A
Torre Pellice, durante l’interessante Stage d’Autunno
organizzato dalle associazioni Mouzico e Dansa d’Oc
e J.O’Leary, ho potuto conoscere finalmente Inga.
Mai varcata la frontiera italiana, Inga era conosciuta
attraverso i pochi racconti fatti da coloro che avevano
frequentato le distanti sedi francesi del CMTN (Connaissance
des musiques traditionnelles nordiques) o avevano fatto
corsi con la francese Josiane Rostagni.
L’intervista, doveroso atto di un appassionato
del mondo nordico, racconta ampiamente chi è Inga,
le sue origini ed i suoi pensieri come insegnante di danza.
E attraverso il suo pensiero dà uno sguardo interessante
al patrimonio coreutico tradizionale di un paese che in
questi ultimi anni comincia ad emergere tra gli interessi
dei danzatori e musicisti italiani.
Quello che l’intervista non può dire, ma
che emerge fra le righe delle sue concezioni pedagogiche”,
è la capacità di Inga di portare i suoi
allievi alla danza attraverso un percorso mirato al piacere.
Con un carisma ed una concezione laicamente sacrale, che
ricorda insegnanti come Pierre Corbefin, Inga non ti lascia
indifferente: ti accompagna per mano nelle difficoltà
di una polska e ti lascia a cercare il tuo equilibrio
nel tempo ipnotico e melanconico delle melodie nordiche.
Domanda: Come è nata la tua passione per
la danza e per il mondo della tradizione?
E’ cominciata solo da adulta. Ho passato la mia
infanzia nel Dalarna, ascoltavo un po’ la musica
ma la sentivo come qualcosa di vecchio. Più tardi
ho fatto gli studi a Parigi e tornata a casa, all’inizio
degli anni ‘70, ho incontrato il boom del revival
di tutta la musica e di tutto il folclore. E’ stato
a questo punto che ho riscoperto la ricchezza della musica
e della danza svedesi; in fondo è normale che quando
ci si allontana dal proprio paese e si vedono altre cose,
si torna con occhi diversi. Quando sono tornata era l’età
d’oro della musica e della danza tradizionali; c’era
molta gente che si occupava di ricerca e anche di festival,
di corsi, stage con gran libertà.
C’era anche l’aspetto ideologico di questo
revival: l’arte, la musica dovevano essere patrimonio
di tutti e non solo di privilegiati.
In questa situazione ho conosciuto a Stoccolma, a Upsala,
presso l’università, e anche nel Dalarna
molte persone. Molti giovani cominciavano a suonare il
violino, erano originari del Dalarna anche se erano stati
altrove per gli studi. Riscoprivano la loro storia musicale
attraverso testimonianze di musicisti popolari anziani
e attraverso degli spartiti.
Fino ad allora c’erano stati dei gruppi folcloristici
che avevano gestito il folclore. Ma non era una tradizione
vivente. La musica era un po’ meccanica e le danze
coreografate; c’era anche una tradizione di grandi
orchestre di violino che si chiamano slag... Ma per conoscere
la ricchezza della musica tradizionale bisognava ascoltare
i vecchi musicisti.
Attraverso questi anziani fu possibile fondare nuove scuole
musicali sia a est che a ovest.
Per la danza era tutto più complicato: c’era
poca gente che ballava. Alcuni anziani sapevano ballare
ma la tradizione non era più viva, partecipata.
Contemporaneamente si muoveva la situazione anche nelle
grandi città dove i giovani studenti seguivano
degli stage.
Tutti volevano ballare ma non si sapeva come fare.
Io allora facevo parte di un gruppo folcloristico a Upsala
con altri studenti ( era un lavoro quasi accademico) e
quando ho conosciuto la polska durante gli stage ho subito
sentito una grande passione: avevo finalmente trovato
quello che mi piaceva. Questa era la vera musica tradizionale.
Fare coreografie è interessante ma l’emozione
di questa danza è tutta un’altra cosa. Quando
si vuole ballare la polska non bisogna contare, bisogna
entrare dentro la musica e sentire tutte le variazioni.
Non è neanche necessario dire in modo preciso quello
che si deve fare: la polska è diversa, è
un’altra mentalità. E per me è stata
un rivelazione.
Volevi sapere qualcosa del mio insegnare? Ma questa storia
fa parte della mia vita. Ho imparato in fretta, cercando
di andare d’accordo con la musica: in fondo non
sapevamo bene come si dovesse ballare, quello che avevamo
imparato fino a quel momento era solo meccanico.
Inoltre i miei amici che suonavano così bene, non
sapevano ballare.
Così sono stata costretta a imparare il passo dell’uomo,
arrivando al punto che tutti mi chiedevano consigli e
io, senza accorgermene, iniziavo ad insegnare.
Io non avevo deciso di insegnare, né alcuno mi
aveva insegnato a farlo. Certo la pedagogia mi interessava
- faccio l’insegnante nella vita - ma il motivo
che mi spingeva ad aiutare gli altri era solo la mancanza
di ballerini. Era un’epoca di festival aperti a
tutti, non c’erano dei corsi a pagamento.
Quando io e i miei amici abbiamo iniziato a ballare, abbiamo
messo in subbuglio il mondo del folclore. I giornalisti
e i gruppi folcloristici erano furiosi, scrivevano articoli
su di me dicendo che stavo distruggendo la tradizione.
Se si lasciava la gente ballare come vuole, si sarebbe
uccisa la polska.
Era un’epoca di elitarismo, quindi era una questione
ideologica. Io ero favorevole a dare la possibilità
a tutti di ballare: non ero contro il sapere, ma, come
ora, contro l’elitarismo.
E’ vero che ci sono delle cose che possono aiutare,
delle regole, ma il cuore del discorso è il contatto
con la musica, è il legame della persona con la
musica. L’essenziale non sono le regole ma la ricerca
dell’effetto che la musica fa su di te. E’
l’amore per il movimento, è quello che senti
con la musica che conta.
In svedese per muovere e commuovere c’è un
solo verbo.
Adesso nella mia attività metto letteralmente al
centro la musica. Metto al centro una persona che la rappresenti
in modo tale che la musica diventi tangibile.
Bisogna lasciare che la musica si impossessi della persona
attraverso la relazione che si crea tra il musicista e
i corsisti e tra il musicista e l’animatore.
Si tratta di una relazione non di cose meccaniche.
Anch’io a volte mi servo di un registratore, sono
mezzi molto pratici; ma è necessario abbattere
le frontiere (anche in Svezia purtroppo ce ne sono) tra
musicisti e ballerini.
Ho cominciato a insegnare nel ‘75: c’era solo
una quindicina di persone, un corso di violino e la pretesa
di imparare il passo della polska.
Poi mi hanno chiamato in tanti posti e ho iniziato a lavorare
soprattutto con musicisti come Ellika Frisell (anche a
Toulouse) e insieme abbiamo sviluppato un nostro metodo.
Negli ultimi dieci, dodici anni ho lavorato molto in Francia
perché conosco il francese, ma prima avevo già
fatto dei giri negli Stati Uniti e nell’Olanda.
In seguito mi sono ammalata seriamente, quindi ho dovuto
lasciare tutto; i miei amici violinisti sono diventati
degli star, dei personaggi importanti che sono alla testa
di movimenti folk, ma io li vedo di rado.
D: Puoi raccontare qualcosa sulla polska, sulla
sua storia, sui suoi stili?
La storia della polska non è molto chiara. Né
sono ora al corrente di tutte le ricerche che possono
essere state fatte.
Quando io ho cominciato non si sapeva molto sulle origini
della polska. La musica e la danza si può attribuire
al XVIII-XIX secolo; ma la sua età d’oro
è sicuramente il diciannovesimo.
Prima che si ballasse la polska a coppie in giro per la
sala, c’erano altre musiche e danze, c’erano
delle langdans e sul tempo di polska c’era una danza
fatta sul posto: non ci si muoveva in giro per la sala
e si ballava in coppia o in quattro.
Ma prima delle danze in coppia c’erano delle danze
in cerchio o in catena?
Sì certo. C’erano altre forme di langdans,
di cui però non so molto. Si possono vedere delle
immagini su delle pitture murali delle chiese che risalgono
al Medioevo, però non si sa molto bene come queste
danze si svolgessero.
E’ probabile che molte danze siano state influenzate
dalle controdanze del centro Europa, anche polacche. Importate
in Svezia, queste venivano eseguite già su una
musica a tre tempi dando origine alla polska. Ma attenzione,
io non sono una esperta di storia della danza.
Una domanda classica: secondo te, la polska fa
parte di una tradizione vivente?
Sicuramente la società è cambiata, non
si può parlare di una tradizione vivente come quando
la polska si ballava nei villaggi o nelle città
in occasione dei matrimoni ed era integrata nella vita
quotidiana.
Adesso la polska esiste soltanto tra persone particolari,
forse quelle che vengono da villaggi dove la musica tradizionale
è durata più a lungo e che hanno sentito
in passato la musica dai genitori (e questo più
nelle città che nei villaggi) o, comunque, da vecchi
musicisti.
D: Dunque si tratta di una forma di revival?
Sì. E la cosa vale anche per il Dalarna.
Si dice che l’unica polska di tradizione ancora
vivente sia quella di Buda, però c’è
pochissima gente che la balli a Buda.
C’è molta più gente come me o che
proviene da altre città che sa ballarla. Comunque
in Dalarna ci sono ancora molti musicisti, gente che conosce
la tradizione del violino e che conosce sia la musica
che la danza. Generalmente le persone che ballano fanno
anche parte di gruppi folcloristici e quindi fanno danze
coreografate.
D: Il Dalarna, come da noi il Sud Italia o la
Bretagna in Francia, è la zona che ha conservato
meglio le proprie tradizioni?
Sì, penso che possa essere così. Questa
regione è molto famosa per la danza, ma è
famosa anche perché ci sono molti turisti.
In Svezia ci sono luoghi dove si sono conservate molte
“vecchie” danze (fine XIX e inizio XX secolo),
fra le quali si può annoverare l’hambo, una
danza più semplice e più regolare della
polska, lo scottish e anche qualche forma di polka e di
mazurca: alla gente queste danze piacciono, queste possono
essere etichettate come tradizione vivente. Queste vecchie
danze vengono generalmente chiamate gammeldans.
D: Beh, torniamo alla polska. Ci sono diversi
tipi di polske e diversi stili di ballo...
E’ molto difficile descrivere queste cose, quasi
impossibile. Una cosa sicura è che la Svezia è
divisa in due parti: una è rivolta verso la Norvegia,
a ovest, e l’altra è rivolta ad est. Nella
zona occidentale si pensa che le polske siano più
irregolari, più leggere, più rapide.
Ad ovest si fanno molte più varianti, ci sono dei
salti; ad est, invece, lo stile è più elegante,
più piatto. Ci sono polske sul posto e altre molto
girate, le melodie sono abbastanza facili da cantare.
La variante di Buda è molto famosa così
come quella di Orsa; quella di Buda utilizza spesso melodie
di hambo.
In Svezia ci sono anche zone centrali che sono influenzate
sia da est che da ovest...C’è il Värmland
che è diviso in due parti, una a est e una a ovest,
ed è ricco di varianti che io conosco meno: qui
la polska ha un ritmo in cui il 2° tempo è
vicinissimo all’1°, cioè 1 2---3.
Ci sono anche delle polske solo cantate?
Sì. Con le melodie da danza si è mescolato
tutto il tesoro della cultura delle montagne, dell’alpeggio.
Lì si cantava ad alta voce per dare dei segnali
alle mucche e poi questi richiami sono diventati delle
melodie di polska.
D: Esistono tante polske o esiste una polska
con delle varianti?
Ma non so, è un’opinione personale.
Per me c’è un genere, la polska, un genere
che include anche il bakmes (una variante nella polska).
E poi ci sono tante varianti come ci sono tante varianti
nelle musiche. Si può fare un paragone con la lingua
e suoi dialetti.
In tanti altri campi c’è un polo delle cose
che sono simili, quello dell’unità, e un
polo della diversità: l’equilibrio di questi
due poli può variare. La polska, come molte altre
cose della vita, gioca un po’ con uno e un po’
con l’altro, si muove tra questi due poli. Forse
è questo che la rende misteriosa.
D: Le persone che abitano in Svezia che cosa
pensano della tradizione? Qual è il valore della
tradizione per loro, per quelli che abitano a Stoccolma,
nel Dalarna, nelle campagne...?
La maggior
parte non conosce la propria musica, sanno quello che
sono le gammeldans ma non le ballano. Pochi sanno quello
che è la polska.
Durante gli anni ‘60, all’inizio del revival,
un numero notevole di persone ha riscoperto le danze attraverso
i media e i festival.
Adesso le conoscenze si sono allargate un po’.
A Stoccolma la situazione è diversa, ci sono persone
che frequentano gli stage e che sanno danzare.
D: Al di là dell’interpretazione
di uno stile, esiste in Svezia un fenomeno di invenzione
ex-novo di passi e coreografie?
Ci sono perfino dei concorsi per vedere chi inventa meglio
nuove melodie o nuovi passi di danza. Ci sono dei giudici
che controllano e, se approvano la novità, ti autorizzano
a riproporla. In alcuni casi si ottengono anche delle
medaglie.
Come ho detto all’inizio tutto questo si scontra
con il mio modo di insegnare. Negli anni ‘70 insegnavo
un passo di base, criticato dai tradizionalisti con il
timore che avrei fatto morire le varianti. Ma il mio intento
era quello di coinvolgere il maggior numero di persone
e portarle in un secondo tempo a scoprire tutto il resto.
Quando la tradizione della polska era viva è chiaro
che non si ballava con un passo di base, ma adesso penso
che il passo base sia un buon mezzo per orientare dei
principianti verso la danza.
E’ un passo che si adatta a quasi tutte le musiche,
come un comune denominatore, senza essere in contraddizione
con tutte le finezze e le varianti che esistono.
D: Può darsi che anche questa sia una
questione ideologica: si può semplificare una danza
per un motivo pedagogico?
L’insegnare successivamente delle raffinatezze,
delle varianti, dipende dalla capacità dei ballerini
di impararle.
Nelle melodie ci sono tante piccole differenze: se una
musica piace e se viene voglia di esprimere le sue finezze,
le sue caratteristiche, posso intervenire con dei consigli
o addirittura con delle regole; sempre tenendo conto che
queste regole non sono assolute.
Si possono far vedere i vari modi di ballare, i vari stili
a seconda delle musiche. Non è possibile tuttavia
imparare queste finezze senza partire dalla musica : è
una cosa estremamente meccanica e negativa.
Io mi limito ad invitare la gente ad ascoltare la musica
e a scoprire che cosa si può fare, come si può
viverla ballando.
In questi concorsi di cui parlavo si subisce una specie
di esame, c’è della gente che osserva come
vengono eseguite le diverse polske e annota se sono fatte
secondo le regole. A Orsa, ad esempio, si sono stabilite
delle regole che dovrebbero rimanere fisse per sempre.
Ma questo è come considerare che la tradizione
si è fermata. Io continuo ad essere convinta che
bisogna dare alla musica quello che si merita, eliminando
tutto ciò che ci può essere di meccanico
nell’esecuzione.
Mi oppongo alla rigidità imposta da regole assolute.
Non critico quelli che le adottano ma critico il loro
modo di insegnare, la pedagogia.
Per quanto riguarda il ruolo delle donne, ad esempio,
si è sempre sostenuto che la donna debba solo essere
leggera, non farsi notare. Ma così facendo si perdono
un sacco di cose. Le donne devono utilizzare la loro forza,
il loro peso: nel lavoro di coppia c’è un
gioco di bilanciamento dei pesi. Ci sono delle regole
cinetiche che impongono, nel girare, di alternare le funzioni...
A volte prevale l’energia, il peso dell’uno,
a volte dell’altro...
Concludendo, quale è il futuro della polska?
Quando ero giovane pensavo che si poteva cambiare il
mondo: che si sarebbe ballato dappertutto, che tutti avrebbero
suonato. Invece siamo al punto che non ci sono luoghi
fisici dove ballare!
Ci sono festival e stage, ma le cose non sono molto cambiate
da quando ero giovane, quindi non sono molto ottimista...
Ci sarà sempre gente con voglia di imparare, ma
questo fenomeno non diventerà mai generale.