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Psicoanalisi applicata alla Medicina, Pedagogia, Sociologia, Letteratura ed Arte

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     "ARTURO NATHAN. PITTORE E PAZIENTE ECCELLENTE" di Rita Corsa e Giuliana Marin

 

 

 

   

 

 

 

 


                                                                                                                                «La luce del faro

                                                                                                                                                si dissolve sul battello,                                                                                                            

                                                                                                                 un battello stanco, malato,

                                                                                                                                   che appena può

                                                                                                                               va a morire dentro

                                                                                                                                         la tua stanza»  

                                                                                     (Alessandro Rosada,  Il ghiaccio del mare, 2006).

 

 

 

            

 

   

 

Rivista "Frenis Zero" - ISSN: 2037-1853

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Writings by: A. Cusin, J. Kristeva, A. Loncan, S. Marino, B. Massimilla, L. Montani, A. Nunziante Cesaro, S. Parrello, M. Sommantico, G. Stanziano, L. Tarantini, A. Zurolo.

Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero

Collana: Confini della psicoanalisi

Anno/Year: 2012 

Pagine/Pages: 382

ISBN: 978-88-903710-6-6

Prezzo/Price: € 21,00

 

AA.VV., Psychoanalysis and its Borders, a cura di G. Leo (Editor)


Writings by: J. Altounian, P. Fonagy, G.O. Gabbard, J.S. Grotstein, R.D. Hinshelwood, J.P. Jimenez, O.F. Kernberg,  S. Resnik.

Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero

Collana/Collection: Borders of Psychoanalysis

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Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero

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ISBN: 978-88-903710-5-9

Anno/Year: 2011 (2nd Edition)

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"Psicoanalisi e luoghi della negazione" a cura di A. Cusin e G. Leo (Editors)

Writings by: J. Altounian, S. Amati Sas, M. Avakian,  A. Cusin, N. Janigro, G. Leo, B.E. Litowitz, S. Resnik, A. Sabatini Scalmati, G. Schneider, M.  Šebek, F. Sironi, L. Tarantini.

Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero

ISBN: 978-88-903710-4-2

Anno/Year: 2011

Pages: 400

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"Lebensruckblick"

by Lou Andreas Salomé

(book in German)

Author:Lou Andreas Salomé

Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero 

ISBN: 978-88-97479-00-0

Anno/Year: 2011

Pages: 267

Prezzo/Price: € 19,00

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"Psicologia   dell'antisemitismo" di Imre Hermann

Author:Imre Hermann

Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero 

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Anno/Year: 2011

Pages: 158

Prezzo/Price: € 18,00

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"Id-entità mediterranee. Psicoanalisi e luoghi della memoria" a cura di Giuseppe Leo (editor)

Writings by: J. Altounian, S. Amati Sas, M. Avakian, W. Bohleber, M. Breccia, A. Coen, A. Cusin, G. Dana, J. Deutsch, S. Fizzarotti Selvaggi, Y. Gampel, H. Halberstadt-Freud, N. Janigro, R. Kaës, G. Leo, M. Maisetti, F. Mazzei, M. Ritter, C. Trono, S. Varvin e H.-J. Wirth

Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero

ISBN: 978-88-903710-2-8

Anno/Year: 2010

Pages: 520

Prezzo/Price: € 30,00

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"La Psicoanalisi e i suoi confini" edited by Giuseppe Leo

Writings by: J. Altounian, P. Fonagy, G.O. Gabbard, J.S. Grotstein, R.D. Hinshelwood, J.P. Jiménez, O.F. Kernberg, S. Resnik

Editore/Publisher: Astrolabio Ubaldini

ISBN: 978-88-340155-7-5

Anno/Year: 2009

Pages: 224

Prezzo/Price: € 20,00

 

"La Psicoanalisi. Intrecci Paesaggi Confini" 

Edited by S. Fizzarotti Selvaggi, G.Leo.

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Publisher: Schena Editore

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Price: € 15,00

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Il porto franco

 

Nel XVIII e nel XIX secolo vivere a Trieste, l’antica Tergeste, doveva essere senz’altro invitante e stimolante. Da città di provincia sotto l’egida della Repubblica Veneta[1], era passata sotto il dominio dell’Impero Asburgico, divenendone “il Porto” per antonomasia, punto franco di transito delle merci provenienti dall’intero continente e polo attrattivo di mercanti ed imprenditori dei vecchi e dei nuovi mondi.

Nel lontano 1368, La Serenissima Repubblica di Venezia si trovò a considerare Trieste un avamposto marittimo inaffidabile e dallo «spirito ribelle» (Marchesi, 1885, 24), in quanto «asilo di contrabbandieri ed abitata da pescatori e da speditori senza capitali»  (Finzi, 2001, 6). Decise quindi  di prendere le armi e combattere la “guerra di Trieste”, per frenare eventuali mire espansionistiche navali, che avrebbero potuto minacciare le sue rotte commerciali e per riaffermare la propria egemonia sull’Adriatico. La città alabardata chiamò allora in soccorso l’Arciduca d'Austria Leopoldo III d'Asburgo, cui giurò eterna sottomissione. Dopo alterne vicende, che videro la città portuale nuovamente assoggettata alla Serenissima, nel 1382 Trieste si pose sotto la protezione dell'Austria, di cui divenne parte integrante con una sua forma di governo autonomo sino alla fine della prima guerra mondiale - salvo un altro breve periodo di controllo da parte della Repubblica di Venezia e, successivamente, della Francia, che l’occupò dal 1797 al 1805 e che,  dal 1809 al 1813, la conglobò nelle Province Illiriche del suo Impero.

Il destino di Trieste è fortemente collegato ai progetti di sviluppo di Casa D’Asburgo e, in particolare, di Carlo VI. Questi aveva un sogno: quello di creare una potenza marittima e commerciante, tale da competere con le altre grandi Potenze del Mediterraneo. Così, il 18 marzo 1719, mentre i Triestini «vivevano una normale giornata di fatica, ozio, gioie e dolori» (Finzi, 2001, 2) egli emanò un editto che venne chiamato “legge del porto franco”, che riguardava Trieste e Fiume, e che segnò un punto di svolta nella storia della città giuliana. Un sogno molto dispendioso per le casse dell’Impero, che fu condiviso e realizzato dalla figlia dell’Imperatore, Maria Teresa, succeduta al trono paterno dopo diverse traversie. L’Imperatrice d’Austria a sua volta investì nel porto franco notevolissime sostanze, riuscendo in tal modo a trasformare Trieste da un’area urbana di modeste proporzioni e dall’economia ristretta in una città multietnica, in continua espansione grazie alla floridissima attività del suo porto, che ben presto divenne il primo dell’Impero. Maria Teresa ingrandì la città, fece prosciugare e dismise le saline che la circondavano e, al loro posto, fece sorgere un nuovo quartiere, chiamato in suo onore Borgo Teresiano. Questo ampio territorio cittadino si riempì in breve di popolazioni provenienti da  svariati angoli dell’Impero, che trovavano un ambiente favorevole per lo stanziamento.

Quest’epoca gloriosa vide germogliare una Trieste multiculturale, vero crocicchio di lingue, di religioni e di razze. Ma noi non intendiamo soffermarci su tali aspetti storico/culturali, già largamente esaminati da tanti autori.

 

 

La famiglia Nathan

 

Un brulicare di genti diverse animava dunque la città quando Jacov Nathan giunse a Trieste in visita a una delle sue quattro sorelle, sposata a un ricco ebreo dirigente delle linee Lloyd.

Jacov era nato nel 1854 a Bombay, da Mazaltov Cubey e Abram Nathan, un venditore di tappeti originario di Bagdad, buon ebreo, filo-inglese, che per i molti servigi resi alla Corona Britannica fu lautamente ricompensato. Jacov, nato in India e suddito britannico, era rimasto orfano a tredici anni e, ancora in giovane età, si era trasferito in Cina, dove riuscì ad arricchirsi facendo abilmente fruttare il piccolo gruzzolo con cui era partito. Un uomo pratico, commerciante ingegnoso ed accorto, capace di sviluppare il proprio talento e il proprio spirito creativo in un settore basato sulla concretezza. Un vero artista nel suo campo.

A Trieste Nathan trovò un terreno molto fecondo per ingrandire il raggio dei suoi commerci: la città era in vorticosa crescita demografica e la comunità ebraica era all’apice del suo sviluppo economico. In quegli anni, gli ebrei triestini - come ricorda Tullia Catalan - fondarono società di assicurazioni, ditte mercantili, banche private in consorzio con imprenditori di altra fede religiosa. L’Impero Asburgico amministrava le regioni "occupate", lasciando molta libertà alle popolazioni di qualsivoglia credo religioso e, proprio questo rispetto per ogni culto, sancito in tutto il territorio, attirò la simpatia e il crescente interesse di molti ebrei triestini,  i cui giovani iniziarono però a mostrare una progressiva disaffezione per la religione dei padri, bruscamente sostituita da una laicità indotta da un forte investimento in nuove professioni - che poco avevano a che fare con il vecchio commercio e con gli scambi finanziari - e dalle sempre più seducenti attività di natura intellettuale (Catalan, 2005).

Già nel 1842 anche alle comunità non cattoliche furono, inoltre, assegnati fazzoletti di terra per l’inumazione dei loro defunti[2]. E queste straordinarie innovazioni avvenivano sotto l’ala dell’Impero asburgico, forse più liberale e garantista di quella, più intraprendente, rappresentata dalla “Corona Britannica”.

Certamente Jacov subì il fascino della Trieste dell’epoca, cosmopolita e multietnica, politicamente avanzata e in continuo fermento culturale, e si fece catturare dalle infinite opportunità commerciali che essa offriva (Marin, 2010b). In accordo con le riflessioni di Molesi (1991, 30) e, con quelle più recenti, di Polojaz e Kravos (2012), riteniamo che la "ricchezza" di Trieste risiedeva proprio nel fatto di essere e di sentirsi “triestini”, cioè abitanti di un centro plurinazionale e sovranazionale,  dove le varie etnie si potevano incontrare, confrontare ed arricchire nell’integrazione delle loro diverse identità. Posta al crocevia di più popoli, Trieste era aperta alla coltivazione di ogni orientamento spirituale: i triestini più colti leggevano autori russi, francesi, scandinavi, tedeschi e inglesi, discettando di pittura, di musica e di teatro nei loro salotti. Insomma, un luogo libero e moderno. 

Jacov Nathan probabilmente avvertì quest’aria di libertà e di modernità quando arrivò a Trieste e decise di fermarsi per concretizzare i suoi sogni e i suoi desideri.

Pure Alice Luzzatto, nata nel dicembre del 1868 da Giulia Vivante e Raffaele Luzzatto, apparteneva a una famiglia ebrea della media borghesia triestina, che aveva dato sin’anche un deputato al parlamento viennese.

Jacov Nathan conosce Alice Luzzatto, «donna dolce e comprensiva», a casa di una sua sorella, coniugata con un ebreo triestino, facoltoso dirigente assicurativo, e poco tempo dopo si sposano[3].  Dal matrimonio nascono tre figli: Arturo Abramo Raffaele (nato il 17 dicembre 1891 e deceduto a Bieberach nel 1944), Maud (nata nel 1897 e morta nel 1914 per un’influenza) e Daisy, la sorella verso la quale Arturo  nutriva molta tenerezza, che nasce nel 1908 e muore nel 2011 a 103 anni.

Vale la pena rilevare che sia Alice sia Jacov, e le loro famiglie d’origine, entrambe ebree, avevano fruito della potente tutela di due grandi Case regnanti, la “Corona Britannica” e la “Casa D’Austria”, e ne avevano goduto di tutti i benefici. La coppia genitoriale di Arturo Nathan è costituita, quindi, da un padre - rimasto orfano in giovanissima età, capace di “fare una fortuna” con il commercio e approdato a Trieste dopo un lungo viaggio dai lontanissimi confini asiatici -  e una madre gentile, delicata, figlia di quel mondo così caratterizzante la Trieste dell'Ottocento[4].

Ma siamo verso la fine del secolo e molte cose stanno cambiando. Cominciano a manifestarsi conflitti sino ad allora silenti, conseguenza di insanabili contraddizioni e contrasti,  «che porteranno a numerose frizioni, destinate a degenerare in fratture tra le etnie locali» (Marin, 2010b) e causeranno  un lento, inesorabile sbriciolamento della composita tela sociale multiculturale. Si possono così intravvedere le gravi problematiche che oscureranno il futuro prossimo: incertezze e dubbi identitari, di razza e di credo, che a poco a poco smantelleranno le infrastrutture socio-culturali del mondo triestino e della sua economia.  L’epilogo più tragico e funesto di questo periodo di tensioni e di disorientamento sarà rappresentato dallo scoppio della Grande Guerra e  dalle feroci aporie post-belliche.

Il bambino Arturo Nathan, detto Arti, cresce assorbendo le peculiari caratteristiche  relazionali   che

 

provengono dalla sua famiglia[5] e dall’intreccio di legami con l’ambiente triestino, in una contingenza storica quanto mai tormentata.

 

 

Un duro cammino verso l’arte

 

           Arturo è un ragazzo introverso, tranquillo, studioso, molto legato alla madre, per nulla pragmatico. Insomma, un giovane uomo rivolto verso il “mondo interno”, piuttosto che verso la materialità mondana. Questa sua personalità, mite, riflessiva e sognante, si scontra pesantemente con la concretezza del padre, avveduto commerciante, molto occupato nei suoi affari che lo portano spesso lontano da casa. E’ un marito e un padre assai disattento alla vita famigliare, del quale si nota specialmente l’assenza[6]. La madre, invece, è una cara signora, affettuosa, comprensiva, accogliente. Una donna capace nelle sue funzioni materne, non fosse per una profonda sofferenza di fondo, che accompagna la sua esistenza e che, in certi periodi, si accentua al punto da sfociare in franchi quadri depressivi (Accerboni Pavanello, 2004 e Corsa, 2008). In base alle testimonianze documentali raccolte, possiamo ipotizzare che la nascita del suo primogenito, Arturo, sia stata velata da uno screzio depressivo puerperale, che sin dai primi attimi avrebbe segnato il rapporto madre/figlio. Un legame avvolgente ed assoluto, destinato ad oscillare continuamente, con inesorabile pervasività, tra poli emotivi opposti e conflittuali. Ma di questi aspetti diremo oltre.

Non possiamo trascurare, però, di spingere lo sguardo anche fuori dall’ambito familiare e riconoscere che l’infanzia e l’adolescenza di Arti coincidono  con eventi epocali, che trasformano, ribaltandolo, il clima respirato nella città portuale e nell’intero Impero. Verrebbe da chiedersi come i genitori, Jacov e Alice, abbiano affrontato questi straordinari cambiamenti. Quali preoccupazioni abbiano adombrato i loro animi in momenti così contrastati, instabili e foschi? Non lo sapremo mai.

Dalle memorie della sorella Daisy veniamo a conoscenza, invero, che pure  Arturo Nathan è scosso dai violenti turbamenti del tempo e, come tanti altri giovani, si discosta dalla religione d’origine:   secondo la De Vecchi, «Arturo incarna - nella sua opera e nella sua stessa vicenda biografica, così intimamente connesse - quella particolare condizione di disorientamento e di inquietudine esistenziale che investì l’arte triestina di quel periodo, proiettata a riconsiderare un nuovo rapporto con la tradizione e al contempo a confrontarsi con la realtà del presente» (1998, 423).

Egli s’interessa di filosofia; in particolare nutre una vera passione per Nietzsche[7], che condivide con i due pittori triestini Leonor Fini e Carlo Sbisà, suoi grandissimi amici.

Terminati gli studi classici, Arturo fantastica di studiare filosofia, correndo il rischio, forse, di rimanere intrappolato in quella dimensione infantile e sognante – cui hanno spesso accennato le persone che lo hanno ben conosciuto – che sembra preservarlo dagli inevitabili conflitti collegati alla crescita e alla conquista della maturità. Nel contempo  il padre, di sicuro preoccupato dagli incerti panorami politici ed economici che si stanno delineando, decide di inviare il figlio a Londra, presso una sorella sposata con un importante uomo d’affari della City, affinché il ragazzo venga preparato ad entrare e a destreggiarsi nel mondo economico-finanziario internazionale. 

Il giovane non regge la prova; trova l’ambiente profondamente borghese e quella formazione voluta dal padre lontanissima dalla sua più intima indole.  Nel 1911 convince i genitori a sostenere il suo mantenimento a Genova, prestigiosa sede commerciale italiana ma, all’insaputa di tutti, invece che impratichirsi in materie economiche, studia filosofia.

Nel frattempo le cose della famiglia Nathan e quelle del mondo precipitano. Nel 1914, la secondogenita, Maud, la sorella più vicina ad Arti, muore improvvisamente ad appena diciassette anni per aver contratto una terribile forma d’influenza.

Scoppia la Grande Guerra. Il padre, in quanto  cittadino britannico, viene espulso dall’Impero[8] e Arturo viene chiamato alle armi in Gran Bretagna. Qui non assume il grado che gli sarebbe spettato per istruzione e cultura. Si dichiara “pacifista” e di non aver conseguito alcun titolo di studio, ma di essere in possesso solo della terza elementare. Così gli viene assegnato il compito, assai spregevole,  di lavare le latrine a Portsmouth. Si tratta di una situazione indubbiamente molto umiliante, ma che Arturo affronta con dignità. Tale vicenda, se da una parte pare indicare un atteggiamento passivo, remissivo e autopunitivo di Nathan, dall’altra dimostra pure una grande determinazione nel tener fede alle proprie idee. Da obiettore convinto, Arturo ha evitato di imbracciare il fucile con una scelta coerente, seppur dura e mortificante, che gli ha consentito di evitare il carcere inglese per renitenza all’arruolamento.

Questa decisione, comunque, origina anche da uno stato d’animo molto prostrato del giovane triestino. Una seria depressione sembra imprigionarlo; un dolore devastante, causato dalla morte della sorella e dal vedere la madre distrutta da questa terribile perdita, si impossessa di lui, danneggiando irrimediabilmente il suo Sé, facendolo sentire sempre più inadeguato alla vita.

D’altronde la morte lo circonda. Gli orrori della guerra, l’orrore privato per la scomparsa della sorella, l’orrore per la seria depressione materna, l’orrore per l’assenza del padre, che diventerà irrimediabile nel 1918, quando l’uomo decede, per motivi imprecisati, a Napoli. Arturo si trova da solo, in un paese straniero, a fronteggiare tanta, devastante angoscia. L’angoscia di morte, inelaborabile e imperdonabile, avrà soltanto un luogo dove poter essere riversata: le infinite latrine  che raccolgono gli elementi più deteriori del Sé. Una palude mefitica che lo immobilizzerà sino alla fine della conflagrazione mondiale.

Quando rientra a Trieste, nel 1919, Arturo è un ventottenne ormai piegato dalla sofferenza: appare disinteressato all’ambiente, ritirato e versa in uno stato quasi catatonico, come emerge dai racconti di Daisy e degli amici più cari.

La sorella e la madre, accorgendosi della serietà del suo malessere psichico, lo sollecitano ad intraprendere un percorso di cura. Arturo Nathan sceglierà di farsi aiutare dallo psichiatra e psicoanalista locale Edoardo Weiss.

 

 



Ringraziamo sentitamente Maria Masau Dan, direttrice del Museo Revoltella di Trieste, e la Comunità ebraica triestina per il materiale biografico e storico che ci hanno gentilmente concesso di consultare e che è risultato assai prezioso per la realizzazione del presente contributo.

[1] Allora Trieste era nota specialmente per la produzione e il commercio dell’ “oro bianco”, ovvero il sale, fonte fondamentale di sostentamento per i suoi abitanti.

[2] A tal riguardo, nel 2005 Cristina Rovere ha pubblicato un originale saggio, ricco di informazioni specialmente sul cimitero islamico cittadino.

[3] Come racconta con stile un po’ romanzato Daisy Nathan, la figlia minore di Alice e Jacov e sorella del pittore Arturo, i due contrassero le nozze in gran sfarzo il 30 novembre 1890 (1992).

[4] Kaës ci insegna che «il gruppo familiare è uno spazio di iscrizione, fuori dalla psiche individuale, di tracce di esperienze non soggette a rimozione» (Kaës, 2002, 60), che producono effetti diversi sulla mente dei vari membri della famiglia e sui loro legami.  Esso è, inoltre,  il luogo dell’intergenerazionale e del transgenerazionale. Secondo la Nicolò, si può «immaginare un primitivo livello di funzionamento del gruppo familiare, che alcuni autori hanno chiamato "Sé gruppale", da cui si differenzia ciascuno dei membri attraverso un processo continuo di soggettivazione  e personalizzazione» (Nicolò, 2005, 241).

[5] Riprendiamo ancora il pensiero della Nicolò, quando afferma che il bambino, alla nascita, «si inserisce in una rete fantasmatica di relazioni, rispetto a cui interagirà modificandosi. In un certo senso esiste già un posto relazionale e fantasmatico predeterminato per cui e con cui dovrà confrontarsi. Questo è chiaro se consideriamo ad esempio l'influenza nel soggetto dei nomi che vengono tramandati di generazione in generazione o ancora i rapporti di filiazione: essere primogeniti o ultimogeniti»  (1996, 17).

[6] Eiguer si interroga: «Ma, cosa ci si aspetta da un padre? Che sia capace di ascolto quando gli si parla di una difficoltà  o gli si chiede aiuto. In altre parole, che sia in grado di capirci e, se possibile, di orientarci o di assisterci» (2005, 28). 

[7] Potremmo arditamente interpretare questa sua fascinazione per Nietzsche come il recupero riparativo di un codice maschile, essendo assai carente quello del proprio padre.  Arturo pare alla ricerca di un padre putativo, più vicino al suo modello idealizzato, che a quello reale. Il mito di un padre commerciante ebreo, dominante e vincente, è insostenibile per Arti e viene prontamente sostituito dalla figura del geniale pensatore tedesco.

[8] Apprendiamo sempre dalla voce di Daisy che il padre era stato mandato al confino a Graz, in Austria, dove la famiglia avrebbe dovuto ricongiungersi quanto prima, ma che questo progetto non era andato a buon fine. Jacov riuscì comunque a fuggire e, dopo mille perigli, a rientrare in Italia per fermarsi a Napoli, dove abitavano alcuni parenti della moglie. Colà morì nel 1918, d’infarto o di diabete (Mapelli, 2011).

 

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(fine della prima parte - il testo nella sua interezza verrà pubblicato in un libro delle Edizioni Frenis Zero)

 

 

 

 
 
 
 
   

 

 

 

 

 

 

 

 

   

 

 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   
 
 

 

   
   
 

 

   
   
   
 

 

   
   
   
   
   
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
   
 

 

 

 

 

 

 

 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

   

 

 

 

 

 

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