II° rivoluz. industriale
Home Il Positivismo II° rivoluz. industriale Il Naturalismo francese Il Verismo italiano Il Romanzo Sociale Bibliografia

 

Motore a scoppio

LA SECONDA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE

 

IL TRAVOLGENTE SVILUPPO DELL’INDUSTRIA, GLI EFFETTI SULLA VITA E LE PROSPETTIVE DELL’UOMO

IL CAPITALISMO ORGANIZZATO: BANCHE, IMPRESE, STATO

LA RAZIONALIZZAZIONE PRODUTTIVA

IL PERMANERE DELLA “QUESTIONE SOCIALE”

 

IL TRAVOLGENTE SVILUPPO DELL’INDUSTRIA, GLI EFFETTI SULLA VITA E LE PROSPETTIVE DELL’UOMO

 

La società contemporanea ha le sue radici non tanto nella Prima rivoluzione industriale, quella del carbone e del ferro, quale si verificò in Inghilterra nel XVIII sec., quanto nei mutamenti strutturali prodotti negli ultimi decenni del XIX sec. non solo in Inghilterra ma anche nell’Europa continentale e negli Stati Uniti d’America come effetto della Seconda rivoluzione industriale, con la quale ebbe inizio la società dell’acciaio e dell’elettricità, del petrolio e della chimica.  Fu solo allora che tanti oggetti oggi considerati fondamentali per la nostra vita, fecero la loro prima comparsa.

Se l’industria tessile era stata il motore della prima rivoluzione, nella seconda presero questo ruolo due nuovi settori: la siderurgia e la chimica. Questo fu un fatto importante in quanto l’industria tessile produce beni di consumo, merci cioè che sono destinate ad un consumo rapido e che poi vengono sostituite, mentre l’industria siderurgica e chimica  producono merci che non vengono consumate direttamente, ma che vengono trasformate prima di essere immesse sul mercato sotto altra forma (macchine industriali, binari, scafi navali, impalcature per grattacieli, coloranti artificiali, materie plastiche, fibre artificiali, concimi, dinamite e soda). Associato al settore della chimica, c’è quello della medicina che fece in questo secolo passi da gigante. Basti pensare alla produzione del primo antibiotico, alla scoperta delle vitamine e degli ormoni, all’identificazione della zanzara come veicolo della malaria e all’introduzione dell’anestesia e delle tecniche antisettiche che sconvolgeranno la medicina pratica.

Alla fine dell’Ottocento si svilupparono inoltre nuove forme di energia; al carbone si affiancarono infatti l’energia elettrica e il petrolio. Quest’ultimo in particolare, che sarebbe poi diventato la più importante forma di energia nel nostro secolo, cominciò ad avere una grande importanza con l’invenzione del motore a scoppio (fine Ottocento).

Nella seconda metà dell’Ottocento si espanse la rete stradale e vennero resi navigabili numerosi fiumi e canali. Le nuove locomotive, inventate verso il 1850 per sostituire il primo modello a vapore di Stephenson, viaggiavano a 50 chilometri orari, che divennero poi 80 alla fine del secolo. La rete ferroviaria più sviluppata era quella britannica, ma, dopo la metà del secolo, le ferrovie si diffusero rapidamente anche in Germania, in Francia e negli Stati Uniti.

Ma lo sviluppo delle comunicazioni non interessò solamente le ferrovie; dopo il 1870 i battelli a vapore sostituirono le navi a vela, gli scafi in metallo presero il posto di quelli in legno e l’elica subentrò alle ruote a pale. Vennero costruiti dei canali navigabili che ridussero le distanze tra i continenti: il canale di Suez, inaugurato nel 1869, permise di andare dal Mediterraneo al Mar Rosso e all’oceano Indiano senza dover circumnavigare l’Africa. Le gallerie del Moncenisio (1871) e del Gottardo (1882) ridussero inoltre il viaggio dall’Italia alla Francia e alla Germania.

Lo sviluppo dei trasporti e delle comunicazioni fu molto importante per l’industria, per due motivi: in primo luogo perché permetteva alle fabbriche di commerciare i loro prodotti in breve tempo e a grandi distanze e analogamente di ricevere le materie prime rapidamente; in secondo luogo perché per costruire le ferrovie erano necessari l’acciaio e la ghisa, che venivano richiesti in grandi quantità alle industrie siderurgiche, le quali ebbero un notevole incremento di produzione. Altre due invenzioni contribuirono in questo periodo a far diventare il mondo sempre più piccolo: il telegrafo (1851) e il telefono (1876), con cui si poteva comunicare da una parte all’altra del globo dapprima con impulsi elettrici, poi con la voce.

Tutte le invenzioni sopracitate non rivoluzionarono solo il mondo economico e la vita quotidiana di ogni persona, ma ebbero anche altre conseguenze, come ad esempio l’estensione e l’unificazione del mercato. Quest’ultimo si ampliò enormemente grazie ai nuovi mezzi di trasporto e di comunicazione, che permisero a ogni città, paese o villaggio di partecipare intensamente al commercio mondiale e contribuirono alla creazione di un mercato globale.

Tra il 1850 e il 1870 la quantità di merci commerciate nel mondo si triplicò, espansione dovuta alla prevalenza, in questo periodo, di idee liberali le quali sostenevano che il commercio mondiale dovesse diventare totalmente libero e che le merci, quando attraversavano le frontiere degli Stati, non dovessero essere soggette a tasse doganali (dazi), così da arricchire le nazioni e migliorare la vita di tutti.

A mano a mano che si sviluppavano, anche le altre nazioni europee seguirono l’esempio inglese e abolirono i dazi doganali; per questo motivo il periodo che va dal 1850 al 1870 è detto “l’età d’oro del libero scambio”.

 

 

IL CAPITALISMO ORGANIZZATO: BANCHE, IMPRESE, STATO

 

Negli ultimi decenni del XIX sec. fa la sua comparsa il “capitalismo organizzato”. Scompare così il carattere anarchico e concorrenziale, individuato da Marx come una delle principali peculiarità del modo di produzione capitalistico durante l’età del “libero scambio”.

Negli anni tra il 1873 e l’inizio del Novecento il controllo dell’economia si concentrò in un numero sempre minore di imprese industriali e finanziarie; tra le cause di questo fenomeno vi furono in particolare l’esigenza di forme di controllo del mercato che rendessero meno violenta la concorrenza e che permettessero di frenare la caduta dei prezzi, e la grande crisi del 1873, che provocò il fallimento di molte piccole industrie.

La manifestazione più immediata ed evidente di questa trasformazione, fu la scomparsa del libero scambio e la tendenza al monopolio (controllo del mercato da parte di un’unica impresa) e, soprattutto, all’oligopolio (controllo del mercato da parte di un numero ristretto di imprese). Così, secondo quell’opera ormai nota di “selezione naturale”, che opera anche in ambito economico, le imprese più solide s’imposero, eliminando quelle più deboli. All’inizio degli anni ottanta, per esempio, negli Stati Uniti il 90 % del mercato di raffinazione del petrolio era sotto il controllo della Standard Oil, mentre i due terzi della produzione siderurgica era sotto il controllo dell’U.S. Steel. Analogamente in Germania case come la Bayer, assunsero il controllo del settore farmaceutico.

È indubbio che questo sviluppo di forme di monopolio e oligopolio fu anche voluto e perseguito accuratamente, dai settori di punta del capitalismo, che crearono a questo fine specifici strumenti giuridici come il trust negli Stati Uniti, che permetteva di legare tra loro diverse aziende, affidandole ad un unico gruppo dirigente, assicurandosi così il controllo di determinati settori.

Questa tendenza alla concentrazione del controllo sull’economia, si manifestò inoltre nei mutati rapporti tra imprese e banche e tra imprese e Borsa, la quale, dopo lo sviluppo delle società per azioni durante l’età del libero scambio, era divenuta una delle istituzioni chiave dell’economia capitalistica. Il grande fabbisogno di capitale, rendeva necessario per le imprese industriali, attingere fondi dal risparmio di massa. A questo fine servivano le emissioni di azioni, e servivano le banche, che canalizzavano in investimenti produttivi i risparmi raccolti nel complesso dalla società. La forte domanda di finanziamenti promosse lo sviluppo di un particolare tipo di banca, quella “mista”. Essa funzionava come banca commerciale, raccogliendo i depositi della massa del pubblico, e come banca d’affari, investendo nelle attività produttive delle aziende.

A questo punto, anche lo Stato, che con il liberalismo era stato estromesso dalle faccende economiche, intervenne pesantemente nell’economia (fatta eccezione che in Inghilterra). Vennero attuate politiche protezionistiche, vennero cioè aumentati in maniera esorbitante i dazi doganali per far diventare più care le merci estere e favorire quelle interne. Inoltre gli Stati europei (sempre Inghilterra esclusa) appoggiarono le industrie con commesse e appalti. Le commesse sono degli acquisti, che lo Stato opera presso privati, di prodotti che gli sono utili (navi, armi...); gli appalti invece sono concessioni che lo Stato dà alle industrie per la costruzione e la gestione di servizi e opere pubbliche (ferrovie, porti...).

 

 

LA RAZIONALIZZAZIONE PRODUTTIVA

 

Tra i processi di riorganizzazione industriale, il più importante è la cosiddetta “razionalizzazione produttiva”, la fondazione del lavoro organizzato nella grande fabbrica su basi “scientifiche”, cioè su una sistematica analisi dei tempi di lavoro e sulla formulazione di regole standardizzate. È il cosiddetto Taylorismo (dal nome di F.W. Taylor, che per primo formulò i principi dello scientific management). L’opera portata avanti da Taylor, mirata all’aumento della produttività, partiva da una attenta analisi dell’operaio ottocentesco, il quale, secondo lui riusciva a mantenere segrete le proprie potenzialità produttive, impedendo al padrone di amministrare al meglio la sua forza lavoro. L’ossessione di Taylor e dei suoi seguaci era quindi quella che gli operai, per l’innata pigrizia che è propria dell’uomo, non producessero in base alle loro possibilità. La razionalizzazione tayloristica del lavoro consisteva quindi nell’osservazione sistematica dei movimenti degli operai e nella rilevazione cronometrica con conseguente classificazione statistica dei tempi impiegati, al fine di giungere all’assegnazione di giuste mansioni e al “modo migliore” di lavorare. Fu possibile così non solo fissare un giusto salario per una giusta giornata lavorativa, ma anche predeterminare in termini astratti i tempi e i modi della lavorazione del prodotto prima ancora che questa fosse iniziata concretamente (pianificazione aziendale). La direzione d’impresa, in questo modo, poté anche intervenire sull’attività lavorativa dell’operaio e il lavoratore cessava di essere padrone del proprio mestiere, dipendendo dall’imprenditore anche per l’esecuzione del suo operato.

Taylor voleva con il suo metodo realizzare l’armonia ed il benessere generale attraverso l’aumento generalizzato della produttività (e quindi della ricchezza sociale) e la fissazione di criteri scientifici di ripartizione del reddito. Così non fu, anzi la reazione dei lavoratori e delle organizzazioni sindacali fu durissima e la resistenza all’applicazione dei metodi di organizzazione del lavoro durò per oltre un decennio. Nel 1893 però fu introdotta la produzione “a catena” con la conseguente “catena di montaggio”, sperimentata la prima volta negli Stati Uniti (industria automobilistica Ford).

 

 

IL PERMANERE DELLA “QUESTIONE SOCIALE”

 

Durante l’Ottocento l’industria assunse proporzioni sempre maggiori impegnando nelle fabbriche migliaia di operai. Essi finirono per costituire una nuova classe sociale (la moderna classe operaia) chiamata “proletariato” (coloro che dispongono di braccia per lavorare e una prole da sfamare), i quali, a differenza degli artigiani tradizionali, non possedevano propri strumenti di lavoro, ed erano praticamente privi di proprietà e generalmente tendevano a scambiare il proprio lavoro per un salario. Dall’altro lato vi erano invece i proprietari delle grandi fabbriche o i potenti banchieri, essi costituivano la borghesia (classe in continua ascesa).

Si venne ben presto a delineare una netta divisione tra queste due classi, che portò a veri e propri scontri. Infatti le condizioni di vita degli operai e delle loro famiglie non erano delle migliori: donne e bambini oltre ad essere sfruttati e a dover sostenere massacranti e ripetitivi ritmi di lavoro, conducevano una vita tremenda nelle periferie dei centri urbani, dove vivevano in mezzo alla malattia e alla sporcizia, poiché tutti ammassati in quartieri sovraffollati e malsani. La vita peggiore la si conduceva nei quartieri operai di Londra (descritti magistralmente da Charles Dickens nei suoi romanzi), dove il tasso di mortalità infantile era enormemente superiore a quello del resto d’Europa. E fu proprio in Inghilterra che la questione sociale ebbe più sfogo. Qui gli operai vennero man mano maturando una forte “coscienza di classe” (la scoperta di avere in comune bisogni, interessi, richieste e obbiettivi da raggiungere, nonché la forza che veniva dalla solidarietà e dalla consistenza numerica) che li portò alla rivendicazione dei propri diritti.

All’inizio dell’ Ottocento gia erano esplose violente forme di agitazioni e di moti operai che vanno sotto il nome di Luddismo (dal nome di Ned Lud che aveva infranto nel 1779 un telaio). Questo movimento, organizzato in società clandestine, si batteva per la riduzione degli orari di lavoro, per la rivendicazione del diritto di sciopero e per la costituzione di associazioni operaie. Sostenevano inoltre che le macchine, svolgendo il lavoro degli uomini, avrebbero provocato una crescente disoccupazione e per questo motivo praticavano un’azione di sabotaggio sistematico e di distruzione delle innovazioni. Agli inizi degli anni venti, visto il numero crescente di agitazioni operaie, si attuarono una serie di riforme volte a migliorare la condizione dei lavoratori: nel 1824 si riconosce loro il diritto ad unirsi in associazioni di lavoratori (nascono le Trade Unions = libere organizzazioni), nel 1833 una legge fissava l’orario di lavoro dei minorenni, nel 1834 venne varata una legge che assegnava precisi compiti di pubblica assistenza alle istituzioni locali. Contemporaneamente a queste riforme si venne sviluppando un altro movimento operaio che puntava a superare l’esclusione dei lavoratori dalla rappresentanza parlamentare. Infatti dopo la riforma elettorale del 1832 che aveva escluso la classe operaia dalla Camera dei Comuni, nacque a Londra nel 1836 l’Associazione dei lavoratori (Working men’s association) che nel 1838 pubblicò la Carta del popolo (il movimento, per questo motivo,  si chiamò poi Cartismo), con la quale i lavoratori pienamente consapevoli dei loro diritti rivendicavano elezioni annuali, il suffragio universale, l’abolizione del censo come criterio discriminatorio in politica, il voto segreto, un’indennità per i parlamentari in modo che anche chi non aveva le possibilità poteva esercitare il mandato. L’esclusione da ogni forma di collaborazione con la borghesia finì però per condannare il cartismo all’isolamento, così nella seconda metà degli anni quaranta il movimento cominciò a declinare.

Nel frattempo, però, l’accelerazione del processo di industrializzazione sul piano internazionale portò all’internazionalizzazione dei problemi del mondo operaio con la nascita dei vari partiti socialisti. Fu così che nel 1864, per iniziativa di Marx , sorse a Londra l’Associazione internazionale dei lavoratori, detta poi Prima Internazionale. Essa però fu destinata ad un misero fallimento a causa delle divisioni interne tra marxisti e anarchici. La dissoluzione della Prima Internazionale non segnò la scomparsa dei vari partiti socialisti ed operai. Ciò rese possibile nel 1889 la resurrezione a Parigi della Seconda Internazionale. I governi la combatterono come avevano combattuto la prima, ma furono sospinti sulla via di una legislazione sociale per venire incontro alle più sentite esigenze della classi operaie, quali la riduzione della giornata lavorativa ad otto ore e l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro.

Sebbene il movimento socialista fosse ideologicamente a favore della pace e della fratellanza tra lavoratori di ogni paese, il dissidio sorto nell’ambito dell’Internazionale indebolì gli sforzi volti a evitare una guerra in Europa. Quando, nel 1914, ebbe inizio la Prima guerra mondiale, gli interessi nazionali si dimostrarono molto più forti dei legami di classe tra lavoratori e parte dei socialisti sostennero la politica militare dei propri governi. Questa circostanza segnò la fine della Seconda internazionale, sebbene i tentativi di ricostituire l’unità del movimento continuassero fino al 1920.