IL
TRAVOLGENTE SVILUPPO DELL’INDUSTRIA, GLI EFFETTI SULLA VITA E LE
PROSPETTIVE DELL’UOMO
La
società contemporanea ha le sue radici non tanto nella Prima rivoluzione
industriale, quella del carbone e del ferro, quale si verificò in
Inghilterra nel XVIII sec., quanto nei mutamenti strutturali prodotti
negli ultimi decenni del XIX sec. non solo in Inghilterra ma anche
nell’Europa continentale e negli Stati Uniti d’America come effetto
della Seconda rivoluzione industriale, con la quale ebbe inizio la società
dell’acciaio e dell’elettricità, del petrolio e della chimica.
Fu solo allora che tanti oggetti oggi considerati fondamentali per
la nostra vita, fecero la loro prima comparsa.
Se
l’industria tessile era stata il motore della prima rivoluzione, nella
seconda presero questo ruolo due nuovi settori: la siderurgia
e la chimica. Questo fu un fatto importante in quanto
l’industria tessile produce beni
di consumo, merci cioè che sono destinate ad un consumo rapido e
che poi vengono sostituite, mentre l’industria siderurgica e chimica
producono merci che non vengono consumate direttamente, ma che vengono
trasformate prima di essere immesse sul mercato sotto altra forma
(macchine industriali, binari, scafi navali, impalcature per grattacieli,
coloranti artificiali, materie plastiche, fibre artificiali, concimi,
dinamite e soda). Associato al settore della chimica, c’è quello della
medicina che fece in questo secolo passi da gigante. Basti pensare alla
produzione del primo antibiotico, alla scoperta delle vitamine e degli
ormoni, all’identificazione della zanzara come veicolo della malaria e
all’introduzione dell’anestesia e delle tecniche antisettiche che
sconvolgeranno la medicina pratica.
Alla
fine dell’Ottocento si svilupparono inoltre nuove forme di energia; al
carbone si affiancarono infatti l’energia elettrica e il petrolio.
Quest’ultimo in particolare, che sarebbe poi diventato la più
importante forma di energia nel nostro secolo, cominciò ad avere una
grande importanza con l’invenzione del motore
a scoppio (fine Ottocento).
Nella
seconda metà dell’Ottocento si espanse la rete stradale e vennero resi
navigabili numerosi fiumi e canali. Le nuove
locomotive, inventate verso il 1850 per sostituire il primo modello
a vapore di Stephenson, viaggiavano a 50 chilometri orari, che
divennero poi 80 alla fine del secolo. La rete ferroviaria più sviluppata
era quella britannica, ma, dopo la metà del secolo, le ferrovie si
diffusero rapidamente anche in Germania, in Francia e negli Stati Uniti.
Ma
lo sviluppo delle comunicazioni non interessò solamente le ferrovie; dopo
il 1870 i battelli a vapore
sostituirono le navi a vela, gli scafi
in metallo presero il posto di quelli in legno e l’elica subentrò
alle ruote a pale. Vennero costruiti dei canali
navigabili che ridussero le distanze tra i continenti: il canale di
Suez, inaugurato nel 1869,
permise di andare dal Mediterraneo al Mar Rosso e all’oceano Indiano
senza dover circumnavigare l’Africa. Le gallerie del Moncenisio (1871) e
del Gottardo (1882) ridussero inoltre il viaggio dall’Italia alla
Francia e alla Germania.
Lo
sviluppo dei trasporti e delle comunicazioni fu molto importante per
l’industria, per due motivi: in primo luogo perché permetteva alle
fabbriche di commerciare i loro prodotti in breve tempo e a grandi
distanze e analogamente di ricevere le materie prime rapidamente; in
secondo luogo perché per costruire le ferrovie erano necessari l’acciaio
e la ghisa, che venivano
richiesti in grandi quantità alle industrie siderurgiche, le quali ebbero
un notevole incremento di produzione. Altre due invenzioni contribuirono
in questo periodo a far diventare il mondo sempre più piccolo: il
telegrafo (1851) e il telefono (1876), con cui si poteva comunicare da una
parte all’altra del globo dapprima con impulsi elettrici, poi con la
voce.
Tutte
le invenzioni sopracitate non rivoluzionarono solo il mondo economico e la
vita quotidiana di ogni persona, ma
ebbero
anche altre conseguenze, come ad esempio l’estensione e l’unificazione
del mercato. Quest’ultimo si ampliò enormemente grazie ai nuovi mezzi
di trasporto e di comunicazione, che permisero a ogni città, paese o
villaggio di partecipare intensamente al commercio mondiale e
contribuirono alla creazione di un mercato globale.
Tra
il 1850 e il 1870 la quantità di merci commerciate nel mondo si triplicò,
espansione dovuta alla prevalenza, in questo periodo, di idee liberali le
quali sostenevano che il commercio mondiale dovesse diventare totalmente
libero e che le merci, quando attraversavano le frontiere degli Stati, non
dovessero essere soggette a tasse doganali (dazi), così da arricchire le
nazioni e migliorare la vita di tutti.
A
mano a mano che si sviluppavano, anche le altre nazioni europee seguirono
l’esempio inglese e abolirono i dazi doganali; per questo motivo il
periodo che va dal 1850 al 1870 è detto “l’età d’oro del libero
scambio”.
IL
CAPITALISMO ORGANIZZATO: BANCHE, IMPRESE, STATO
Negli ultimi decenni del XIX sec.
fa la sua comparsa il “capitalismo organizzato”. Scompare così il
carattere anarchico e concorrenziale, individuato da Marx come una
delle principali peculiarità del modo di produzione capitalistico
durante l’età del “libero scambio”.
Negli anni tra il 1873 e l’inizio del Novecento il controllo
dell’economia si concentrò in un numero sempre minore di imprese
industriali e finanziarie; tra le cause di questo fenomeno vi furono in
particolare l’esigenza di forme di controllo del mercato che rendessero
meno violenta la concorrenza e che permettessero di frenare la caduta dei
prezzi, e la “grande crisi”
del 1873, che
provocò il fallimento di
molte piccole industrie.
La manifestazione più immediata
ed evidente di questa trasformazione, fu la scomparsa del libero scambio e
la tendenza al monopolio (controllo del mercato da parte di un’unica
impresa) e, soprattutto, all’oligopolio (controllo del mercato da parte
di un numero ristretto di imprese). Così, secondo quell’opera ormai
nota di “selezione naturale”, che opera anche in ambito economico, le
imprese più solide s’imposero, eliminando quelle più deboli.
All’inizio degli anni ottanta, per esempio, negli Stati Uniti il 90 % del
mercato di raffinazione del petrolio era sotto il controllo della Standard
Oil, mentre i due terzi della produzione siderurgica era sotto il
controllo dell’U.S. Steel. Analogamente in Germania case come la Bayer,
assunsero il controllo del settore farmaceutico.
È indubbio che questo sviluppo di
forme di monopolio e oligopolio fu anche voluto e perseguito
accuratamente, dai settori di punta del capitalismo, che crearono a questo
fine specifici strumenti giuridici come il trust negli Stati Uniti,
che permetteva di legare tra loro diverse aziende, affidandole ad un unico
gruppo dirigente, assicurandosi così il controllo di determinati settori.
Questa tendenza alla
concentrazione del controllo sull’economia, si manifestò inoltre nei
mutati rapporti tra imprese e banche e tra imprese e Borsa, la quale, dopo
lo sviluppo delle società per azioni durante l’età del libero scambio,
era divenuta una delle istituzioni chiave dell’economia capitalistica.
Il grande fabbisogno di capitale, rendeva necessario per le imprese
industriali, attingere fondi dal risparmio di massa. A questo fine
servivano le emissioni di azioni, e servivano le banche, che canalizzavano
in investimenti produttivi i risparmi raccolti nel complesso dalla società.
La forte domanda di finanziamenti promosse lo sviluppo di un particolare
tipo di banca, quella “mista”. Essa funzionava come banca commerciale,
raccogliendo i depositi della massa del pubblico, e come banca d’affari,
investendo nelle attività produttive delle aziende.
A
questo punto, anche lo Stato,
che con il liberalismo era stato estromesso dalle faccende economiche, intervenne
pesantemente nell’economia (fatta
eccezione che in Inghilterra). Vennero attuate politiche
protezionistiche, vennero cioè aumentati in maniera esorbitante i
dazi doganali per far diventare più care le merci estere e favorire
quelle interne. Inoltre gli Stati europei (sempre Inghilterra esclusa)
appoggiarono le industrie con commesse
e appalti. Le commesse sono degli acquisti, che lo Stato opera
presso privati, di prodotti che gli sono utili (navi, armi...); gli
appalti invece sono concessioni che lo Stato dà alle industrie per la
costruzione e la gestione di servizi e opere pubbliche (ferrovie,
porti...).
LA
RAZIONALIZZAZIONE PRODUTTIVA
Tra
i processi di riorganizzazione industriale, il più importante è la
cosiddetta “razionalizzazione produttiva”, la fondazione del lavoro
organizzato nella grande fabbrica su basi “scientifiche”, cioè su una
sistematica analisi dei tempi di lavoro e sulla formulazione di regole
standardizzate. È il cosiddetto Taylorismo (dal nome di F.W. Taylor,
che per primo formulò i principi dello scientific management).
L’opera portata avanti da Taylor, mirata all’aumento della
produttività,
partiva da una attenta analisi dell’operaio ottocentesco, il quale,
secondo lui riusciva a mantenere segrete le proprie potenzialità
produttive, impedendo al padrone di amministrare al meglio la sua forza
lavoro. L’ossessione di Taylor e dei suoi seguaci era quindi quella che
gli operai, per l’innata pigrizia che è propria dell’uomo, non
producessero in base alle loro possibilità. La razionalizzazione
tayloristica del lavoro consisteva quindi nell’osservazione sistematica
dei movimenti degli operai e nella rilevazione cronometrica con
conseguente classificazione statistica dei tempi impiegati, al fine di
giungere all’assegnazione di giuste mansioni e al “modo migliore” di
lavorare. Fu possibile così non solo fissare un giusto salario per una
giusta giornata lavorativa, ma anche predeterminare in termini astratti i
tempi e i modi della lavorazione del prodotto prima ancora che questa
fosse iniziata concretamente (pianificazione aziendale). La direzione
d’impresa, in questo modo, poté anche intervenire sull’attività
lavorativa dell’operaio e il lavoratore cessava di essere padrone del
proprio mestiere, dipendendo dall’imprenditore anche per l’esecuzione
del suo operato.
Taylor voleva con il suo metodo
realizzare l’armonia ed il benessere generale attraverso l’aumento
generalizzato della produttività (e quindi della ricchezza sociale) e la
fissazione di criteri scientifici di ripartizione del reddito. Così non
fu, anzi la reazione dei lavoratori e delle organizzazioni sindacali fu
durissima e la resistenza all’applicazione dei metodi di organizzazione
del lavoro durò per oltre un decennio. Nel 1893 però fu introdotta la
produzione “a catena” con la conseguente “catena di montaggio”,
sperimentata la prima volta negli Stati Uniti (industria automobilistica Ford).
IL
PERMANERE DELLA “QUESTIONE SOCIALE”
Durante
l’Ottocento l’industria assunse proporzioni sempre maggiori impegnando
nelle fabbriche migliaia di operai. Essi finirono per costituire una nuova
classe sociale (la moderna classe operaia) chiamata “proletariato”
(coloro che dispongono di braccia per lavorare e una prole da sfamare), i
quali, a differenza degli artigiani tradizionali, non possedevano propri
strumenti di lavoro, ed erano praticamente privi di proprietà e
generalmente tendevano a scambiare il proprio lavoro per un salario.
Dall’altro lato vi erano invece i proprietari delle grandi fabbriche o i
potenti banchieri, essi costituivano la borghesia (classe in continua
ascesa).
Si
venne ben presto a delineare una netta divisione tra queste due classi,
che portò a veri e propri scontri. Infatti le condizioni di vita degli
operai e delle loro famiglie non erano delle migliori: donne e bambini
oltre ad essere sfruttati e a dover sostenere massacranti e ripetitivi
ritmi di lavoro, conducevano una vita tremenda nelle periferie dei centri
urbani, dove vivevano in mezzo alla malattia e alla sporcizia, poiché
tutti ammassati in quartieri sovraffollati e malsani. La vita peggiore la
si conduceva nei quartieri operai di Londra (descritti magistralmente da Charles
Dickens nei suoi romanzi), dove il tasso di mortalità infantile
era enormemente superiore a quello del resto d’Europa. E fu proprio in
Inghilterra che la questione sociale ebbe più sfogo. Qui gli operai
vennero man mano maturando una forte “coscienza
di classe” (la scoperta di avere in comune bisogni, interessi,
richieste e obbiettivi da raggiungere, nonché la forza che veniva dalla
solidarietà e dalla consistenza numerica) che li portò alla
rivendicazione dei propri diritti.
All’inizio
dell’ Ottocento gia erano esplose violente forme di agitazioni e di moti
operai che vanno sotto il nome di Luddismo (dal nome di Ned Lud che aveva
infranto nel 1779 un telaio). Questo movimento, organizzato in società
clandestine, si batteva per la riduzione degli orari di lavoro, per la
rivendicazione del diritto di sciopero e per la costituzione di
associazioni operaie. Sostenevano inoltre che le macchine, svolgendo il
lavoro degli uomini, avrebbero provocato una crescente disoccupazione e
per questo motivo praticavano un’azione di sabotaggio sistematico e di
distruzione delle innovazioni. Agli inizi degli anni venti, visto il
numero crescente di agitazioni operaie, si attuarono una serie di riforme
volte a migliorare la condizione dei lavoratori: nel 1824 si riconosce
loro il diritto ad unirsi in associazioni di lavoratori (nascono le Trade
Unions = libere organizzazioni), nel 1833 una legge fissava l’orario di
lavoro dei minorenni, nel 1834 venne varata una legge che assegnava
precisi compiti di pubblica assistenza alle istituzioni locali.
Contemporaneamente a queste riforme si venne sviluppando un altro
movimento operaio che puntava a superare l’esclusione dei lavoratori
dalla rappresentanza parlamentare. Infatti dopo la
riforma elettorale del 1832 che
aveva escluso la classe operaia dalla Camera dei Comuni, nacque a Londra
nel 1836 l’Associazione dei lavoratori (Working men’s association) che
nel 1838 pubblicò la Carta del popolo (il movimento, per questo
motivo, si chiamò poi
Cartismo), con la quale i lavoratori pienamente
consapevoli dei loro diritti rivendicavano elezioni annuali, il suffragio
universale, l’abolizione del censo come criterio discriminatorio in
politica, il voto segreto, un’indennità per i parlamentari in modo che
anche chi non aveva le possibilità poteva esercitare il mandato.
L’esclusione da ogni forma di collaborazione con la borghesia finì però
per condannare il cartismo all’isolamento, così nella seconda metà
degli anni quaranta il movimento cominciò a declinare.
Nel
frattempo, però, l’accelerazione del processo di industrializzazione
sul piano internazionale portò all’internazionalizzazione dei problemi
del mondo operaio con la nascita dei vari partiti socialisti. Fu così che
nel 1864, per iniziativa di Marx , sorse a Londra l’Associazione
internazionale dei lavoratori, detta poi Prima Internazionale. Essa però
fu destinata ad un misero fallimento a causa delle divisioni interne tra
marxisti e anarchici. La dissoluzione della Prima Internazionale non segnò
la scomparsa dei vari partiti socialisti ed operai. Ciò rese possibile
nel 1889 la resurrezione a Parigi della Seconda Internazionale. I governi
la combatterono come avevano combattuto la prima, ma furono sospinti sulla
via di una legislazione sociale per venire incontro alle più sentite
esigenze della classi operaie, quali la riduzione della giornata
lavorativa ad otto ore e l’assicurazione contro gli infortuni sul
lavoro.
Sebbene
il movimento socialista fosse ideologicamente a favore della pace e della
fratellanza tra lavoratori di ogni paese, il dissidio sorto nell’ambito
dell’Internazionale indebolì gli sforzi volti a evitare una guerra in
Europa. Quando, nel 1914, ebbe inizio la Prima guerra mondiale, gli
interessi nazionali si dimostrarono molto più forti dei legami di classe
tra lavoratori e parte dei socialisti sostennero la politica militare dei
propri governi. Questa circostanza segnò la fine della Seconda
internazionale, sebbene i tentativi di ricostituire l’unità del
movimento continuassero fino al 1920.