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AA.VV., "Lo
spazio velato. Femminile e discorso
psicoanalitico"
a cura di G. Leo e L. Montani (Editors)
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
Collana: Confini della psicoanalisi
Anno/Year: 2012
Writings by: A.
Cusin, J. Kristeva, A. Loncan, S. Marino, B.
Massimilla, L. Montani, A. Nunziante Cesaro, S.
Parrello, M. Sommantico, G. Stanziano, L.
Tarantini, A. Zurolo.
"The Voyage Out" by Virginia
Woolf
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
ISBN: 978-88-97479-01-7
Anno/Year: 2011
Pages: 672
Prezzo/Price: € 25,00
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"Vite soffiate. I vinti della
psicoanalisi" di Giuseppe Leo
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
Preface: Alberto Angelini
ISBN: 978-88-903710-5-9
Anno/Year: 2011 (2nd Edition)
Prezzo/Price: € 18,00
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"Psicoanalisi e luoghi della negazione"
a cura di A. Cusin e G. Leo (Editors)
Writings by: J.
Altounian, S. Amati Sas, M. Avakian, A. Cusin, N. Janigro, G. Leo,
B.E. Litowitz, S. Resnik, A. Sabatini Scalmati, G. Schneider, M. Šebek,
F. Sironi, L. Tarantini.
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
ISBN: 978-88-903710-4-2
Anno/Year: 2011
Pages: 400
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"Lebensruckblick"
by Lou Andreas Salomé
(book in German)
Author:Lou Andreas Salomé
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
ISBN: 978-88-97479-00-0
Anno/Year: 2011
Pages: 267
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Author:Imre Hermann
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
ISBN: 978-88-903710-3-5
Anno/Year: 2011
Pages: 158
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"Id-entità mediterranee.
Psicoanalisi e luoghi della memoria" a cura di Giuseppe Leo
(editor)
Writings by: J.
Altounian, S. Amati Sas, M. Avakian, W. Bohleber, M. Breccia, A.
Coen, A. Cusin, G. Dana, J. Deutsch, S. Fizzarotti Selvaggi, Y.
Gampel, H. Halberstadt-Freud, N. Janigro, R. Kaës, G. Leo, M.
Maisetti, F. Mazzei, M. Ritter, C. Trono, S. Varvin e H.-J. Wirth
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
ISBN: 978-88-903710-2-8
Anno/Year: 2010
Pages: 520
Prezzo/Price: € 30,00
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"La Psicoanalisi e i suoi
confini" edited by Giuseppe Leo
Writings by: J.
Altounian, P. Fonagy, G.O. Gabbard, J.S. Grotstein, R.D.
Hinshelwood, J.P. Jiménez, O.F. Kernberg, S. Resnik
Editore/Publisher: Astrolabio Ubaldini
ISBN: 978-88-340155-7-5
Anno/Year: 2009
Pages: 224
Prezzo/Price: € 20,00
"La Psicoanalisi. Intrecci Paesaggi
Confini"
Edited by S. Fizzarotti Selvaggi, G.Leo.
Writings by: Salomon Resnik, Mauro Mancia, Andreas Giannakoulas,
Mario Rossi Monti, Santa Fizzarotti Selvaggi, Giuseppe Leo.
Publisher: Schena Editore
ISBN 88-8229-567-2
Price: € 15,00
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Qualche
presupposto
Iniziamo
con alcuni fotogrammi sulla realtà psichiatrica italiana degli ultimi
trent’anni che ci ha visti implicati in differenti contesti e ruoli.
Si tratta ovviamente di un richiamo alla memoria e non di una
disamina.
-
Il manicomio, le lotte antiistituzionali, le prime esperienze con i
pazienti gravi: entusiasmo e ingenuità di tempi lontani.
-
Il territorio e le nascenti Comunità Terapeutiche (fondate, almeno in
Italia, sull’esigenza della riabilitazione dei pazienti ex O.P.)
attraversate da oscillazioni, spesso ondivaghe, tra derive
sociologiche o psicoanalitiche.
-
Un lungo lavoro con “pazienti i difficili” non più
imprigionati in istituzioni totali.
-
L’emersione di nuove forme di cronicità, nuove “seclusioni”,
dove il mentale ed il sociale si intrecciano in forme variegate, meno
rigide anche se non per questo, meno drammatiche.
-
La crisi attuale della psichiatria territoriale, oggi sempre più
coinvolta in un attivismo a volte parossistico, dove alla molteplicità
dei luoghi di cura (Ambulatori, Centri Diurni, Spdc, Day Hospital,
Centri Crisi, Comunità Terapeutiche, Comunità Alloggio, Gruppi
Appartamento, ecc.), spesso non corrisponde a una gestione degli
stessi, dei loro confini e delle loro funzioni finalizzate alla
“cura del mentale”. Le pratiche si sono articolate ed arricchite
col pericolo di inscrivere il paziente in un circuito di cura
infinito.
Il
rischio sempre presente è quello di trasformare le
strutture della psichiatria territoriale, da funzioni di cura a
nuovi luoghi deposito o di mera risocializzazione
per produrre, con il contributo non secondario dei farmaci,
passivizzazioni comportamentali apparentemente adattative.
Le
ragioni di questo stallo, od involuzione del lavoro in psichiatria,
sono molteplici.
Le
più macroscopiche derivano sia dalla carenza di fondi e personale,
sia dalla medicalizzazione sempre più marcata della relazione
operatore paziente. Tra quelle più sottili, ma forse ancor più
rilevanti, lo “stato d’assedio” in cui i Servizi di Salute
Mentale sono “caduti” nel momento in cui hanno progressivamente e
in modo esclusivo assunto la delega della cura da parte del sociale.
In parallelo assistiamo al riacutizzarsi della storica frattura tra
personale laureato (psichiatri, psicologi) e operatori (educatori,
infermieri, Oss, Adest, ecc).
In
un bell’articolo F. Olivetti Manoukian
evidenzia come “Le pressioni cui oggi sono sottoposti i Servizi
hanno il volto minaccioso dell'assedio. Di fronte all'aumento delle
richieste di aiuto oggi non basta chiedere agli operatori di «fare di
più». Occorre mettere in discussione la delega esclusiva e
onnipotente che la società ha consegnato loro e che i servizi hanno
nel corso della loro evoluzione assunto. I servizi non possono
fronteggiare da soli il disagio, è la sua complessità che oggi
chiede che ci si metta tra più attori a sostenerne il carico.
Un'ipotesi, questa, inscritta già nella genesi stessa dei servizi.”
Se
per un verso la pressione del sociale verso i tecnici e la tecnica, si
fa via via più forte a favore di soluzioni spesso contenitive, seppur
“di buon trattamento” (un po’ come nella scuola dove i genitori
sembrano più interessati alla mensa o alle attività integrative che
ai processi di apprendimento e socializzazione dei loro figli),
dall’altro le competenze tecniche degli operatori (in particolare
del personale laureato), poco rinforzate e selezionate dal sociale,
sembrano palesarsi sempre meno adeguate proprio all’”uso” del
sociale in senso clinico.
“Purtroppo
prevale nettamente un’antropologia delle tante psichiatrie ognuna
organizzata con i suoi libri, le sue cattedre, i suoi riti, le sue
appartenenze, le sue istituzioni sociologiche, le sue economie
monetarie. o seguo un altro modello .. io seguo una psichiatria
differente .. E’ questo il ritornello che tanti colleghi, giovani o
non più giovani, mi ripetono sconcertati o scandalizzati quando provo
a condividere questi interrogativi di base nello sforzo di ripensare
le radici dei nostri saperi e dei nostri operare. Come sappiamo è nel
linguaggio che usiamo che si traduce il nostro pensiero. Siamo quindi
guidati dal pensiero delle tante psichiatrie e non dal pensiero
dell’unicità irripetibile del singolo paziente. Per altro, come
professionisti di area sanitaria, il nostro vincolo è il paziente e
non il modello”
D’altra
parte lavorare con le patologie gravi richiede risorse (luoghi, un
gruppo di curanti), competenze (una formazione specifica) e
“protezioni” non indifferenti. La “contaminazione” psichica
derivante da relazioni intensive e prolungate nel tempo presuppone da
parte dei singoli, dell’equipe curante e dei loro responsabili, un
continuo sforzo ed una elevata attenzione.
Come
ben sappiamo nel contesto di cura psichica i fenomeni di
coinvolgimento emotivo (sia positivo, sia negativo) non solo non sono
eliminabili, ma costituiscono l’elemento centrale del lavoro in
psichiatria. È dai molteplici processi relazionali che i pazienti
instaurano tra loro e con l’equipe curante e dalle risonanze che
questi inducono su di noi, che è possibile ipotizzare dove sia
“distribuito il mentale” (o il campo psichico) del paziente. Ne
consegue la necessità di uno sguardo binoculare, il primo nei
riguardi del paziente, della sua situazione e della sua storia, il
secondo nei confronti del nostro modo di “stare con lui”, onde
mantenere sotto costante osservazione la possibilità sempre presente
dell’attivazione di difese rigide e scissioni radicali, che hanno
costituito il presupposto psicologico e sociale oltre che politico del
manicomio.
Non
ci si può non “contaminare”, anzi i processi di diffrazione dei
transfert e controtransfert (co-transfert) sono alla base di un lavoro
di psicoterapia comunitaria. Il problema diviene allora “l’uso”
degli elementi che il paziente trasferisce sulle persone che lo
circondano, altri pazienti o operatori, e sulla struttura che li
accoglie o su parte di essa. Formazione, lavoro di equipe,
supervisione
oltre ad un grosso lavoro sulla costruzione e gestione dei contenitori
intesi come luoghi, tempi e regole,
sono elementi fondanti e fondamentali di questo “uso”.
Come
accennato, il libro trae origine da una riflessione sulla
residenzialità in psichiatria. Le esperienze in materia sono andate
consolidandosi, a partire da una vecchia tesi di laurea e nel tempo
arricchendosi di numerosi riferimenti: dalle pionieristiche comunità
(molto differenti tra loro) di M. Jones, di T. Main od ancora di Laing
e Cooper a quelle di Woodbury prima in America e poi in Svizzera, di
Racamier in Francia senza tralasciare quelle realizzate in Italia.
Due
sono i riferimenti storici principali per un discorso sulle
residenzialità in psichiatria: le Comunità Inglesi collegate con il
Tavistock di Londra e successivamente, in modo preminente,
l’esperienza francese del gruppo della Velotte di Besançons e
soprattutto di Santé Mentale et Communité (SMC) di Villeurbanne –
Lione, di cui Marcel Sassolas è stato per molti anni responsabile e
preciso punto di orientamento.
Le
comunanze e le assonanze tra le esperienze inglesi e francesi sono
parecchie così come le differenze, a cominciare dalle matrici
originarie su cui esse si sono fondate e sviluppate. Sicuramente le
accomuna la grande attenzione ai “contenitori” istituzionali,
ai “meccanismi” psichici attivati nella relazione con i
pazienti e la definizione-tutela dei confini dei molteplici
set-setting. Al contrario la coloritura nella gestione delle regole,
del “fare con” e delle modalità di restituzione ai pazienti di
quanto avviene nella relazione quotidiana, dall’utilizzo
dell’interpretazione classica all’esercizio delle azioni parlanti,
non sono che alcune delle differenze più evidenti.
In
Italia la nascita delle Comunità trae origine sul finire degli anni
sessanta
dal lavoro anti-istituzionale legato al “superamento”
dell’Ospedale Psichiatrico.
L’esperienza
Italiana si presenta come variegata, forse anche difficilmente
definibile rispetto a quelle inglesi e francesi, ma non per questo
meno interessante e ricca di spunti.
Essa nasce dalla trasformazione degli Ospedali Psichiatrici prima
attraverso la mutazione dei vecchi reparti in comunità interne e di
costituzione poi, di luoghi concepiti appositamente: le C.T. nel
territorio.
Occorre
al proposito ricordare come sottolinea F. Fasolo che: “Questa
precisazione storico-metodologica è fondamentale: il filone
tecnico-progettuale originario della comunità terapeutica è di
matrice ospedaliera, non di matrice territoriale; ovvero, le comunità
terapeutiche non nascono dalla comunità locale, ma dalla comunità
ospedaliera.”
È quindi comprensibile il loro consolidarsi su modelli e pratiche di
risocializzazione e reinserimento sociale rivolte a pazienti
fortemente istituzionalizzati e regrediti.
Gli
elementi distintivi dell’orientamento nel nostro Paese sono stati
l’attenzione, oltre alle competenze sociali, alle dimensioni
psicopedagogiche e ricostruttive di una relazionalità di base; certo
non sono mancate realtà dove gli aspetti psicodinamici hanno avuto
peso e significatività, ma sono rimaste minoriatarie nel panorama
nazionale.
È pur vero che anche in Inghilterra e in Francia le esperienze a cui
ci siamo riferiti, sebbene rilevanti e molto conosciute, non sono così
estese come appaiono ad occhi esterofili.
Ritornando
alla situazione italiana, al periodo sopraccitato è seguita una
seconda fase che ha interessato l’intero arco degli anni Novanta.
L’inserimento nelle C.T. di pazienti ai primi ricoveri -mancanti
quindi delle caratteristiche di cronicità istituzionale propria dei
cosiddetti “ex OP” o della ghettizzazione derivante dalla realtà
manicomiale- ha posto nuovi problemi e un ripensamento circa la
dimensione della residenzialità. È questo un periodo della storia
delle istituzioni comunitarie dove assistiamo alla compresenza di
pazienti “cronici” con pazienti “non stabilizzati”. Fase in
cui si cominciano a differenziare anche normativamente le tipologie
delle strutture residenziali: comunità terapeutiche ad alta
protezione, socioassistenziali, comunità alloggio, gruppi
appartamento, convivenze guidate.
La
situazione attuale ancora instabile sembra proporre nuovi assetti
organizzativi e clinici riferibili ai “nuovi pazienti” e
all’emergere di impostazioni di cura finalizzate al tipo di disturbo
psichico: borderline, psicosi, doppia diagnosi, anoressia-bulimia ecc.
Si tratta in fondo di una sorta di specializzazione sulla falsa riga
della medicina ospedalocentrica.
Esaurita
la spinta propulsiva della legge 180, la cui applicazione si è
rivelata forse più ideologica che clinico-metodologica, sembra farsi
sempre più pressante la necessità di ripensare il lavoro clinico in
psichiatria, col pericolo della riemersione di vecchie modalità
seppur presentate in forme nuove e seducenti.
Quattro
ci sembrano i macro-nodi sui quali focalizzare l’attenzione:
-
Le dimensioni accuditivo-protettive nei confronti del paziente,
accompagnate da relative infantilizzazioni. Questo aspetto
comporta spesso una azione di convincimento del paziente da parte
dell’equipe sotto forma di seduzioni, promesse o ricatti – più o
meno espliciti - nell’indirizzarlo alla residenzialità. Tali
modalità sono di norma mascherate attraverso una razionalizzazione o
giustificazione dell’obbligo della cura da parte delle strutture
pubbliche.
-
Il rapporto tra
invianti e residenzialità. Tale questione riguarda l’intera
relazione tra i curanti, non solo rispetto alle C.T. Il rapporto tra
le parti contiene troppi impliciti e spesso diviene collusivonel senso
di non permettere contratti di cura a partire dalle reali posizioni
degli attori implicati. Questi sono gli invianti istituzionali (dal
direttore del DSM al responsabile amministrativo sino al Direttore
Generale), i responsabili delle differenti strutture coinvolte nella
gestione del paziente (ambulatori, centri diurni, Spdc ecc.), le
strutture riceventi anch’esse con i diversi livelli (dal
responsabile della cooperativa o della struttura privata, all’equipe
curante sino al gruppo dei pazienti con cui condividerà una parte
rilevante della quotidianità). Infine, (buon ultimo!) i pazienti e i
loro familiari con la loro contrattualità possibile, nell’essere
almeno co-artefici del progetto terapeutico. Rimane da chiarire ad un
primo livello intorno a chi ed in che modo siano distribuite le
responsabilità in gioco e ad un secondo livello chi siano e come si
interfaccino coloro che hanno nella mente il paziente, la sua storia
famigliare e clinica.
-
Le residenzialità
come luoghi di progetti “a posteriori”. Troppo spesso accade
che la richiesta di un inserimento in una comunità sia determinato o
da un’urgenza o dal fallimento di una serie di interventi
precedenti, siano essi riferibili ad altre comunità od ancora alla
gestione ambulatoriale del caso. Frequente è il rischio che l’idea
della omunità non sia frutto di un progetto terapeutico
dell’inviante ma solo una soluzione operativa. Occorrerebbe che non
solo l’urgenza faccia emergere nella mente del terapeuta e del
paziente la proposta di una terapia attraverso la dimensione
residenziale.
L’ipotesi
di inserimento in comunità e il tempo necessario per renderla
pensabile, sia al paziente sia al gruppo inviante, possono avere
un’alta valenza terapeutica a prescindere dalla decisione che
successivamente si concretizzerà. In questo caso il paziente e gli
invianti giungeranno alla comunità con un progetto pre-pensato e di
conseguenza non si tratterà che di concordare con i riceventi le
congruenze, le possibilità, i tempi per il lavoro terapeutico
consistente in una nuova forma del vivere nel quotidiano.
È
paradossale allora che l’assenza di questa fase si trasformi in una
sorta di cortocircuito in cui in cui l’unica attenzione è
focalizzata al progetto che la comunità deve sviluppare per quel
paziente.
-
La specificità
del lavoro inerente la salute “mentale”. Essa comporta la
centralità del lavoro sul mentale, la comprensione del “luogo in
cui il paziente è”, ovvero a quali configurazioni relazionali e
campi familiari e sociali la sua psiche è ancorata e posizionata.
Prospettiva che condividiamo con molti autori tra cui C. Pontati
quando precisa: “Ritengo che la nostra epistemologia debba
ancorarsi fortemente alla necessità di comprendere i codici di senso
del paziente e del suo contesto familiare, comunitario e storico.
Quindi non il paziente deve ‘entrare’ nel nostro campo mentale,
nel nostro territorio modellistico, ma noi dobbiamo ‘cercare’ il
paziente nel suo territorio, nelle sue appartenenze, nelle
vicissitudini della sua storia e del senso che la storia ha
rappresentato per lui e per le trame delle sue appartenenze”
Questo livello di conoscenza, ben diverso da quello pur necessario del
DSM IV, a nostro parere non esclude, anzi utilizza, sia gli aspetti
del “fare con”, sia esperienze psicopedagogiche che socializzanti,
purché all’interno di una prospettiva e di un
intenzionamento che mantengano la centralità del “mentale”.
Ecco
allora che questo libro costituisce una proposta di ri-“lettura” e
di orientamento delle pratiche in psichiatria.
A
nostro avviso, le conseguenze di questa ri-“lettura” sono
molteplici, a partire da una riflessione dirompente che va dai luoghi
(psichici e fattuali) sino alla gestione -con quale presunzione di
terapeuticità?- del quotidiano. Emergono questioni inerenti sia i
contenuti sia, soprattutto, i “contenitori” (i set e setting) per
il lavoro di cura, sugli spazi-tempi di un’opera di connessione tra
le quotidianità del paziente, la sua storia personale e istituzionale
ed il contesto sociale attuale della sua vita, sulla possibilità di
essere e in che modo promotori del suo sviluppo.
Se
però quello che avviene in uno spazio-tempo, ad esempio mentre si
cucina con il paziente, non viene pensato, osservato ed intenzionato
dagli stessi operatori rispetto ai punti sopra evidenziati e poi, in
altri luoghi e tempi, recuperato (ancora in primis attraverso gli
operatori) ecco che “qui casca l’asino” e quello che poteva
essere un lavoro sul mentale ricade in una psichiatria
dell’“intrattenimento”.
I prodromi
del libro
Molti
anni fa il collega ed amico M. Perini del Nodo Group ed io,
responsabile del Laboratorio di GruppoAnalisi di Torino, organizzammo
una prima esperienza di confronto sulla gestione dei casi clinici tra
alcune equipe provenienti da differenti organizzazioni di cura.
La
sensazione che condividevamo era quella di una certa ristrettezza
nelle esperienze di discussione casi in gruppi appartenenti ad una
stessa organizzazione.
Seppur
fondamentale e basica, la supervisione di una singola equipe, o di un
gruppo di lavoro, ci pareva per altri versi limitata.
Le
nostre discussioni di quel periodo evidenziavano il rischio di
un’autoreferenzialità dei gruppi, una possibilità di chiusura in
se stessi. Ci sembrava, sull’onda di alcune nostre pratiche, che la
curiosità tra gruppi che operavano in campi simili fosse poca e
bloccata da elementi di consuetudine e di stereotipia, genesi e
conseguenza di una scarsa conoscenza reciproca.
Le
esperienze a cui facevamo riferimento erano le Comunità Terapeutiche,
le Comunità Alloggio, i Gruppi Appartamento, gli Alloggi Supportati
nonché i Centri diurni, nei quali la residenzialità è lo strumento
elettivo dell’assetto di cura.
Era
proprio quest’ultimo elemento, la residenzialità,
tramutata in un “ognuno a casa sua”, ad indurre il rischio
di una certa autarchia delle singole esperienze, peraltro rivelatasi
nel tempo abbastanza speculare alla cultura sociale odierna di
isolamento e parcellizzazione.
In
questo quadro, almeno per me, si innestava il desiderio di facilitare
il costituirsi di una rete tra operatori che, pur implicati in
contesti differenti, si trovavano a lavorare in situazioni “dure”
dove la quotidianità e le patologie psichiatriche gravi sono
l’elemento accomunante.
Coglievamo,
seppure in modo “grezzo”, i prodromi di una crisi della
“nuova” psichiatria territoriale che nel tempo si è manifestata
in modo sempre più evidente.
Ma
questo è un tema a cui abbiamo già fatto cenno.
Da
queste premesse prese avvio l’idea di proporre e realizzare una
serie di incontri tra alcune Comunità inserite nell’area della
provincia di Torino.
Vi
aderirono diversi gruppi per un totale di 4 incontri di una mattinata.
Ogni incontro, ospit a turno una delle Comunità coinvolte, si
svolgeva attraverso una breve relazione introduttiva su un tema
attinente la vita comunitaria e si concludeva con la
presentazione-discussione di un caso clinico.
L’iniziativa,
che si avvalse tra l’altro del contributo di R. Hinshelwood,
fu interessante, per molti versi stimolante e probabilmente di una
certa utilità, ma lasciò, almeno in me, una sensazione di risultato
parziale ed incompleto.
L’integrazione
e lo scambio tra i diversi gruppi rimase sostanzialmente a livello
superficiale e formale, le strutture comunitarie parvero più
preoccupate di evidenziare le loro caratteristiche positive, per altro
rilevanti, che non le “lucie le ombre” del lavoro residenziale con
pazienti gravi. Gli stessi casi presentati finivano per esprimere una
posizione intermedia tra la ricerca di comprensione e l’esplorazione
dei nodi istituzionali del caso clinico e un comprensibile bisogno di
non esporsi oltre misura di fronte a colleghi appartenenti ad
organizzazioni “amiche” ma anche concorrenti.
L’esperienza,
vista con gli occhi di oggi è maggiormente comprensibile: peccammo di
ingenuità e di aspettative troppo elevate.
Facemmo
anche noi un errore di presa in carico: mancò la capacità di
creare una “base sicura”. Il medesimo contenitore poteva solo
funzionare per accostamento, e così fu; la pressione delle singole
appartenenze rese gli stessi partecipanti (soprattutto il personale
non laureato: educatori, infermieri, ecc.) in gran parte bloccati. Se
vogliamo continuare questo gioco di simmetria rispetto alle dimensioni
di intervento terapeutico, possiamo dire che i transfert laterali o,
meglio ancora, i campi mentali delle singole famiglie lavorative, si
rivelarono non trattabili.
In
altri termini, come peraltro accade sempre più di frequente nel mondo
“psi”, le discussioni rimasero parzialmente accademiche, anche se
sicuramente interessanti, sul versante di quella che possiamo chiamare
“anatomia psichiatrica” od ancora disamina manualistica della
clinica.
Il
conseguente livello difensivo di astrazione delle discussioni produe
una difficoltà negli operatori meno “colti”, ad autorizzarsi a
mettere in campo l propri competenz, peraltro portatori di una grande
conoscenza del paziente
Nel
frattempo il mio rapporto con Marcel Sassolas e l’esperienza di Santé Mentale et Communautés di Villeurbanne (Lyon) si andava
vieppiù approfondendo: iniziammo una collaborazione attraverso
supervisioni congiunte presso una Comunità Terapeutica in una
cittadina dell’hinterland torinese,
alcuni convegni e seminari ,
oltre a scambi e partecipazioni ad attività in Villeurbanne.
Fu
così che a distanza di anni quella prima esperienza lasciata in
sospeso, che nel frattempo aveva continuato a “lavorare” dentro di
me, fu ripresa dal Laboratorio di GruppoAnalisi.
Un
modello e un metodo per un confronto tra gruppi.
Come
gruppo professionale dell’Associazione realizzammo un lavoro di
elaborazione, tentando di capire cosa non aveva funzionato
nell’esperienza precedente.
Individuammo
quattro punti come essenziali per una nuova e diversa esperienza:
a)
La necessità di un luogo terzo, ciò un luogo esterno,
dove la presenza delle singole istituzioni fosse evidente ma meno
vincolante. La scelta operata in precedenza di rotazione nei diversi
luoghi di cura aveva ostacolato la costituzione di un gruppo in cui le
appartenenze organizzative potessero rimanere sullo sfondo, in modo da
facilitare l’individuazione ed il riconoscimento dei punti comuni più
che le singole differenze e i relativi narcisismi.
b)
Una partecipazione spontanea, per gruppi o sottogruppi
di lavoro, anche incentivando dal punto di vista economico adesioni di
più persone provenienti dalla stessa struttura. L’obbiettivo era
quello di comporre attraverso 5-6 equipe, un gruppo (mediano) di una
trentina di partecipanti.
c)
L’importanza di avviare le singole giornate attraverso
un lavoro per sottogruppi disomogenei per provenienza, aspetto questo
che caratterizza molte delle attività interne ed esterne della nostra
Associazione Professionale (Laboratorio di GruppoAnalisi).
d)
Un tempo più dilatato per ogni incontro (una giornata
9,00-17,00) e un numero maggiore di incontri (6 incontri, intervallati
di 1-1,5 mesi l’uno dall’altro).
Il
modello e l’articolazione individuata prevedeva una breve
introduzione al tema della giornata, dove si ponevano una serie di
questioni abbozzate: pensieri ed interrogativi molto sintetici ed
intenzionalmente proposti in un linguaggio piano ed ancorato alla
quotidianità. (15 min. circa)
Si
passava poi ad un lavoro in sottogruppi (stabili per tutti gli
incontri) condotti da due colleghi, ognuno con un recorder e con la
presenza dei due supervisori in veste di osservatori partecipanti che
si alternavano di volta in volta nei due sottogruppi.
Il tempo medio di lavoro dei gruppi era di circa 2 ore.
Nell’ultima
parte della mattinata, della durata di un’ora circa, i due
Supervisori a partire da una traccia predisposta e sulla base degli
stimoli raccolti nei gruppi esponevano in modo interattivo una serie
di considerazioni e di punti di vista teorico-pratici.
Il
materiale di queste considerazioni, preso come spunto e profondamente
rielaborato va a comporre la parte prima di questo libro.
Il
pomeriggio era dedicato alla presentazione di un caso clinico da parte
di un gruppetto di partecipanti.
Il
nostro orientamento e i punti di vista sul funzionamento del gruppo di
discussione casi verrà precisata e chiarita nella seconda parte di
questo testo, in cui sono altresì riportati alcuni dei casi
presentati sia in quella occasione sia in altre.
F. Manokian Olivetti, Quanto è sociale il lavoro nei Servizi? In:
Animazione Sociale, n. 10, ottobre 2004,
pp.31-62
“Superamento” riferibile ad una trasformazione rilevante nelle
strutture e nelle organizzazioni di cura, non sempre accompagnata
da un reale cambiamento nei
metodi e nella cultura.
Pontalti C., Saper essere o saper fare? In Fasolo F., Cappellari
L. (a cura), Psichiatria di Territorio- Almanacco 1999, La
Garangola, Padova.
“Le
Residenzialità Psichiatriche a Confronto: Prassi Modelli
metodi tra fare e pensare” - Torino 3 giugno 2004.
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