dovrei infatti prendere dalla terra
quel tanto che mi serve per vivere, dunque solo i frutti
naturali, l’acqua, gli animali, l’erba, la verdura,
ecc., cioè tutto quanto è dato spontaneamente dalla terra,
non il mancato reddito. Quest’ultimo d’altra parte non
mi sarebbe negato come merito qualora volessi farla rendere
al massimo, coltivandola. Il prodotto di ogni impresa viene
infatti per coloro che ci lavorano.
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