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Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
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Editore/Publisher: Astrolabio Ubaldini
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Anno/Year: 2009
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"La Psicoanalisi. Intrecci Paesaggi
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Edited by S. Fizzarotti Selvaggi, G.Leo.
Writings by: Salomon Resnik, Mauro Mancia, Andreas Giannakoulas,
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Publisher: Schena Editore
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Il
porto franco
Nel
XVIII e nel XIX secolo vivere a Trieste, l’antica Tergeste,
doveva essere senz’altro invitante e stimolante. Da città di
provincia sotto l’egida della Repubblica Veneta,
era passata sotto il dominio dell’Impero Asburgico, divenendone
“il Porto” per antonomasia, punto franco di transito delle merci
provenienti dall’intero continente e polo attrattivo di mercanti ed
imprenditori dei vecchi e dei nuovi mondi.
Nel
lontano 1368, La Serenissima Repubblica di Venezia si trovò a
considerare Trieste un avamposto marittimo inaffidabile e dallo «spirito
ribelle» (Marchesi, 1885, 24), in quanto «asilo di contrabbandieri
ed abitata da pescatori e da speditori senza capitali»
(Finzi, 2001, 6). Decise quindi
di prendere le armi e combattere la “guerra di Trieste”,
per frenare eventuali mire espansionistiche navali, che avrebbero
potuto minacciare le sue rotte commerciali e per riaffermare la
propria egemonia sull’Adriatico. La città alabardata chiamò allora
in soccorso l’Arciduca d'Austria Leopoldo III d'Asburgo, cui giurò
eterna sottomissione. Dopo alterne vicende, che videro la città
portuale nuovamente assoggettata alla Serenissima, nel 1382 Trieste si
pose sotto la protezione dell'Austria, di cui divenne parte integrante
con una sua forma di governo autonomo sino alla fine della prima
guerra mondiale - salvo un altro breve periodo di controllo da parte
della Repubblica di Venezia e, successivamente, della Francia, che
l’occupò dal 1797 al 1805 e che,
dal 1809 al 1813, la conglobò nelle Province Illiriche del suo
Impero.
Il
destino di Trieste è fortemente collegato ai progetti di sviluppo di
Casa D’Asburgo e, in particolare, di Carlo VI. Questi aveva un
sogno: quello di creare una potenza marittima e commerciante, tale da
competere con le altre grandi Potenze del Mediterraneo. Così, il 18
marzo 1719, mentre i Triestini «vivevano una normale giornata di
fatica, ozio, gioie e dolori» (Finzi, 2001, 2) egli emanò un editto
che venne chiamato “legge del porto franco”, che riguardava
Trieste e Fiume, e che segnò un punto di svolta nella storia della
città giuliana. Un sogno molto dispendioso per le casse
dell’Impero, che fu condiviso e realizzato dalla figlia
dell’Imperatore, Maria Teresa, succeduta al trono paterno dopo
diverse traversie. L’Imperatrice d’Austria a sua volta investì
nel porto franco notevolissime sostanze, riuscendo in tal modo a
trasformare Trieste da un’area urbana di modeste proporzioni e
dall’economia ristretta in una città multietnica, in continua
espansione grazie alla floridissima attività del suo porto, che ben
presto divenne il primo dell’Impero. Maria Teresa ingrandì la città,
fece prosciugare e dismise le saline che la circondavano e, al loro
posto, fece sorgere un nuovo quartiere, chiamato in suo onore Borgo
Teresiano. Questo ampio territorio cittadino si riempì in breve di
popolazioni provenienti da svariati
angoli dell’Impero, che trovavano un ambiente favorevole per lo
stanziamento.
Quest’epoca
gloriosa vide germogliare una Trieste multiculturale, vero crocicchio
di lingue, di religioni e di razze. Ma noi non intendiamo soffermarci
su tali aspetti storico/culturali, già largamente esaminati da tanti
autori.
La
famiglia Nathan
Un
brulicare di genti diverse animava dunque la città quando Jacov
Nathan giunse a Trieste in visita a una delle sue quattro sorelle,
sposata a un ricco ebreo dirigente delle linee Lloyd.
Jacov
era nato nel 1854 a Bombay, da Mazaltov Cubey e Abram Nathan, un
venditore di tappeti originario di Bagdad, buon ebreo, filo-inglese,
che per i molti servigi resi alla Corona Britannica fu lautamente
ricompensato. Jacov, nato in India e suddito britannico, era rimasto
orfano a tredici anni e, ancora in giovane età, si era trasferito in
Cina, dove riuscì ad arricchirsi facendo abilmente fruttare il
piccolo gruzzolo con cui era partito. Un uomo pratico, commerciante
ingegnoso ed accorto, capace di sviluppare il proprio talento e il
proprio spirito creativo in un settore basato sulla concretezza. Un
vero artista nel suo campo.
A
Trieste Nathan trovò un terreno molto fecondo per ingrandire il
raggio dei suoi commerci: la città era in vorticosa crescita
demografica e la comunità ebraica era all’apice del suo sviluppo
economico. In quegli anni, gli ebrei triestini - come ricorda Tullia
Catalan - fondarono società di assicurazioni, ditte mercantili,
banche private in consorzio con imprenditori di altra fede religiosa.
L’Impero Asburgico amministrava le regioni "occupate",
lasciando molta libertà alle popolazioni di qualsivoglia credo
religioso e, proprio questo rispetto per ogni culto, sancito
in tutto il territorio, attirò la simpatia e il crescente interesse
di molti ebrei triestini, i
cui giovani iniziarono però a mostrare una progressiva disaffezione
per la religione dei padri, bruscamente sostituita da una laicità
indotta da un forte investimento in nuove professioni - che poco
avevano a che fare con il vecchio commercio e con gli scambi
finanziari - e dalle sempre più seducenti attività di natura
intellettuale (Catalan, 2005).
Già
nel 1842 anche alle comunità non cattoliche furono, inoltre,
assegnati fazzoletti di terra per l’inumazione dei loro defunti.
E queste straordinarie innovazioni avvenivano sotto l’ala
dell’Impero asburgico, forse più liberale e garantista di quella,
più intraprendente, rappresentata dalla “Corona Britannica”.
Certamente
Jacov subì il fascino della Trieste dell’epoca, cosmopolita e
multietnica, politicamente avanzata e in continuo fermento culturale,
e si fece catturare dalle infinite opportunità commerciali che essa
offriva (Marin, 2010b). In accordo con le riflessioni di Molesi (1991,
30) e, con quelle più recenti, di Polojaz e Kravos (2012), riteniamo
che la "ricchezza" di Trieste risiedeva proprio nel fatto di
essere e di sentirsi “triestini”, cioè abitanti di un centro
plurinazionale e sovranazionale, dove
le varie etnie si potevano incontrare, confrontare ed arricchire
nell’integrazione delle loro diverse identità. Posta al crocevia di
più popoli, Trieste era aperta alla coltivazione di ogni orientamento
spirituale: i triestini più colti leggevano autori russi, francesi,
scandinavi, tedeschi e inglesi, discettando di pittura, di musica e di
teatro nei loro salotti. Insomma, un luogo libero e moderno.
Jacov
Nathan probabilmente avvertì quest’aria di libertà e di modernità
quando arrivò a Trieste e decise di fermarsi per concretizzare i suoi
sogni e i suoi desideri.
Pure
Alice Luzzatto, nata nel dicembre del 1868 da Giulia Vivante e
Raffaele Luzzatto, apparteneva a una famiglia ebrea della media
borghesia triestina, che aveva dato sin’anche un deputato al
parlamento viennese.
Jacov
Nathan conosce Alice Luzzatto, «donna dolce e comprensiva», a casa
di una sua sorella, coniugata con un ebreo triestino, facoltoso
dirigente assicurativo, e poco tempo dopo si sposano.
Dal matrimonio nascono tre figli: Arturo Abramo Raffaele (nato
il 17 dicembre 1891 e deceduto a Bieberach nel 1944), Maud (nata nel
1897 e morta nel 1914 per un’influenza) e Daisy, la sorella verso la
quale Arturo nutriva molta
tenerezza, che nasce nel 1908 e muore nel 2011 a 103 anni.
Vale
la pena rilevare che sia Alice sia Jacov, e le loro famiglie
d’origine, entrambe ebree, avevano fruito della potente tutela di
due grandi Case regnanti, la “Corona Britannica” e la “Casa
D’Austria”, e ne avevano goduto di tutti i benefici. La coppia
genitoriale di Arturo Nathan è costituita, quindi, da un padre -
rimasto orfano in giovanissima età, capace di “fare una fortuna”
con il commercio e approdato a Trieste dopo un lungo viaggio dai
lontanissimi confini asiatici - e
una madre gentile, delicata, figlia di quel mondo così
caratterizzante la Trieste dell'Ottocento.
Ma
siamo verso la fine del secolo e molte cose stanno cambiando.
Cominciano a manifestarsi conflitti sino ad allora silenti,
conseguenza di insanabili contraddizioni e contrasti,
«che porteranno a numerose frizioni, destinate a degenerare in
fratture tra le etnie locali» (Marin, 2010b) e causeranno
un lento, inesorabile sbriciolamento della composita tela
sociale multiculturale. Si possono così intravvedere le gravi
problematiche che oscureranno il futuro prossimo: incertezze e dubbi
identitari, di razza e di credo, che a poco a poco smantelleranno le
infrastrutture socio-culturali del mondo triestino e della sua
economia. L’epilogo più
tragico e funesto di questo periodo di tensioni e di disorientamento
sarà rappresentato dallo scoppio della Grande Guerra e
dalle feroci aporie post-belliche.
Il
bambino Arturo Nathan, detto Arti, cresce assorbendo le peculiari
caratteristiche relazionali
che
provengono
dalla sua famiglia
e dall’intreccio di legami con l’ambiente triestino, in una
contingenza storica quanto mai tormentata.
Un
duro cammino verso l’arte
Arturo è un ragazzo introverso, tranquillo, studioso, molto
legato alla madre, per nulla pragmatico. Insomma, un giovane uomo
rivolto verso il “mondo interno”, piuttosto che verso la
materialità mondana. Questa sua personalità, mite, riflessiva e
sognante, si scontra pesantemente con la concretezza del padre,
avveduto commerciante, molto occupato nei suoi affari che lo portano
spesso lontano da casa. E’ un marito e un padre assai disattento
alla vita famigliare, del quale si nota specialmente l’assenza.
La madre, invece, è una cara signora, affettuosa, comprensiva,
accogliente. Una donna capace nelle sue funzioni materne, non fosse
per una profonda sofferenza di fondo, che accompagna la sua esistenza
e che, in certi periodi, si accentua al punto da sfociare in franchi
quadri depressivi (Accerboni Pavanello, 2004 e Corsa, 2008). In base
alle testimonianze documentali raccolte, possiamo ipotizzare che la
nascita del suo primogenito, Arturo, sia stata velata da uno screzio
depressivo puerperale, che sin dai primi attimi avrebbe segnato il
rapporto madre/figlio. Un legame avvolgente ed assoluto, destinato ad
oscillare continuamente, con inesorabile pervasività, tra poli
emotivi opposti e conflittuali. Ma di questi aspetti diremo oltre.
Non
possiamo trascurare, però, di spingere lo sguardo anche fuori
dall’ambito familiare e riconoscere che l’infanzia e
l’adolescenza di Arti coincidono
con eventi epocali, che trasformano, ribaltandolo, il clima
respirato nella città portuale e nell’intero Impero. Verrebbe da
chiedersi come i genitori, Jacov e Alice, abbiano affrontato questi
straordinari cambiamenti. Quali preoccupazioni abbiano adombrato i
loro animi in momenti così contrastati, instabili e foschi? Non lo
sapremo mai.
Dalle
memorie della sorella Daisy veniamo a conoscenza, invero, che pure Arturo
Nathan è scosso dai violenti turbamenti del tempo e, come tanti altri
giovani, si discosta dalla religione d’origine: secondo
la De Vecchi, «Arturo incarna - nella sua opera e nella sua stessa
vicenda biografica, così intimamente connesse - quella particolare
condizione di disorientamento e di inquietudine esistenziale che
investì l’arte triestina di quel periodo, proiettata a
riconsiderare un nuovo rapporto con la tradizione e al contempo a
confrontarsi con la realtà del presente» (1998, 423).
Egli
s’interessa di filosofia; in particolare nutre una vera passione per
Nietzsche,
che condivide con i due pittori triestini Leonor Fini e Carlo Sbisà,
suoi grandissimi amici.
Terminati
gli studi classici, Arturo fantastica di studiare filosofia, correndo
il rischio, forse, di rimanere intrappolato in quella dimensione
infantile e sognante – cui hanno spesso accennato le persone che lo
hanno ben conosciuto – che sembra preservarlo dagli inevitabili
conflitti collegati alla crescita e alla conquista della maturità.
Nel contempo il padre, di
sicuro preoccupato dagli incerti panorami politici ed economici che si
stanno delineando, decide di inviare il figlio a Londra, presso una
sorella sposata con un importante uomo d’affari della City,
affinché il ragazzo venga preparato ad entrare e a destreggiarsi nel
mondo economico-finanziario internazionale.
Il
giovane non regge la prova; trova l’ambiente profondamente borghese
e quella formazione voluta dal padre lontanissima dalla sua più
intima indole. Nel 1911
convince i genitori a sostenere il suo mantenimento a Genova,
prestigiosa sede commerciale italiana ma, all’insaputa di tutti,
invece che impratichirsi in materie economiche, studia filosofia.
Nel
frattempo le cose della famiglia Nathan e quelle del mondo
precipitano. Nel 1914, la secondogenita, Maud, la sorella più vicina
ad Arti, muore improvvisamente ad appena diciassette anni per aver
contratto una terribile forma d’influenza.
Scoppia
la Grande Guerra. Il padre, in quanto cittadino
britannico, viene espulso dall’Impero
e Arturo viene chiamato alle armi in Gran Bretagna. Qui non assume il
grado che gli sarebbe spettato per istruzione e cultura. Si dichiara
“pacifista” e di non aver conseguito alcun titolo di studio, ma di
essere in possesso solo della terza elementare. Così gli viene
assegnato il compito, assai spregevole, di
lavare le latrine a Portsmouth. Si tratta di una situazione
indubbiamente molto umiliante, ma che Arturo affronta con dignità.
Tale vicenda, se da una parte pare indicare un atteggiamento passivo,
remissivo e autopunitivo di Nathan, dall’altra dimostra pure una
grande determinazione nel tener fede alle proprie idee. Da obiettore
convinto, Arturo ha evitato di imbracciare il fucile con una scelta
coerente, seppur dura e mortificante, che gli ha consentito di evitare
il carcere inglese per renitenza all’arruolamento.
Questa
decisione, comunque, origina anche da uno stato d’animo molto
prostrato del giovane triestino. Una seria depressione sembra
imprigionarlo; un dolore devastante, causato dalla morte della sorella
e dal vedere la madre distrutta da questa terribile perdita, si
impossessa di lui, danneggiando irrimediabilmente il suo Sé,
facendolo sentire sempre più inadeguato alla vita.
D’altronde
la morte lo circonda. Gli orrori della guerra, l’orrore privato per
la scomparsa della sorella, l’orrore per la seria depressione
materna, l’orrore per l’assenza del padre, che diventerà
irrimediabile nel 1918, quando l’uomo decede, per motivi
imprecisati, a Napoli. Arturo si trova da solo, in un paese straniero,
a fronteggiare tanta, devastante angoscia. L’angoscia di morte,
inelaborabile e imperdonabile, avrà soltanto un luogo dove poter
essere riversata: le infinite latrine
che raccolgono gli elementi più deteriori del Sé. Una palude
mefitica che lo immobilizzerà sino alla fine della conflagrazione
mondiale.
Quando
rientra a Trieste, nel 1919, Arturo è un ventottenne ormai piegato
dalla sofferenza: appare disinteressato all’ambiente, ritirato e
versa in uno stato quasi catatonico, come emerge dai racconti di Daisy
e degli amici più cari.
La
sorella e la madre, accorgendosi della serietà del suo malessere
psichico, lo sollecitano ad intraprendere un percorso di cura. Arturo
Nathan sceglierà di farsi aiutare dallo psichiatra e psicoanalista
locale Edoardo Weiss.
Ringraziamo
sentitamente Maria Masau Dan, direttrice del Museo Revoltella di
Trieste, e la Comunità ebraica triestina per il materiale
biografico e storico che ci hanno gentilmente concesso di
consultare e che è risultato assai prezioso per la realizzazione
del presente contributo.
Kaës ci insegna che «il gruppo familiare è uno spazio di
iscrizione, fuori dalla psiche individuale, di tracce di
esperienze non soggette a rimozione» (Kaës, 2002, 60), che
producono effetti diversi sulla mente dei vari membri della
famiglia e sui loro legami. Esso
è, inoltre, il luogo
dell’intergenerazionale e del transgenerazionale. Secondo la
Nicolò, si può «immaginare un
primitivo livello di funzionamento del gruppo familiare, che
alcuni autori hanno chiamato "Sé gruppale", da cui si
differenzia ciascuno dei membri attraverso un processo continuo di
soggettivazione e
personalizzazione» (Nicolò, 2005, 241).
Riprendiamo ancora il pensiero della Nicolò, quando afferma che
il bambino, alla nascita, «si inserisce in una rete fantasmatica
di relazioni, rispetto a cui interagirà modificandosi. In un
certo senso esiste già un posto relazionale e fantasmatico
predeterminato per cui e con cui dovrà confrontarsi. Questo è
chiaro se consideriamo ad esempio l'influenza nel soggetto dei
nomi che vengono tramandati di generazione in generazione o ancora
i rapporti di filiazione: essere primogeniti o ultimogeniti»
(1996, 17).
Eiguer si interroga: «Ma, cosa ci si aspetta da un padre? Che sia
capace di ascolto quando gli si parla di una difficoltà
o gli si chiede aiuto. In altre parole, che sia in grado di
capirci e, se possibile, di orientarci o di assisterci» (2005,
28).
Apprendiamo sempre dalla voce di Daisy che il padre era stato mandato al confino a Graz, in
Austria, dove la famiglia avrebbe dovuto ricongiungersi quanto
prima, ma che questo progetto non era andato a buon fine. Jacov
riuscì comunque a fuggire e, dopo mille perigli, a rientrare in
Italia per fermarsi a Napoli, dove abitavano alcuni parenti della
moglie. Colà morì nel 1918, d’infarto o di diabete (Mapelli, 2011).
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