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Psicoanalisi applicata alla Medicina, Pedagogia, Sociologia, Letteratura ed Arte

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Frenis Zero  Publisher

 

     Introduzione al libro: "Cura psichica e comunità terapeutica"

 

 

 

"Una esperienza che viene da lontano

   di Ugo Corino

 

 

 

 


Titolo: Cura psichica e comunità terapeutica

Autore: Ugo Corino, Marcel Sassolas

Casa editrice: Borla

Anno di pubblicazione: 2010

ISBN: 978-88-263-1787-8

Il volume affronta il tema della psicosi e del lavoro terapeutico con i «pazienti difficili» attraverso le molteplici gruppalità presenti nelle Strutture Residenziali di cura (Comunità Terapeutiche, Gruppi Appartamento, Residenze Guidate, ecc). Funzionamento mentale, équipe di lavoro e funzione terapeutica del quotidiano sono i presupposti della trattazione, dai quali prende le mosse la prima parte del libro. Questa prosegue esaminando la questione relativa agli spazi, ai luoghi e ai tempi della residenzialità, il tema delle regole e della cornice istituzionale, quello del rapporto con gli invianti, i problemi dell'inserimento, della situazione del paziente e del progetto terapeutico e, infine, gli aspetti riguardanti l'uso dei farmaci, la relazione e le dimissioni. Il lavoro di supervisione e di discussione dei casi all'interno delle équipe di cura viene invece trattato nella seconda e nella terza parte. In particolare, la sezione centrale, attraverso la presentazione di nove casi clinici discussi ed analizzati con altrettante équipe di Strutture Residenziali, consente al lettore di entrare nel vivo del lavoro clinico e di osservare il dispiegarsi delle dinamiche del gruppo, della patologia e, soprattutto, «i supervisori al lavoro». Conclude il libro una riflessione sui presupposti del lavoro di supervisione in psichiatria. Presentando tematiche dense e complesse in modo semplice e discorsivo, il volume si rivolge a tutti coloro che, a diverso titolo ed intensità, lavorano a contatto quotidiano con il disagio psichico grave, siano essi operatori, educatori, infermieri, assistenti sociali, psicologi o psichiatri.

 

            

 

   

 

Rivista "Frenis Zero" - ISSN: 2037-1853

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AA.VV., "Lo spazio  velato. Femminile e discorso psicoanalitico"                             a cura di G. Leo e L. Montani (Editors)

Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero

Collana: Confini della psicoanalisi

Anno/Year: 2012 

Writings by: A. Cusin, J. Kristeva, A. Loncan, S. Marino, B. Massimilla, L. Montani, A. Nunziante Cesaro, S. Parrello, M. Sommantico, G. Stanziano, L. Tarantini, A. Zurolo.

 

"The Voyage Out" by Virginia Woolf 

Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero

ISBN: 978-88-97479-01-7

Anno/Year: 2011 

Pages: 672

Prezzo/Price: € 25,00

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"Vite soffiate. I vinti della psicoanalisi" di Giuseppe Leo 

Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero

Preface: Alberto Angelini

ISBN: 978-88-903710-5-9

Anno/Year: 2011 (2nd Edition)

Prezzo/Price: € 18,00

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"Psicoanalisi e luoghi della negazione" a cura di A. Cusin e G. Leo (Editors)

Writings by: J. Altounian, S. Amati Sas, M. Avakian,  A. Cusin, N. Janigro, G. Leo, B.E. Litowitz, S. Resnik, A. Sabatini Scalmati, G. Schneider, M.  Šebek, F. Sironi, L. Tarantini.

Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero

ISBN: 978-88-903710-4-2

Anno/Year: 2011

Pages: 400

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"Lebensruckblick"

by Lou Andreas Salomé

(book in German)

Author:Lou Andreas Salomé

Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero 

ISBN: 978-88-97479-00-0

Anno/Year: 2011

Pages: 267

Prezzo/Price: € 19,00

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"Psicologia   dell'antisemitismo" di Imre Hermann

Author:Imre Hermann

Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero 

ISBN: 978-88-903710-3-5

Anno/Year: 2011

Pages: 158

Prezzo/Price: € 18,00

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"Id-entità mediterranee. Psicoanalisi e luoghi della memoria" a cura di Giuseppe Leo (editor)

Writings by: J. Altounian, S. Amati Sas, M. Avakian, W. Bohleber, M. Breccia, A. Coen, A. Cusin, G. Dana, J. Deutsch, S. Fizzarotti Selvaggi, Y. Gampel, H. Halberstadt-Freud, N. Janigro, R. Kaës, G. Leo, M. Maisetti, F. Mazzei, M. Ritter, C. Trono, S. Varvin e H.-J. Wirth

Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero

ISBN: 978-88-903710-2-8

Anno/Year: 2010

Pages: 520

Prezzo/Price: € 30,00

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OTHER BOOKS

"La Psicoanalisi e i suoi confini" edited by Giuseppe Leo

Writings by: J. Altounian, P. Fonagy, G.O. Gabbard, J.S. Grotstein, R.D. Hinshelwood, J.P. Jiménez, O.F. Kernberg, S. Resnik

Editore/Publisher: Astrolabio Ubaldini

ISBN: 978-88-340155-7-5

Anno/Year: 2009

Pages: 224

Prezzo/Price: € 20,00

 

"La Psicoanalisi. Intrecci Paesaggi Confini" 

Edited by S. Fizzarotti Selvaggi, G.Leo.

Writings by: Salomon Resnik, Mauro Mancia, Andreas Giannakoulas, Mario Rossi Monti, Santa Fizzarotti Selvaggi, Giuseppe Leo.

Publisher: Schena Editore

ISBN 88-8229-567-2

Price: € 15,00

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Qualche presupposto

Iniziamo con alcuni fotogrammi sulla realtà psichiatrica italiana degli ultimi trent’anni che ci ha visti implicati in differenti contesti e ruoli. Si tratta ovviamente di un richiamo alla memoria e non di una disamina.

- Il manicomio, le lotte antiistituzionali, le prime esperienze con i pazienti gravi: entusiasmo e ingenuità di tempi lontani.

- Il territorio e le nascenti Comunità Terapeutiche (fondate, almeno in Italia, sull’esigenza della riabilitazione dei pazienti ex O.P.) attraversate da oscillazioni, spesso ondivaghe, tra derive sociologiche o psicoanalitiche.

-  Un lungo lavoro con “pazienti i difficili” non più imprigionati in istituzioni totali.

- L’emersione di nuove forme di cronicità, nuove “seclusioni”, dove il mentale ed il sociale si intrecciano in forme variegate, meno rigide anche se non per questo, meno drammatiche.

- La crisi attuale della psichiatria territoriale, oggi sempre più coinvolta in un attivismo a volte parossistico, dove alla molteplicità dei luoghi di cura (Ambulatori, Centri Diurni, Spdc, Day Hospital, Centri Crisi, Comunità Terapeutiche, Comunità Alloggio, Gruppi Appartamento, ecc.), spesso non corrisponde a una gestione degli stessi, dei loro confini e delle loro funzioni finalizzate alla “cura del mentale”. Le pratiche si sono articolate ed arricchite col pericolo di inscrivere il paziente in un circuito di cura infinito.

Il rischio sempre presente è quello di trasformare le  strutture della psichiatria territoriale, da funzioni di cura a nuovi luoghi deposito o di mera risocializzazione  per produrre, con il contributo non secondario dei farmaci, passivizzazioni comportamentali apparentemente adattative.

Le ragioni di questo stallo, od involuzione del lavoro in psichiatria, sono molteplici.

Le più macroscopiche derivano sia dalla carenza di fondi e personale[1], sia dalla medicalizzazione sempre più marcata della relazione operatore paziente. Tra quelle più sottili, ma forse ancor più rilevanti, lo “stato d’assedio” in cui i Servizi di Salute Mentale sono “caduti” nel momento in cui hanno progressivamente e in modo esclusivo assunto la delega della cura da parte del sociale. In parallelo assistiamo al riacutizzarsi della storica frattura tra personale laureato (psichiatri, psicologi) e operatori (educatori, infermieri, Oss, Adest, ecc).

In un bell’articolo F. Olivetti Manoukian[2] evidenzia come “Le pressioni cui oggi sono sottoposti i Servizi hanno il volto minaccioso dell'assedio. Di fronte all'aumento delle richieste di aiuto oggi non basta chiedere agli operatori di «fare di più». Occorre mettere in discussione la delega esclusiva e onnipotente che la società ha consegnato loro e che i servizi hanno nel corso della loro evoluzione assunto. I servizi non possono fronteggiare da soli il disagio, è la sua complessità che oggi chiede che ci si metta tra più attori a sostenerne il carico. Un'ipotesi, questa, inscritta già nella genesi stessa dei servizi.”

Se per un verso la pressione del sociale verso i tecnici e la tecnica, si fa via via più forte a favore di soluzioni spesso contenitive, seppur “di buon trattamento” (un po’ come nella scuola dove i genitori sembrano più interessati alla mensa o alle attività integrative che ai processi di apprendimento e socializzazione dei loro figli), dall’altro le competenze tecniche degli operatori (in particolare del personale laureato), poco rinforzate e selezionate dal sociale, sembrano palesarsi sempre meno adeguate proprio all’”uso” del sociale in senso clinico.

“Purtroppo prevale nettamente un’antropologia delle tante psichiatrie ognuna organizzata con i suoi libri, le sue cattedre, i suoi riti, le sue appartenenze, le sue istituzioni sociologiche, le sue economie monetarie. o seguo un altro modello .. io seguo una psichiatria differente .. E’ questo il ritornello che tanti colleghi, giovani o non più giovani, mi ripetono sconcertati o scandalizzati quando provo a condividere questi interrogativi di base nello sforzo di ripensare le radici dei nostri saperi e dei nostri operare. Come sappiamo è nel linguaggio che usiamo che si traduce il nostro pensiero. Siamo quindi guidati dal pensiero delle tante psichiatrie e non dal pensiero dell’unicità irripetibile del singolo paziente. Per altro, come professionisti di area sanitaria, il nostro vincolo è il paziente e non il modello”[3]

D’altra parte lavorare con le patologie gravi richiede risorse (luoghi, un gruppo di curanti), competenze (una formazione specifica) e “protezioni” non indifferenti. La “contaminazione” psichica derivante da relazioni intensive e prolungate nel tempo presuppone da parte dei singoli, dell’equipe curante e dei loro responsabili, un continuo sforzo ed una elevata attenzione.

Come ben sappiamo nel contesto di cura psichica i fenomeni di coinvolgimento emotivo (sia positivo, sia negativo) non solo non sono eliminabili, ma costituiscono l’elemento centrale del lavoro in psichiatria. È dai molteplici processi relazionali che i pazienti instaurano tra loro e con l’equipe curante e dalle risonanze che questi inducono su di noi, che è possibile ipotizzare dove sia “distribuito il mentale” (o il campo psichico) del paziente. Ne consegue la necessità di uno sguardo binoculare, il primo nei riguardi del paziente, della sua situazione e della sua storia, il secondo nei confronti del nostro modo di “stare con lui”, onde mantenere sotto costante osservazione la possibilità sempre presente dell’attivazione di difese rigide e scissioni radicali, che hanno costituito il presupposto psicologico e sociale oltre che politico del manicomio.

Non ci si può non “contaminare”, anzi i processi di diffrazione dei transfert e controtransfert (co-transfert) sono alla base di un lavoro di psicoterapia comunitaria. Il problema diviene allora “l’uso” degli elementi che il paziente trasferisce sulle persone che lo circondano, altri pazienti o operatori, e sulla struttura che li accoglie o su parte di essa. Formazione, lavoro di equipe, supervisione[4] oltre ad un grosso lavoro sulla costruzione e gestione dei contenitori intesi come luoghi, tempi e regole[5], sono elementi fondanti e fondamentali di questo “uso”.

Come accennato, il libro trae origine da una riflessione sulla residenzialità in psichiatria. Le esperienze in materia sono andate consolidandosi, a partire da una vecchia tesi di laurea e nel tempo arricchendosi di numerosi riferimenti: dalle pionieristiche comunità (molto differenti tra loro) di M. Jones, di T. Main od ancora di Laing e Cooper a quelle di Woodbury prima in America e poi in Svizzera, di Racamier in Francia senza tralasciare quelle realizzate in Italia.

Due sono i riferimenti storici principali per un discorso sulle residenzialità in psichiatria: le Comunità Inglesi collegate con il Tavistock di Londra e successivamente, in modo preminente, l’esperienza francese del gruppo della Velotte di Besançons e soprattutto di Santé Mentale et Communité (SMC) di Villeurbanne – Lione, di cui Marcel Sassolas è stato per molti anni responsabile e preciso punto di orientamento.

Le comunanze e le assonanze tra le esperienze inglesi e francesi sono parecchie così come le differenze, a cominciare dalle matrici originarie su cui esse si sono fondate e sviluppate. Sicuramente le accomuna la grande attenzione ai “contenitori” istituzionali,  ai “meccanismi” psichici attivati nella relazione con i pazienti e la definizione-tutela dei confini dei molteplici set-setting. Al contrario la coloritura nella gestione delle regole, del “fare con” e delle modalità di restituzione ai pazienti di quanto avviene nella relazione quotidiana, dall’utilizzo dell’interpretazione classica all’esercizio delle azioni parlanti, non sono che alcune delle differenze più evidenti[6].

In Italia la nascita delle Comunità trae origine sul finire degli anni sessanta[7] dal lavoro anti-istituzionale legato al “superamento”[8] dell’Ospedale Psichiatrico.

L’esperienza Italiana si presenta come variegata, forse anche difficilmente definibile rispetto a quelle inglesi e francesi, ma non per questo meno interessante e ricca di spunti[9]. Essa nasce dalla trasformazione degli Ospedali Psichiatrici prima attraverso la mutazione dei vecchi reparti in comunità interne e di costituzione poi, di luoghi concepiti appositamente: le C.T. nel territorio.

Occorre al proposito ricordare come sottolinea F. Fasolo che: “Questa precisazione storico-metodologica è fondamentale: il filone tecnico-progettuale originario della comunità terapeutica è di matrice ospedaliera, non di matrice territoriale; ovvero, le comunità terapeutiche non nascono dalla comunità locale, ma dalla comunità ospedaliera.”[10] È quindi comprensibile il loro consolidarsi su modelli e pratiche di risocializzazione e reinserimento sociale rivolte a pazienti fortemente istituzionalizzati e regrediti.

Gli elementi distintivi dell’orientamento nel nostro Paese sono stati l’attenzione, oltre alle competenze sociali, alle dimensioni psicopedagogiche e ricostruttive di una relazionalità di base; certo non sono mancate realtà dove gli aspetti psicodinamici hanno avuto peso e significatività, ma sono rimaste minoriatarie nel panorama nazionale[11]. È pur vero che anche in Inghilterra e in Francia le esperienze a cui ci siamo riferiti, sebbene rilevanti e molto conosciute, non sono così estese come appaiono ad occhi esterofili.

Ritornando alla situazione italiana, al periodo sopraccitato è seguita una seconda fase che ha interessato l’intero arco degli anni Novanta. L’inserimento nelle C.T. di pazienti ai primi ricoveri -mancanti quindi delle caratteristiche di cronicità istituzionale propria dei cosiddetti “ex OP” o della ghettizzazione derivante dalla realtà manicomiale- ha posto nuovi problemi e un ripensamento circa la dimensione della residenzialità. È questo un periodo della storia delle istituzioni comunitarie dove assistiamo alla compresenza di pazienti “cronici” con pazienti “non stabilizzati”. Fase in cui si cominciano a differenziare anche normativamente le tipologie delle strutture residenziali: comunità terapeutiche ad alta protezione, socioassistenziali, comunità alloggio, gruppi appartamento, convivenze guidate[12].

La situazione attuale ancora instabile sembra proporre nuovi assetti organizzativi e clinici riferibili ai “nuovi pazienti” e all’emergere di impostazioni di cura finalizzate al tipo di disturbo psichico: borderline, psicosi, doppia diagnosi, anoressia-bulimia ecc. Si tratta in fondo di una sorta di specializzazione sulla falsa riga della medicina ospedalocentrica.

Esaurita la spinta propulsiva della legge 180, la cui applicazione si è rivelata forse più ideologica che clinico-metodologica, sembra farsi sempre più pressante la necessità di ripensare il lavoro clinico in psichiatria, col pericolo della riemersione di vecchie modalità seppur presentate in forme nuove e seducenti.

Quattro ci sembrano i macro-nodi sui quali focalizzare l’attenzione:

-   Le dimensioni accuditivo-protettive nei confronti del paziente, accompagnate da relative infantilizzazioni. Questo aspetto comporta spesso una azione di convincimento del paziente da parte dell’equipe sotto forma di seduzioni, promesse o ricatti – più o meno espliciti - nell’indirizzarlo alla residenzialità. Tali modalità sono di norma mascherate attraverso una razionalizzazione o giustificazione dell’obbligo della cura da parte delle strutture pubbliche.

-          Il rapporto tra invianti e residenzialità. Tale questione riguarda l’intera relazione tra i curanti, non solo rispetto alle C.T. Il rapporto tra le parti contiene troppi impliciti e spesso diviene collusivonel senso di non permettere contratti di cura a partire dalle reali posizioni degli attori implicati. Questi sono gli invianti istituzionali (dal direttore del DSM al responsabile amministrativo sino al Direttore Generale), i responsabili delle differenti strutture coinvolte nella gestione del paziente (ambulatori, centri diurni, Spdc ecc.), le strutture riceventi anch’esse con i diversi livelli (dal responsabile della cooperativa o della struttura privata, all’equipe curante sino al gruppo dei pazienti con cui condividerà una parte rilevante della quotidianità). Infine, (buon ultimo!) i pazienti e i loro familiari con la loro contrattualità possibile, nell’essere almeno co-artefici del progetto terapeutico. Rimane da chiarire ad un primo livello intorno a chi ed in che modo siano distribuite le responsabilità in gioco e ad un secondo livello chi siano e come si interfaccino coloro che hanno nella mente il paziente, la sua storia famigliare e clinica.

-          Le residenzialità come luoghi di progetti “a posteriori”. Troppo spesso accade che la richiesta di un inserimento in una comunità sia determinato o da un’urgenza o dal fallimento di una serie di interventi precedenti, siano essi riferibili ad altre comunità od ancora alla gestione ambulatoriale del caso. Frequente è il rischio che l’idea della omunità non sia frutto di un progetto terapeutico dell’inviante ma solo una soluzione operativa. Occorrerebbe che non solo l’urgenza faccia emergere nella mente del terapeuta e del paziente la proposta di una terapia attraverso la dimensione residenziale.

L’ipotesi di inserimento in comunità e il tempo necessario per renderla pensabile, sia al paziente sia al gruppo inviante, possono avere un’alta valenza terapeutica a prescindere dalla decisione che successivamente si concretizzerà. In questo caso il paziente e gli invianti giungeranno alla comunità con un progetto pre-pensato e di conseguenza non si tratterà che di concordare con i riceventi le congruenze, le possibilità, i tempi per il lavoro terapeutico consistente in una nuova forma del vivere nel quotidiano.

È paradossale allora che l’assenza di questa fase si trasformi in una sorta di cortocircuito in cui in cui l’unica attenzione è focalizzata al progetto che la comunità deve sviluppare per quel paziente[13].

-          La specificità del lavoro inerente la salute “mentale”. Essa comporta la centralità del lavoro sul mentale, la comprensione del “luogo in cui il paziente è”, ovvero a quali configurazioni relazionali e campi familiari e sociali la sua psiche è ancorata e posizionata. Prospettiva che condividiamo con molti autori tra cui C. Pontati quando precisa: “Ritengo che la nostra epistemologia debba ancorarsi fortemente alla necessità di comprendere i codici di senso del paziente e del suo contesto familiare, comunitario e storico. Quindi non il paziente deve ‘entrare’ nel nostro campo mentale, nel nostro territorio modellistico, ma noi dobbiamo ‘cercare’ il paziente nel suo territorio, nelle sue appartenenze, nelle vicissitudini della sua storia e del senso che la storia ha rappresentato per lui e per le trame delle sue appartenenze”[14] Questo livello di conoscenza, ben diverso da quello pur necessario del DSM IV, a nostro parere non esclude, anzi utilizza, sia gli aspetti del “fare con”, sia esperienze psicopedagogiche che socializzanti, purché all’interno di una prospettiva e di un intenzionamento che mantengano la centralità del “mentale”[15].

Ecco allora che questo libro costituisce una proposta di ri-“lettura” e di orientamento delle pratiche in psichiatria.

A nostro avviso, le conseguenze di questa ri-“lettura” sono molteplici, a partire da una riflessione dirompente che va dai luoghi (psichici e fattuali) sino alla gestione -con quale presunzione di terapeuticità?- del quotidiano. Emergono questioni inerenti sia i contenuti sia, soprattutto, i “contenitori” (i set e setting) per il lavoro di cura, sugli spazi-tempi di un’opera di connessione tra le quotidianità del paziente, la sua storia personale e istituzionale ed il contesto sociale attuale della sua vita, sulla possibilità di essere e in che modo promotori del suo sviluppo.

Se però quello che avviene in uno spazio-tempo, ad esempio mentre si cucina con il paziente, non viene pensato, osservato ed intenzionato dagli stessi operatori rispetto ai punti sopra evidenziati e poi, in altri luoghi e tempi, recuperato (ancora in primis attraverso gli operatori) ecco che “qui casca l’asino” e quello che poteva essere un lavoro sul mentale ricade in una psichiatria dell’“intrattenimento”[16].

 

I prodromi del libro

Molti anni fa il collega ed amico M. Perini del Nodo Group ed io, responsabile del Laboratorio di GruppoAnalisi di Torino, organizzammo una prima esperienza di confronto sulla gestione dei casi clinici tra alcune equipe provenienti da differenti organizzazioni di cura.

La sensazione che condividevamo era quella di una certa ristrettezza nelle esperienze di discussione casi in gruppi appartenenti ad una stessa organizzazione.

Seppur fondamentale e basica, la supervisione di una singola equipe, o di un gruppo di lavoro, ci pareva per altri versi limitata.

Le nostre discussioni di quel periodo evidenziavano il rischio di un’autoreferenzialità dei gruppi, una possibilità di chiusura in se stessi. Ci sembrava, sull’onda di alcune nostre pratiche, che la curiosità tra gruppi che operavano in campi simili fosse poca e bloccata da elementi di consuetudine e di stereotipia, genesi e conseguenza di una scarsa conoscenza reciproca.

Le esperienze a cui facevamo riferimento erano le Comunità Terapeutiche, le Comunità Alloggio, i Gruppi Appartamento, gli Alloggi Supportati nonché i Centri diurni, nei quali la residenzialità è lo strumento elettivo dell’assetto di cura.

Era proprio quest’ultimo elemento, la residenzialità,  tramutata in un “ognuno a casa sua”, ad indurre il rischio di una certa autarchia delle singole esperienze, peraltro rivelatasi nel tempo abbastanza speculare alla cultura sociale odierna di isolamento e parcellizzazione.

In questo quadro, almeno per me, si innestava il desiderio di facilitare il costituirsi di una rete tra operatori che, pur implicati in contesti differenti, si trovavano a lavorare in situazioni “dure” dove la quotidianità e le patologie psichiatriche gravi sono l’elemento accomunante.

Coglievamo, seppure in modo “grezzo”, i prodromi di una crisi della “nuova” psichiatria territoriale che nel tempo si è manifestata in modo sempre più evidente.

Ma questo è un tema a cui abbiamo già fatto cenno.

Da queste premesse prese avvio l’idea di proporre e realizzare una serie di incontri tra alcune Comunità inserite nell’area della provincia di Torino.

Vi aderirono diversi gruppi per un totale di 4 incontri di una mattinata. Ogni incontro, ospit a turno una delle Comunità coinvolte, si svolgeva attraverso una breve relazione introduttiva su un tema attinente la vita comunitaria e si concludeva con la presentazione-discussione di un caso clinico.

L’iniziativa, che si avvalse tra l’altro del contributo di R. Hinshelwood[17], fu interessante, per molti versi stimolante e probabilmente di una certa utilità, ma lasciò, almeno in me, una sensazione di risultato parziale ed incompleto.

L’integrazione e lo scambio tra i diversi gruppi rimase sostanzialmente a livello superficiale e formale, le strutture comunitarie parvero più preoccupate di evidenziare le loro caratteristiche positive, per altro rilevanti, che non le “lucie le ombre” del lavoro residenziale con pazienti gravi. Gli stessi casi presentati finivano per esprimere una posizione intermedia tra la ricerca di comprensione e l’esplorazione dei nodi istituzionali del caso clinico e un comprensibile bisogno di non esporsi oltre misura di fronte a colleghi appartenenti ad organizzazioni “amiche” ma anche concorrenti.

L’esperienza, vista con gli occhi di oggi è maggiormente comprensibile: peccammo di ingenuità e di aspettative troppo elevate.

Facemmo anche noi un errore di presa in carico: mancò la capacità di creare una “base sicura”. Il medesimo contenitore poteva solo funzionare per accostamento, e così fu; la pressione delle singole appartenenze rese gli stessi partecipanti (soprattutto il personale non laureato: educatori, infermieri, ecc.) in gran parte bloccati. Se vogliamo continuare questo gioco di simmetria rispetto alle dimensioni di intervento terapeutico, possiamo dire che i transfert laterali o, meglio ancora, i campi mentali delle singole famiglie lavorative, si rivelarono non trattabili.

In altri termini, come peraltro accade sempre più di frequente nel mondo “psi”, le discussioni rimasero parzialmente accademiche, anche se sicuramente interessanti, sul versante di quella che possiamo chiamare “anatomia psichiatrica” od ancora disamina manualistica della clinica.

Il conseguente livello difensivo di astrazione delle discussioni produe una difficoltà negli operatori meno “colti”, ad autorizzarsi a mettere in campo l propri competenz, peraltro portatori di una grande conoscenza del paziente

 

Nel frattempo il mio rapporto con Marcel Sassolas e l’esperienza di Santé Mentale et Communautés di Villeurbanne (Lyon) si andava vieppiù approfondendo: iniziammo una collaborazione attraverso supervisioni congiunte presso una Comunità Terapeutica in una cittadina dell’hinterland torinese[18], alcuni convegni e seminari [19], oltre a scambi e partecipazioni ad attività in Villeurbanne.

Fu così che a distanza di anni quella prima esperienza lasciata in sospeso, che nel frattempo aveva continuato a “lavorare” dentro di me, fu ripresa dal Laboratorio di GruppoAnalisi.

 

Un modello e un metodo per un confronto tra gruppi.

Come gruppo professionale dell’Associazione realizzammo un lavoro di elaborazione, tentando di capire cosa non aveva funzionato nell’esperienza precedente.

Individuammo quattro punti come essenziali per una nuova e diversa esperienza:

a)      La necessità di un luogo terzo, ciò un luogo esterno, dove la presenza delle singole istituzioni fosse evidente ma meno vincolante. La scelta operata in precedenza di rotazione nei diversi luoghi di cura aveva ostacolato la costituzione di un gruppo in cui le appartenenze organizzative potessero rimanere sullo sfondo, in modo da facilitare l’individuazione ed il riconoscimento dei punti comuni più che le singole differenze e i relativi narcisismi.

b)      Una partecipazione spontanea, per gruppi o sottogruppi di lavoro, anche incentivando dal punto di vista economico adesioni di più persone provenienti dalla stessa struttura. L’obbiettivo era quello di comporre attraverso 5-6 equipe, un gruppo (mediano) di una trentina di partecipanti. 

c)      L’importanza di avviare le singole giornate attraverso un lavoro per sottogruppi disomogenei per provenienza, aspetto questo che caratterizza molte delle attività interne ed esterne della nostra Associazione Professionale (Laboratorio di GruppoAnalisi).

d)     Un tempo più dilatato per ogni incontro (una giornata 9,00-17,00) e un numero maggiore di incontri (6 incontri, intervallati di 1-1,5 mesi l’uno dall’altro).

Il modello e l’articolazione individuata prevedeva una breve introduzione al tema della giornata, dove si ponevano una serie di questioni abbozzate: pensieri ed interrogativi molto sintetici ed intenzionalmente proposti in un linguaggio piano ed ancorato alla quotidianità. (15 min. circa)

Si passava poi ad un lavoro in sottogruppi (stabili per tutti gli incontri) condotti da due colleghi, ognuno con un recorder e con la presenza dei due supervisori in veste di osservatori partecipanti che si alternavano di volta in volta nei due sottogruppi[20]. Il tempo medio di lavoro dei gruppi era di circa 2 ore.

Nell’ultima parte della mattinata, della durata di un’ora circa, i due Supervisori a partire da una traccia predisposta e sulla base degli stimoli raccolti nei gruppi esponevano in modo interattivo una serie di considerazioni e di punti di vista teorico-pratici.

Il materiale di queste considerazioni, preso come spunto e profondamente rielaborato va a comporre la parte prima di questo libro.

Il pomeriggio era dedicato alla presentazione di un caso clinico da parte di un gruppetto di partecipanti.

Il nostro orientamento e i punti di vista sul funzionamento del gruppo di discussione casi verrà precisata e chiarita nella seconda parte di questo testo, in cui sono altresì riportati alcuni dei casi presentati sia in quella occasione sia in altre.

 

 

 



[1] Uno degli esempi più eclatanti in questo senso è l’uso e l’abuso in alcuni Servizi dei tirocinanti di psicologia o di specialità, od ancora l’utilizzo di psicologi dove sono previste figure educative.

[2] F. Manokian Olivetti, Quanto è sociale il lavoro nei Servizi? In: Animazione Sociale, n. 10, ottobre 2004,  pp.31-62

[3] Pontati C., Persone e gruppi: il lavoro ambulatoriale nella psichiatria pubblica, in Gruppi, vol. IV, n 3, settembre-dicembre 2002.

[4] Useremo in modo indifferenziato il termine supervisione; gruppo di discussione casi; co-visone, per facilità espressiva. La puntualizzazione degli stessi e il nostro utilizzo verrà precisato nella terza parte. (cap 3-1)

[5] Racamier P.C., L’esprit des soin. Le cadre, Les Editions du Collège, Paris 2001

[6] Cfr. Ferruta A., Foresti G., Pedriali E., Vigorelli M. (a cura), La comunità terapeutica tra mito e realtà, R. Cortina, Milano, 1998

[7] Se si escludono quelle brevi ma significative di Fabrizio Napolitani a Roma e di Diego Napolitani a Milano a metà degli anni 60. Cfr. Cuomo G., “Fabrizio Napolitani – un profilo”, in Rivista Italiana di gruppoanalisi, XI, 1, giugno, Nuova serie, 19, 1996; Lo Piccolo C., Colonna Napolitani B., Gruppoanalisi e comunità terapeutiche, in Di Maria F., Lo Verso G. (a cura), La psicodinamica dei gruppi. Teorie e tecniche, R. Cortina, Milano, 1995. U. Corino, G. Briante; “Funzione e limite dell’intervento intra ed extra-ospedaliero del gruppo di volontari dal 1968 ad oggi”; in: Atti del Terzo incontro del Secondo Seminario su Psichiatria Comunitaria e Socioterapia - Torino 20-21 novembre 1971.

[8] “Superamento” riferibile ad una trasformazione rilevante nelle strutture e nelle organizzazioni di cura, non sempre accompagnata da un reale cambiamento  nei metodi e nella cultura.

[9]  Basaglia F., Che cos’è la psichiatria? Amministrazione Provinciale di Parma,1967 (riedizione Baldini e Castaldi, Milano, 1997) ; Basaglia F., L’istituzione negata, Einaudi, Torino, 1968; Balduzzi E., L’albero della cuccagna 1964-1978 Gli anni della psichiatria italiana, Edizioni Stella, Rovereto-Trento, 2006

[10] Fasolo F., Gruppi che curano & gruppi che guariscono, La Garangola, Padova, 2002.

[11] Cfr Scotti F., Brutti C., Quale psichiatria?, Borla, Roma, 1980, 2 volumi.

[12] le dizioni variano da regione a regione ma ciò che è interessante rilevare è che comincia un processo di differenziazione nelle finalità dei diversi luoghi, almeno sul piano formale

[13] L’analogia con le situazioni SPDC o del vecchio reparto osservazioni dell’ex OP sono evidenti. Il paradosso è che le comunità si danno un progetto di utilizzo del spdc, rendendo pensabile il ricovero nella mente e nel progetto del paziente .

[14] Pontalti C., Saper essere o saper fare? In Fasolo F., Cappellari L. (a cura), Psichiatria di Territorio- Almanacco 1999, La Garangola, Padova.

[15] Per il lavoro sul mentale intendiamo il discorso sulla psiche del paziente intesa in senso relazionale esteso, vale a dire sia la psiche come il prodotto di un intenzionamento gruppale, sia come campo esperienziale multipersonale e sociale.

[16] Saraceno B., La fine dell’intrattenimento. Manuale di riabilitazione psichiatrica, Etas Libri, Milano, 1995.

[17] Hinschelwood R.D., Uno spazio per la supervisione, in Corulli M. (a cura) Terapeutico e antiterapeutico. Che cosa accade nelle comunità terapeutiche?, Boringhieri, Torino, 1997.

[18]  C.T. L’Arca di Volpiano (To)

[19] Le  Residenzialità Psichiatriche a Confronto: Prassi Modelli metodi tra fare e pensare” - Torino 3 giugno 2004.

[20]  Presentazione iniziale: U. Corino; conduzione gruppi M. Sorce e R. Tomasetta; recorder M.R. Bovero, E. Formasier.

  

 

  

  

  

  

  

  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 


 

 

 

 
 
 
 
   

 

 

 

 

 

 

 

 

   

 

 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   
 
 

 

   
   
 

 

   
   
   
 

 

   
   
   
   
   
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
   
 

 

 

 

 

 

 

 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

   

 

 

 

 

 

Responsabile Editoriale : Giuseppe Leo

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