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AA.VV., "Lo
spazio velato. Femminile e discorso
psicoanalitico"
a cura di G. Leo e L. Montani (Editors)
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
Collana: Confini della psicoanalisi
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Writings by: A.
Cusin, J. Kristeva, A. Loncan, S. Marino, B. Massimilla, L.
Montani, A. Nunziante Cesaro, S. Parrello, M. Sommantico, G.
Stanziano, L. Tarantini, A. Zurolo.
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Woolf
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
ISBN: 978-88-97479-01-7
Anno/Year: 2011
Pages: 672
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"Vite soffiate. I vinti della
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Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
Preface: Alberto Angelini
ISBN: 978-88-903710-5-9
Anno/Year: 2011 (2nd Edition)
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"Psicoanalisi e luoghi della negazione"
a cura di A. Cusin e G. Leo (Editors)
Writings by: J.
Altounian, S. Amati Sas, M. Avakian, A. Cusin, N. Janigro, G. Leo,
B.E. Litowitz, S. Resnik, A. Sabatini Scalmati, G. Schneider, M. Šebek,
F. Sironi, L. Tarantini.
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
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Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
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"Id-entità mediterranee.
Psicoanalisi e luoghi della memoria" a cura di Giuseppe Leo
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Writings by: J.
Altounian, S. Amati Sas, M. Avakian, W. Bohleber, M. Breccia, A.
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Gampel, H. Halberstadt-Freud, N. Janigro, R. Kaës, G. Leo, M.
Maisetti, F. Mazzei, M. Ritter, C. Trono, S. Varvin e H.-J. Wirth
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
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"La Psicoanalisi e i suoi
confini" edited by Giuseppe Leo
Writings by: J.
Altounian, P. Fonagy, G.O. Gabbard, J.S. Grotstein, R.D.
Hinshelwood, J.P. Jiménez, O.F. Kernberg, S. Resnik
Editore/Publisher: Astrolabio Ubaldini
ISBN: 978-88-340155-7-5
Anno/Year: 2009
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"La Psicoanalisi. Intrecci Paesaggi
Confini"
Edited by S. Fizzarotti Selvaggi, G.Leo.
Writings by: Salomon Resnik, Mauro Mancia, Andreas Giannakoulas,
Mario Rossi Monti, Santa Fizzarotti Selvaggi, Giuseppe Leo.
Publisher: Schena Editore
ISBN 88-8229-567-2
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Le scienze si fanno
prestiti reciproci,
ma si limitano
generalmente a prestarsi
cose vecchie di trenta o quaranta anni.
(
Whitehead 1934)
La frase di Whitehead
in esergo rappresenta un po’ la trama di fondo delle considerazioni
che proveremo a sviluppare; parafrasandola,
può risultare utile a delimitare un problema, ovvero: quali
strategie delineare affinché tra conoscenze scientifiche, modelli
terapeutici, governance dei servizi e campo legislativo si produca
efficace “ agire comunicativo”.
In altri termini,
riferendosi a Robert Castel, come fare in modo che gli elementi
costituenti l’ordine psichiatrico possano andare verso metamorfosi,
segno del passaggio ad altra coerenza, e non mutare per semplici
cambiamenti seriali.
Come è noto, Castel
si proponeva di assiomatizzare il sistema dei dati che costituiscono
una ” politica della salute mentale”, articolando un numero finito
di elementi: un
codice teorico (per esempio, nel XIX secolo, le nosografie
classiche); una tecnologia d’intervento ( per esempio il
“trattamento morale”), un dispositivo istituzionale ( per esempio
il manicomio); un corpo di professionisti ( per esempio i medici
primari), uno statuto dell’utente ( per esempio l’alienato
definito come minore assistito dalla legge del 1838 in Francia)
Semplificando:
al manicomio stava la dementia praecox e la privazione dei
diritti civili degli internati.
Nell’alveo di tale
concettualizzazione, oggi, dovremmo far corrispondere al modello della
vulnerabilità una politica della salute mentale di comunità ed una
attenzione ai diritti civili: cittadinanza, inclusione, integrazione (
in sintesi: dalla legge di riforma 180 alla Convenzione di Oviedo,
alla legge sull’Amministrazione di sostegno).
Se a un cambiamento in un “elemento” non corrispondono
mutamenti negli altri, anche le riforme più avanzate possono essere
riassorbite e neutralizzate.
“La relativa stabilità dell’insieme non esclude né conflitti,
né tensioni, né crisi, né slittamenti, né nuovi equilibri, né
mutamenti. Ma bisogna distinguere un cambiamento, per quanto
importante, in una serie, e la trasformazione del’insieme del
dispositivo. Rispetto ai cambiamenti seriali, chiamo metamorfosi la
trasformazione dell’insieme degli elementi del sistema” ( Castel 1976)
Recentemente,
Thornicroft e Tansella nell’auspicare la programmazione di
“Una migliore assistenza psichiatrica” hanno proposto di
riferirsi a tre principi gerarchicamente disposti: quelli etici,
quelli derivanti da evidenze scientifiche e infine quelli derivanti da
esperienze di buone pratiche cliniche; e di prestare attenzione alla
dimensione geografica (secondo i livelli: nazionale/regionale, locale
ed individuale) e alla dimensione temporale ( fase degli input, del
processo e degli outcome) (Thornicroft e Tansella 2010).
Nell’ambito della
riabilitazione psicosociale, e della salute mentale in generale,
risulta prioritario tradurre le
indicazioni derivanti dalla ricerca in pratiche dei servizi, di
adeguare i percorsi di cura a evidenze scientifiche.
“I cambiamenti dei setting operativi ed il miglioramento
qualitativo delle tecniche di intervento passano inevitabilmente
attraverso una decisa apertura alle acquisizioni derivanti da altri
ambiti di ricerca” (Maj 2010). L’agire della riabilitazione psicosociale può
arricchire la propria identità con i dati provenienti dalla ricerca
neurobiologica, attingendo elementi provenienti dal cognitivismo ( sia
dalle scienze cognitive che dai modelli clinici), dal ricco patrimonio
della psicopatologia clinica e fenomenologica, dai modelli
psicodinamici e comportamentali. Non si tratta di eclettismo, ma di
riuscire a dotarsi di modelli, tecniche e strumenti
di intervento.
In una riflessione sui trattamenti riabilitativi, il
disporre di modelli eziopatogenetici, atti a descrivere i
fattori di insorgenza e mantenimento delle patologie, e di dati
relativi l’efficacia dei trattamenti disponibili, consente
l’elaborazione di strategie d’intervento e la possibilità di
affrontare, tra l’altro, la gravosità di interventi protratti nel
tempo per pazienti ed operatori.
Per iniziare, un incipit classico:
“ Le aspettative
degli ottimisti presuppongono, è chiaro, svariate cose che non sono
propriamente pacifiche: in primo luogo, che sia davvero possibile
risolvere definitivamente e una volta per tutte un conflitto
pulsionale (o per dir meglio un conflitto dell’Io con una pulsione);
secondariamente, che durante il trattamento per un conflitto
pulsionale si possa in certo qual modo vaccinare il soggetto contro
ogni altro eventuale conflitto analogo; e, in terzo luogo, che si
abbia il potere di destare, ai fini di una terapia preventiva, uno di
questi conflitti patogeni di cui al momento non è dato di scorgere
traccia alcuna, e che farlo sia cosa saggia “ (Freud 1937).
Quale metafora migliore per rappresentare
la presenza di una sorta di noumeno generatore di patologia.
A determinare le caratteristiche dei “trattamenti protratti nel
tempo”, concorrono da un lato, dunque, gli elementi provenienti dal
territorio del “patologico” e dall’altro quello della
pianificazione e realizzazione degli interventi ( con altra
terminologia: processi ed esiti delle attività terapeutiche).
Per quanto riguarda i trattamenti, le osservazioni di Saraceno,
anch’esse classiche ormai, rappresentano
una sorta di manifesto della “cura”:
“ La rottura
dell’intrattenimento non è quindi una semplice rinuncia passiva
alla pratica della psichiatria ma, al contrario, è una ricerca
teorica e pratica delle strade quotidiane per operare microrotture
della miriade di microintrattenimenti, disvelando la miriade di
risorse e modi di operare che concorrono alla ricostruzione della
piena cittadinanza del paziente psichiatrico “ (Saraceno 1995).
Nel prosieguo, si tenterà di discutere intorno ad alcuni topos della organizzazione dei servizi e
della cura: cronicità versus vulnerabilità, appropriatezza degli
interventi, l’organizzazione dei
servizi e la Comunità, il paziente grave, la
deistituzionalizzazione (DI)/Reistituzionalizzazione (RI), le Comunità
terapeutiche e i trattamenti protratti, il supported housing, la
gravosità della cura, la normalità e il recovery, le pratiche nei
servizi.
Hic
Rhodus hic salta
Ovvero,
il rompicapo, come tradurre nella pratica i dati delle evidenze
Cronicità
versus vulnerabilità
Cronicità e
difettualità, per molti decenni del novecento, hanno rappresentato
elementi essenziali del paradigma kraepeliniano della schizofrenia.
Gli studi epidemiologici sui decorsi ed esiti
delle sindromi schizofreniche, a partire dagli anni ’70,
falsificando il concetto di cronicità e difettualità hanno
rivoluzionato il tradizionale modello della schizofrenia.
Un altro filone di
ricerca, a partire dallo stesso periodo, che ha notevolmente
contribuito al cambiamento
di paradigma interpretativo sulla sindrome schizofrenica, è stato
rappresentato dal cosiddetto modello della vulnerabilità (Zubin e
Spring 1977).
Alla luce dei
risultati di questi studi empirici e di questo nuovo quadro di
riferimento non è più possibile assimilare schizofrenia a cronicità.
La schizofrenia non è una malattia cronica il cui organizzatore
psicopatologico è rappresentato dalla ingravescente demenzialità, ma
non è nemmeno riducibile alla "sindrome di Schneider" e cioè
ad una costellazione di sintomi acuti e produttivi che di fatto
compaiono in talune fasi del percorso schizofrenico (Rossi Monti e
Stanghellini 1999).
Gli studi
sull’esito clinico e sociale della schizofrenia sono assai numerosi
(Ruggeri e Lasalvia 2003) e ricchi di dati, a partire dagli studi
longitudinali retrospettivi di “ prima generazione” ( Bleuler
1974, Huber et al. 1975, Ciompi 1980, Winokur e Tsuang 1975) che evidenziavano, in studi catamnestici assai
prolungati nel tempo ( 23 anni, nello studio di M. Bleuler, e 37 anni
in quello di Ciompi) la presenza di diversi pattern di decorso e differenti
pattern di esito.
In particolare, nello
studio di M. Bleuler risultavano individuati otto diversi pattern di
decorso e quattro differenti pattern di esito: esito favorevole nel
20% dei casi (remissione completa della sintomatologia e presenza di
un soddisfacente funzionamento sociale nel corso degli ultimi cinque
anni); remissione incompleta dei sintomi associata a un adeguato
funzionamento per il 32% dei soggetti; nel 24% dei casi una remissione
incompleta dei sintomi in presenza di un funzionamento adeguato solo
in alcune aree, e un esito sfavorevole ( caratterizzato da
sintomatologia persistente, ritiro sociale ed incapacità lavorativa)
nel restante 24%.
Nello studio di
Ciompi venivano descritti otto diversi pattern di decorso, tra i più
frequenti quello caratterizzato da esordio acuto, andamento fasico,
esito con remissione o disturbi lievi ( 25% ), un secondo
contraddistinto da esordio cronico, evoluzione semplice, esito con
disturbi moderati o gravi ( 24% ) e uno con esordio cronico e
andamento fasico nel 15% dei casi; e quattro pattern di esito:
remissione completa della sintomatologia nel 27% dei soggetti,
condizione di lieve deterioramento nel 22% dei casi, deterioramento
moderato nel 24% ed una condizione di grave deterioramento nel
restante 18% dei soggetti
(Ruggeri e Lasalvia
2003). Le dimensioni cliniche e sociali dei decorsi e degli esiti
seguono percorsi che configurano modelli a sistemi aperti, dotati di
relativa autonomia (Eaton et al. 1998).
Un vasto insieme di
ricercatori ha contribuito all’elaborazione del concetto di
vulnerabilità. Nel 1977,
Zubin e Spring proposero un modello della vulnerabilità, in cui
sostenevano che: “ i sintomi schizofrenici emergono quando soggetti vulnerabili sono
sottoposti ad accadimenti stressanti soprasoglia di origine esogena
(eventi esterni) o endogena (eventi biochimici)” (Zubin e Spring
1977).
Analogamente,
Nuechterlein e Dawson nel 1984 descrissero un modello vulnerabilità/stress
per lo studio dello sviluppo di episodi schizofrenici. Caratteristiche
di vulnerabilità individuale (quali riduzione della capacità di
elaborazione, iperreattività del sistema nervoso autonomo agli
stimoli stressanti, deficit della competenza sociale ed adattabilità)
interagendo con stimoli ambientali stressanti possono dar luogo ad
episodi schizofrenici (Nuechterlein e Dawson 1984). Nello stesso
periodo e provenendo da tradizione psichiatrica differente, Ciompi
proponeva un modello di vulnerabilità nel quale assumevano importanza
gli schemi logico-affettivi di riferimento (Ciompi 1982). Al concetto
di vulnerabilità individuale sono state rivolte ricerche da parte di
Carlo Perris. Nel modello di Perris si assume che la vulnerabilità
individuale non sia esclusivamente di tipo biologico, ma sia il
risultato di interazioni continue tra fattori biologici e psicosociali,
che avvengono nel corso dello sviluppo ( anche nel contesto di
relazioni precoci) e determinano l’interiorizzazione di modelli
operativi interni di sé e delle relazioni con gli altri più
o meno adattivi (Perris 1989). Interessante risulta il
tentativo, operato da Stanghellini, di confrontare il modello della
vulnerabilità con quello dei sintomi ( o fenomeni) base elaborato
dalle scuole tedesche (Stanghellini 1997).
Al di là della
dicotomia acuzie-cronicità si situa il concetto di vulnerabilità
secondo il quale ciò che perdura nel tempo sono tratti preesistenti e
persistenti identificati come esperienze disturbanti dal soggetto
stesso, a partire dalle quali possono svilupparsi - in particolari
condizioni di sollecitazione ambientale - fenomeni psicotici
conclamati (Rossi Monti e Stanghellini 1999).
Dovremmo provare
adesso, dopo questo breve excursus sui concetti di cronicità e
vulnerabilità, a trarre delle indicazioni per le pratiche
riabilitative, ovvero delineare le modalità di offerta/utilizzo dei
servizi, in relazione ai bisogni di cura.
Come è noto, gli
studi epidemiologici sul decorso ed esito della schizofrenia, hanno
reso inservibile il concetto di cronicità. Eppure alcuni modelli
organizzativi, pensiamo per esempio ad aspetti della
residenzialità sono stati forgiati riferendosi a tale modello.
Proviamo a specificarlo meglio. La filiera residenziale, comunità
riabilitativa h 24, comunità alloggio h 12, gruppi appartamento nasce
con l’idea di porsi in antitesi alla cronicità ma ne resta
nell’orizzonte concettuale. In tanto perché prevede una
riacquisizione lineare delle abilità e si
espone a produrre
“residui”, ovvero fasce di pazienti che non rispettando il timing
di miglioramento progressivo sono destinati ad essere accolti in
strutture assistenziali.
Il modello della
vulnerabilità, viceversa, può essere declinato in modalità
organizzative che prevedano l’utilizzo di tecniche,
strumenti e luoghi, adattabili al cangiante livello di
gradiente vulnerabilità/stress. Per tale motivo guardiamo con
interesse, nell’ambito della residenzialità, al movimento del
supported housing quale utile strumento di integrazione.
Lo studio dei sintomi prodromici, delle disfunzioni che precedono il
conclamarsi della malattia, le trasformazioni del profilo fenomenico
delle psicosi, legato anche agli effetti
dei farmaci antipsicotici, l’intreccio con i disturbi di
personalità e le dipendenze (Rossi Monti 2008), esigono un nuovo
declinarsi di modelli di presa in carico.
Appropriatezza
degli interventi
In un editoriale pubblicato nel 2003 sulla
rivista “Psichiatria di Comunità”, Lorenzo Burti proponeva di
distinguere nelle pratiche della riabilitazione psichiatrica,
sviluppate in Italia nei 25 anni successivi alla legge di riforma
psichiatrica, quattro
modelli generali (Burti 2003, Burti 1996, Burti e Yastrebov 1993). Il
primo, derivante dall’accudimento
istituzionale, concettualizzato sotto il termine di cura da
Racamier (Burti 2003), in cui prevale l’attenzione allo stile del
rapporto con il paziente, caratteristica mutuata dalla tradizione
psicodinamica e nel quale, tuttavia, appare carente una teoria
della disabilità.
Il secondo, formulato con riferimento al
modello biopsicosociale , si propone il trattamento specifico
ed efficace della disabilità ed il conseguimento
della guarigione sociale. Attinge ai
dati della ricerca empirica, soprattutto nell’ambito
dell’approccio cognitivo-comportamentale e degli studi di follow-up
a lungo termine dei disturbi psichici gravi, tipicamente la
schizofrenia (Burti 2003, Lasalvia
e Ruggeri 2003).
Il
terzo modello identifica la riabilitazione con la presa in carico a
lungo termine a livello di comunità; privilegia
l’integrazione degli interventi e dei servizi, la continuità
terapeutica, l’organizzazione dipartimentale.
Il quarto modello vede il protagonismo
dell’utente, come lavoratore imprenditore, nell’impresa sociale (WHO
2001) e come associato ad altri utenti a difesa dei diritti comuni,
nel movimento del self-help psichiatrico (Burti e Guerriero 2003).
La presenza di diversi modelli, a nostro
avviso, può rappresentare una ricchezza. Imprescindibile, tuttavia,
appare il dotarsi, per ogni pratica da progettare e realizzare, di una
metodologia valutativa che si occupi del “che cosa e come si fa”
(valutazione di processo) e del “che cosa si ottiene” (valutazione
di esito). Il processo di valutazione può applicarsi alla validità e
alla coerenza di modelli e all’efficacia di tecniche e programmi in
una visione “evidence-based”, o ancora riguardare la valutazione
dei servizi e dei programmi riabilitativi (Burti
2003).
A tal proposito, in letteratura è possibile
rinvenire una gran mole di ricerche e di linee guida.
Per quanto riguarda per esempio la
schizofrenia, le linee guida NICE, tra le altre, rappresentano una
fonte documentata e rigorosa di dati. Da queste, a titolo meramente
esemplificativo, proponiamo una rassegna degli interventi psicosociali
e dei modelli organizzativi dei servizi valutati nel trattamento della
schizofrenia (NICE 2002).
Gli interventi psicologici nel trattamento e nella gestione della
schizofrenia (NICE 2002)
•
La terapia
cognitivo-comportamentale
•
La cognitive
remediation
•
Il counselling e la
psicoterapia di sostegno
•
Gli interventi
familiari
•
La psicoterapia
psicodinamica e la psicoanalisi
•
Psicoeducazione
•
Il social skills
training
I modelli organizzativi dei servizi nel trattamento e nella gestione
della schizofrenia (NICE 2002)
•
I team territoriali
di salute mentale
•
L’assertive
outreach (la presa in carico intensiva sul territorio)
•
Il trattamento in day
hospital per acuti
•
La riabilitazione
lavorativa
•
L’assistenza in day
hospital per utenti non acuti
•
I team di gestione
della crisi e trattamento domiciliare
•
Gli interventi
precoci
•
Il case management
intensivo
•
L’interfaccia tra
medicina di base e specialistica
Gli esiti principali presi in considerazione nella valutazione degli
interventi psicologici e psicosociali sono rappresentati da indicatori
quali il suicidio, le ricadute, la riduzione dei sintomi e permanenza
in trattamento. L’efficacia documentata riguarda indicatori clinici
quali recidive e psicopatologia.
Per quanto riguarda la terapia Cognitivo-comportamentale, nella
revisione sono stati inclusi 13 RCT che hanno fornito dati su 1297
partecipanti. Tutti i soggetti di questi studi assumevano anche
farmaci antipsicotici, e nella maggior parte dei casi, la CBT era
indirizzata a soggetti con psicosi di lunga durata o resistenti al
trattamento. Gli interventi cui erano sottoposti i gruppi di controllo
erano l’”assistenza standard”, attività ricreative, counselling
informale o di supporto. Dieci studi sono stati condotti nel Regno
Unito, due negli USA e uno in Israele.
•
Esistono prove
d’efficacia che i programmi terapeutici CBT di maggior durata ( più
di tre mesi) riducano i tassi di ricaduta in misura superiore ad ogni
altro intervento
•
Solo tre RCT sui 13
presi in considerazione hanno riportato informazioni sul suicidio e,
sebbene siano stati riportati due suicidi nei gruppi di controllo e
nessuno nei pazienti in trattamento con CBT, i dati sono insufficienti
per poter trarre delle conclusioni
•
La CBT riduce i
sintomi alla fine del trattamento e 9-12 mesi dopo la conclusione del
trattamento stesso, quando confrontata con l’”assistenza
standard” o con altri interventi
•
Esistono forti prove
d’efficacia che la CBT migliori lo stato mentale, rispetto alla
“assistenza standard”, alla fine del trattamento (punteggi finali alla PANSS/BPRS/CPRS)
•
Esistono forti prove
d’efficacia che la CBT migliori i livelli d’insight alla fine del
trattamento rispetto alla assistenza standard
•
In uno studio, i
miglioramenti nel livello di insight erano ancora significativi 5 anni
dopo la fine del trattamento
La
cognitive remediation
I primi studi hanno
riportato alcuni successi, almeno per quanto riguarda il miglioramento
delle performance in test cognitivi specifici. E’ stato, tuttavia,
messo in dubbio che i miglioramenti fossero generalizzabili ai compiti
quotidiani che utilizzano la stessa funzione cognitiva. Elementi
tratti dalle tecniche di cognitive remediation sono stati integrati
con altri interventi psicosociali (Brenner et al. 1990).
•
La revisione non ha
riportato evidenze attendibili circa l’efficacia della cognitive
remediation nel migliorare gli outcome delle persone affette da
schizofrenia, sia per quanto riguarda le funzioni cognitive obiettivo
di trattamento, che per gli outcome più importanti, come la riduzione
dei sintomi.
Più recentemente,
tuttavia, McGurk e coll., in una meta-analisi condotta su ventisei RCT
includenti 1151 soggetti, hanno riscontrato che la cognitive
remediation produce miglioramenti nelle performance cognitive e,
quando combinata ad altri interventi riabilitativi (Social skills
training), migliora anche il funzionamento sociale (
McGurk et al. 2007).
Gli
interventi familiari
•
Esistono forti prove
d’efficacia che gli interventi familiari migliorino gli esiti nelle
persone affette da schizofrenia che vivono con i loro familiari ( o
che hanno uno stretto rapporto con loro), soprattutto nella riduzione
dei tassi di ricaduta sia durante il trattamento che fino a 15 mesi
dopo la conclusione dello stesso.
•
Gli interventi
familiari sono, inoltre, efficaci nel ridurre i tassi
di ricaduta per chi ha presentato delle ricadute recentemente
ed in coloro che sono ancora sintomatici dopo la risoluzione di un
episodio acuto.
•
I benefici sono più
evidenti se il trattamento è protratto per un periodo di 6 mesi o più
e se a queste è prevista la partecipazione del paziente.
•
Il trattamento con
interventi familiari può essere meno accettabile se offerto come
intervento di gruppo multi-familiare.
•
Le prove
d’efficacia sono insufficienti per valutare se i tassi di suicidio
siano condizionati dagli interventi familiari.
La
psicoterapia psicodinamica e la psicoanalisi
•
La revisione ha
sintetizzato i dati provenienti da tre RCT, includendo 492
partecipanti
•
Non era disponibile
alcuna prova d’efficacia per poter determinare se la psicoterapia
psicodinamica associata ai farmaci, in confronto al trattamento
farmacologico da solo, migliorasse gli esiti fondamentali di riduzione
dei tassi di ricaduta o dei sintomi o dell’accettabilità del
trattamento.
•
Gli utenti del
servizio che usufruiscono di una psicoterapia psicodinamica
individuale insight-oriented, in confronto a quelli che ricevono una
psicoterapia “ di adattamento” alla realtà, presentano tuttavia,
una maggiore probabilità di rimanere nello studio al follow-up a 6,
12 e 24 mesi
•
Non sono state
riscontrate prove d’efficacia consolidate che suggeriscano che la
terapia psicoanalitica o psicodinamica in associazione ai farmaci,
quando confrontata con il solo trattamento farmacologico, migliori
l’esito nelle persone affette da schizofrenia.
•
Esistono prove
d’efficacia insufficienti per raccomandare l’uso
della psicoterapia psicoanalitica o psicodinamica nel
trattamento di routine delle persone affette da schizofrenia.
Psicoeducazione
•
Dieci RCT che
includevano 1070 partecipanti.
•
La revisione ha
riscontrato forti prove d’efficacia che la psicoeducazione, in
confronto alla assistenza standard,non ha effetto sui tassi di
ricaduta.
•
Esistono prove
d’efficacia che la psicoeducazione, rispetto alla assistenza
standard,possa migliorare lo stato mentale e l’adesione al
trattamento.
•
Non sono state
riscontrate prove d’efficacia che esista un miglioramento nei
livelli di insight.
Social
skills training
Le Linee guida NICE
per la schizofrenia definiscono i programmi di social skills training
come: “qualsiasi intervento
psicosociale strutturato, di gruppo e/o individuale, con lo scopo di
migliorare le performance sociali e ridurre lo stress
e le difficoltà nelle situazioni sociali”.
Il SST è stato
sviluppato come una strategia terapeutica derivata dalle tradizioni
dell’apprendimento comportamentale e sociale.
•
Nove RCT includenti
436 utenti dei servizi.
•
La revisione ha
riscontrato prove d’efficacia insufficienti per poter valutare se il
SST riduca i tassi di ricaduta.
•
Il Social Skills
Training, rispetto alla assistenza standard:
•
Migliora lo stato
mentale ( misurato con le scale: BPRS e
SANS)
•
Migliora
il funzionamento sociale (misurato con la Behavioural
Assessment Task)
L’assertive
outreach ( la presa in carico intensiva sul territorio)
La presa in carico intensiva sul territorio ed i modelli
assistenziali simili sono interventi di lunga durata per le persone
affette da disturbi mentali gravi e duraturi.
•
Sono stati inclusi
nella revisione 22 studi RCT, con dati su 3722 soggetti.
•
Gli studi inclusi
dovevano conformarsi alla definizione dell’ACT.
•
I trattamenti di
confronto erano l’assistenza territoriale standard, la
riabilitazione ospedaliera e il case management.
•
Gli studi sono stati
inclusi nella revisione solo nel caso in cui i partecipanti fossero
affetti da “disturbo mentale grave”.
L’effetto dell’ACT sull’utilizzo dei Servizi:
•
La maggior parte
degli studi condotti in USA.
•
Le prove
d’efficacia mostrano che, per le persone affette da disturbi mentali
gravi, la presa in carico intensiva sul territorio migliora il
contatto con i servizi, riduce l’utilizzo dei posti letto e i
ricoveri ospedalieri ed accresce la soddisfazione per i servizi
rispetto all’assistenza territoriale standard.
•
Le persone che
ricevono l’ACT hanno maggiori probabilità di rimanere in contatto
con i servizi.
•
I team dell’ACT
riducono la probabilità di ricovero ( rispetto alla assistenza
standard e alla riabilitazione ospedaliera): riduzione media dei
ricoveri del 40%.
L’effetto dell’ACT sulla condizione abitativa e sul lavoro
•
Gli utenti dei
servizi che ricevono l’ACT hanno minori probabilità di essere senza
fissa dimora.
•
Esistono forti prove
d’efficacia che suggeriscono che le persone che ricevono l’ACT
hanno minori probabilità di rimanere disoccupate alla fine dello
studio rispetto agli utenti che usufruiscono dell’assistenza
territoriale standard.
L’effetto dell’ACT sui sintomi e sulla qualità di vita
•
Gli utenti dei
servizi che usufruiscono dell’ACT hanno maggiori probabilità di
andare incontro a miglioramenti modesti sia dello stato mentale che
della qualità di vita rispetto a quelli che ricevono l’assistenza
standard.
Negli ultimi 25 anni, numerosi studi hanno evidenziato la capacità
degli interventi psicoeducativi familiari (IPF) di incidere
positivamente sull’esito clinico della schizofrenia (McFarlane et
al. 2003). Questi interventi, a orientamento cognitivo
comportamentale, condividono alcuni principi, quali:
a) l’utilità per utenti e familiari di ricevere informazioni
dettagliate sulle caratteristiche cliniche della schizofrenia e sulle
cure disponibili;
b) la necessità di rendere utenti e familiari più capaci di
affrontare le situazioni potenzialmente stressanti attraverso il
rafforzamento delle abilità di comunicazione e di problem solving.
I dati degli studi randomizzati controllati evidenziano che questi
interventi sono significativamente più efficaci di quelli di routine
nel ridurre le ricadute della schizofrenia, con percentuali del 6-12%
vs 41-53% a 1 anno e del 17-40% vs 66-83% a 2 anni (Goldstein et al.
1978, Falloon 1985, Hogarty et al. 1991, Magliano e Fiorilli 2007).
Tenendo conto delle evidenze scientifiche disponibili, numerose
linee-guida raccomandano gli IPF come trattamenti elettivi,
congiuntamente a quelli farmacologici, per la cura della schizofrenia
(NICE 2002, Lehman et al. 2004, Gaebel et al. 2005). Da uno studio di
Magliano e coll., emerge che in Italia, nonostante l’80% delle
famiglie dei pazienti con schizofrenia abbia un contatto regolare con
i SSM, solo l’8% riceve un intervento strutturato di questo tipo (Magliano
et al. 2002: Magliano e Fiorilli 2007).
La rassegna, se pur sommaria, dei modelli della riabilitazione e di
alcuni dati della letteratura meritano
riflessioni ulteriori. Se è pur vero che i dati provenienti dalla
ricerca evidence-based si riferiscono principalmente ad indicatori
clinici e psicopatologici e dovrebbero essere integrati da dati di
outcome che valutino anche altre dimensioni (opinioni di utenti e
familiari, qualità della vita), l’osservazione riportata della
scarsa implementazione nei servizi di tecniche e programmi a forte
impatto di efficacia (Magliano e Fiorilli 2007) resta un problema
aperto.
L’appropriatezza degli interventi rappresenta un problema
ineludibile nelle politiche di organizzazione dei servizi. Siamo
convinti che una teoria della tecnica può risultare utile solo se
sostenuta da una teoria della cura e che in assenza di entrambe, nel
migliore dei casi, possa
solo darsi intrattenimento. Il trattamento dei pazienti difficili
presuppone l’elaborazione/falsificazione di modelli psicopatologici,
atti a spiegare genesi e mantenimento nel tempo dei disturbi
psicopatologici e la formulazione di una teoria della tecnica
congruente alla teoria clinica. La riabilitazione psicosociale ha
bisogno, per l’elaborazione di progetti riabilitativi efficaci, di
attingere ai dati provenienti dai modelli psicopatologici elaborati in
ambito clinico e psicoterapico. Proprio l’attenzione alle teorie
della cura formulate, tra le altre,
nei campi disciplinari di area cognitivo-comportamentale e
psicodinamica potrebbero consentire ai differenti modelli
riabilitativi l’elaborazione di teorie della tecnica. Recentemente,
Shedler in una revisione di numerose meta-analisi ha sottolineato
l’efficacia della psicoterapia psicodinamica oltre che nella
depressione e disturbi d’ansia, anche nei disturbi di personalità (Shedler
2010). Analoghi risultati sono stati riportati da Leichsenring
sull’efficacia della psicoterapia psicodinamica a lungo termine (
Leichsenring e Rabung 2008). Nei disturbi di personalità
borderline un modello di derivazione comportamentale, supportato da
numerose ricerche evidence-based,
è rappresentato dalla Dialectical
behavior therapy (DBT) elaborato
da M. Linehan (Linehan 1993). Nel campo della psicoterapia
cognitivo-comportamentale, da alcuni decenni, si sono moltiplicati
interventi per soggetti schizofrenici ( Tai e Turkington 2009; Chadwick
et al. 1996, Fowler et al. 1995, Wykes et al. 2008, Kingdon e
Turkington 1994).
I
servizi e la Comunità
Un concetto che meriterebbe di essere ripensato e declinato nella
prassi psichiatrica è senz’altro quello di “Comunità”. Il
termine possiede molte ascendenze in campo filosofico, nel nostro
ambito spesso è divenuto sinonimo di “ territorio “: storia e
geografia che si sovrappongono.
“Un buon servizio psichiatrico territoriale è virtualmente
invisibile”, affermava Julian Leff,
quando, circa un decennio fa, evidenziava lo scarto evidente tra i risultati della
deistituzionalizzazione e delle pratiche di psichiatria di comunità e
l’immagine sociale di esse, compresa la scarsa soddisfazione degli
utenti e delle loro famiglie: “ Provate
a chiedere a un qualunque gruppo di persone non addette ai lavori che
cosa pensi dell’assistenza psichiatrica territoriale e la maggior
parte di loro, se non addirittura tutti, vi risponderà che è
fallita. L’espressione “sul territorio” è perfino entrata nel
gergo comune a indicare che una persona è “giù di testa” o
“fuori” (Leff 2002).
A tal proposito, Ferrannini notava: “ Leff invita a riflettere sulla invisibilità del servizio
psichiatrico territoriale (e dei suoi operatori e strumenti) in
contrasto con la percezione ridondante dei pazienti gravi, considerati
ancora, nell’ambito di processi di stigmatizzazione, causa di
fenomeni sociali ad alto impatto emotivo (persone senzatetto,
comportamenti violenti, ecc.)”. (Ferrannini 2002).
D’altro canto, lo stesso concetto di “territorio” andrebbe
ripensato. Costrutto polisemico e non riducibile al solo polo
“geografico” : “Se vogliamo comprendere che cosa si intende operativamente per servizio
di salute mentale di comunità, occorre introdurre il concetto
di relazione di comunità,
che dilata il tradizionale concetto di relazione terapeutica dal
tradizionale setting medico duale a un setting allargato, che coincide
con l’intera comunità sociale e incrocia alcuni concetti per noi
essenziali come quello di lavoro di gruppo multidisciplinare,
continuità terapeutica e presa in carico. Lo spazio definito come
“relazione di comunità” si configura come la relazione tra il
sistema “servizio” e il sistema “comunità”. (Corlito 2007
).
Nel ripensare il territorio, potrebbe anche rientrare la
concettualizzazione dei dipartimenti secondo due linee:
·
Dipartimento
territorializzato per tutte le funzioni (si trattano solo i pazienti
della catchment area) ;
·
Dipartimento deterritorializzato per aree di competenza e
specializzazione (servizi per patologia a libera scelta dell’utente,
centri specialistici a valenza sovrazonale, ecc.).
Tra i tanti temi che in tale ambito potrebbero essere discussi,
vorremmo citare la problematica del trattamento degli esordi
psicotici. Mirella Ruggeri e Michele Tansella, in un editoriale della
rivista Epidemiologia e Psichiatria Sociale, sottolineavano tre punti
per il miglioramento della salute mentale della popolazione:
a) La
promozione della salute mentale e la prevenzione primaria e
secondaria.
b) Aumentare
la capacità dei servizi di salute mentale di trattare in maniera
innovativa, efficace e non stigmatizzante i disturbi mentali al loro
esordio.
c) Comprendere
l’interazione fra fattori ambientali e genetici nel determinare la
vulnerabilità di un individuo ai disturbi psichici e il loro esito
(Ruggeri e Tansella
2007).
Gli interventi
precoci debbono rappresentare una componente fondamentale
dell’approccio terapeutico alle psicosi, poiché si sono dimostrati
efficaci nel ridurre la durata del periodo di mancato trattamento (Duration
of Untreated Psychosis) e nel migliorare l’esito (McGorry e Jackson
1999). In tale ambito di ricerca e di pratica, gli approcci più
promettenti sono rappresentati, da un lato, dalla prevenzione
secondaria centrata sulle prime fasi successive all’esordio (il
cosiddetto “periodo critico” che copre i primi cinque anni
dall’esordio) e, dall’altro, dall’attuazione di interventi
precoci per le persone ad alto rischio e per i soggetti che
manifestano già sintomi prodromici (Cocchi e Meneghelli 2004, Ruggeri
e Tansella 2007). Recentemente, McGorry ha evidenziato che nei
soggetti ad “Ultra-high- risk” (UHR) l’utilizzo di tecniche CBT,
associate a basse dosi di antipsicotici di seconda generazione (risperidone),
riduce drasticamente la transizione nell’insorgenza di psicosi (il
9.7% nei soggetti UHR trattati verso il 35% di coloro che ricevevano
assistenza standard, nell’arco di tempo di sei mesi) (McGorry 2010).
Nel discutere di interventi precoci per l’esordio psicotico, diviene
prioritario il tema della organizzazione dei servizi: si devono
costruire Servizi specifici per la prevenzione mirata e il trattamento
intensivo degli esordi psicotici o essi debbono risultare interni e
diffusi all’interno dei DSM? (Corlito 2010). Le esperienze
australiane ed inglesi sottolineano la necessità di condurre gli
interventi in ambiti accessibili e non stigmatizzanti e dunque in
Servizi a forte
specializzazione e distinti dai classici setting psichiatrici, nel
nostro paese caratterizzato dalla presenza di DSM a modalità
organizzativa generalista, una soluzione potrebbe essere ricercata
nell’istituire almeno un unico Centro specializzato per DSM (Ghio et
al. 2010).
Il Paziente grave
Tra i punti caratterizzanti i servizi di psichiatria di comunità,
un ruolo importante è ricoperto dalla centralità della presa in
carico di pazienti affetti da disturbi mentali gravi (disturbi dello
spettro psicotico e gravi disturbi di personalità). Il punto
essenziale del profilo tipico della malattia mentale grave è che
questo disturbo ha inizio durante l’adolescenza o la prima età
adulta ed è associato ad un disturbo pervasivo delle funzioni
mentali, che mette a rischio la normale evoluzione della vita, nonché
la sua stessa qualità (Perris e McGorry, 1998).
“Ma chi è il
“paziente grave”? È questo un problema che, come ben sappiamo,
attraversa da sempre il nostro campo disciplinare (esistono in
letteratura almeno venti definizioni di “severe mental illness”),
ma soprattutto le pratiche concrete, se ricordiamo la difficoltà
definitoria, la complessità delle variabili in gioco (diagnosi,
angoli di osservazione e caratteristiche dell’osservatore,
committenza, contesto sociale e operativo), il rapporto non lineare
che connette la gravità clinica alla gravosità assistenziale e alle
espressività di menomazioni di vario tipo e grado (nella sfera
dell’autonomia, delle abilità sociali, della qualità della
vita)”. (Ferrannini 2002).
Nel continuare a discutere di paziente grave, Ferrannini osserva
ulteriormente:” Inoltre non
possiamo negare il crescente manifestarsi di nuovi profili di gravità,
che si aggiungono alle categorie consolidate, ma al tempo stesso ne
ampliano i confini. Si tratta di nuove persone, definite sul versante
della storia ora personale, ora psicopatologica, ora istituzionale e
sociale, ma spesso dal loro inscindibile intreccio: anziani fragili,
pazienti autori di reato inseriti nel circuito penale (carcere, OPG),
adolescenti devianti, pazienti con disturbi da abuso e con “doppia
diagnosi”, pazienti con gravi disturbi dell’umore e comportamenti
autolesivi, persone malate di mente senza fissa dimora nelle grandi
aree urbane, ed altre ancora che non conosciamo o non vediamo”.
(Ferrannini 2002).
Una dilatazione di confini che ci fa pensare all’aforisma di
Tatossian: “Noi non possiamo scegliere le malattie mentali ma ogni
epoca storica sceglie la sua psichiatria” (Tatossian 1979).
“C’è pertanto un ampio consenso sulla necessità che i
servizi psichiatrici diano, in via prioritaria, risposte ai pazienti
con disturbi mentali gravi, che presentano il più alto grado di
bisogni non soddisfatti. Giova ricordare che il tasso totale di
pazienti con disturbi mentali gravi si colloca tra 300 e 400 per
100.000 abitanti e le evidenze epidemiologiche mettono in rilievo che
i pazienti gravi sono circa il 40% dei pazienti con disturbi dello
spettro psicotico ai quali va aggiunto il 9% dei pazienti non
psicotici in carico ai servizi: ci troviamo evidentemente di fronte a
una realtà quanti qualitativa che richiede un impegno forte”. (Ferrannini 2002).
In questa prospettiva, è necessario riuscire a declinare il tempo
della cura (che può anche risultare prolungato, lifetime) ai suoi
luoghi (territorio, domicilio,
CSM, ospedale, strutture residenziali e semiresidenziali, case di
riposo, carceri, istituzioni varie), prestando attenzione, nei
“contratti di cura”, a mantenere spazi di negoziazione tra
l’autodeterminazione del paziente (consenso e partecipazione) e la
propensione attiva da parte degli operatori nel progettare percorsi di
“presa in carico”.
Dopo
la
Deistituzionalizzazione: stiamo imboccando il cammino
contrario?
Sul fenomeno della Deistituzionalizzazione/Reistituzionalizzazione
(DI/RI), proveremo a ragionare a partire dalle considerazioni di
Priebe e Fioritti (Priebe e Fioritti 2004). Essi fanno notare che la
DI non ha mai preso la forma di un processo isolato, relativo alle
sole politiche sanitarie o sociali verso la malattia mentale, ma
piuttosto si è inserita e spesso ha sfruttato la corrente di
cambiamenti più generali negli atteggiamenti e nelle politiche nei
confronti di più categorie di cittadini svantaggiati. Essa ha semmai
interpretato più che guidato lo spirito di un periodo, quello degli
anni ’60, ’70 e ’80, il cui Zeitgeist era certamente
quello delle libertà individuali, del primato della soggettività e
dei servizi alla persona. La DI ha incontrato un vasto consenso nella
maggior parte degli Stati europei e nel mondo anglofono per oltre
vent’anni, limitandosi, tuttavia, in alcuni contesti, a un fenomeno
di transistituzionalizzazione o transospedalizzazione. Attualmente
assisteremmo ad un fenomeno opposto, ovvero la ripresa della RI (Priebe
e Fioritti 2004).
Gli indizi proposti dai due autori possono essere sintetizzati nei
seguenti punti:
Il più univoco e
costante in tutti i Paesi occidentali riguarda sicuramente
l’impressionante aumento dei letti nelle strutture
psichiatrico-forensi. Tutti i Paesi europei nel corso degli anni ’90
hanno aumentato, in percentuali che vanno dal 20 al 300% (come Olanda
e Germania), la dotazione in Ospedali psichiatrici giudiziari di
massima sicurezza e in strutture a media sicurezza, spesso
coinvolgendo il settore privato. In quasi tutti i Paesi si stanno
programmando ulteriori allargamenti, spesso indirizzando a questo
settore risorse prese dai Servizi ordinari.
La situazione degli OPG italiani è in qualche modo diversa,
congelati come sono da trenta anni in una condizione provvisoria e
poco qualificata. Non è senza significato però che negli ultimi due
tre anni il numero degli internati sia aumentato del 20%, che si sia
introdotta di fatto la possibilità di effettuare misure di sicurezza
all’esterno degli OPG, che si siano avviate sperimentazioni di
strutture residenziali a media sicurezza e che si sia ravvivato
l’interesse sulla psichiatri penitenziaria (Pirfo 2004, Ferrannini
2004).
Un secondo indizio è costituito da un certo cambiamento
nell’atteggiamento dei professionisti riguardo allo strumento del
ricovero obbligatorio. Il tasso dei ricoveri obbligatori effettuati
nei diversi Paesi dell’Unione Europea varia fino a venti volte (Salize
e Dressing, 2004). Tuttavia, nonostante questa variabilità ancora per
molti versi inspiegabile, in quasi tutti i Paesi europei questi tassi
sono sensibilmente aumentati. Nel Regno Unito dai circa 10.000 del
1980 si è arrivati a 15.000 nel 1998 e ai circa 25.000 attuali.
Nell’arco di dieci anni i TSO sono aumentati del 27% in Olanda e del
67% in Germania. Un terzo indizio riguarda la drammatica espansione
del settore residenziale, in tutte le sue varie componenti (residenze
protette, comunità terapeutiche, socio-riabilitative, gruppi
appartamento, comunità alloggio ecc.).
Provando a formulare delle considerazioni sui due ultimi punti
citati, ovvero quello della cura del paziente grave e sul manifestarsi
di fenomeni di RI, partiremmo dall’adagio che più o meno recita “E’
pur vero che per ogni problema complesso esistono soluzioni semplici e
riduttive…peccato che non funzionino”.
A fronte dei problemi sollevati dalla gestione dei pazienti gravi
(fenomeno del drop-out dai servizi, assenza di consenso a trattamenti
protratti) e del manifestarsi a livello sociale della cultura
dell’insicurezza sociale, riteniamo utile ed eticamente fondato
continuare a proporre modelli efficaci di cura nell’ambito della
psichiatria di comunità, rifuggendo da proposte di
Reistituzionalizzazione.
Priebe e Fioritti osservano, inoltre, che in quasi tutti gli Stati
dell’Unione sono state riviste le procedure di TSO e in quelli che
non l’hanno fatto (Regno Unito e Italia) sono state presentate
proposte di legge che tendono ad allargare l’ambito di azione dei
Servizi psichiatrici, ed estendere tempi di degenza e potere dei
Servizi (Priebe e Fioritti 2004).
Come è noto, nel nostro Paese innumerevoli sono state
le proposte di modifiche della legge 180; anche in questa
legislatura vi sono disegni di legge in “materia di assistenza
psichiatrica”, accomunati dal dispiegarsi di una panoplia di
strumenti rivolti ai “trattamenti senza consenso”:
trattamento sanitario prolungato, prescrizione psichiatrica
obbligatoria, TSO extra-ospedaliero, contratto terapeutico vincolante.
Diversi piani di lettura risultano possibili, legislativo, clinico,
economico. Forse quello che ci interessa di più è rappresentato dal
considerare i diversi disegni di legge come tentativo velleitario di
restaurazione culturale.
Una analisi critica
della legge 180 potrebbe partire dal testo
“Conversazione sulla 180”, scritto da Basaglia nel 1979,
nel quale è possibile rinvenire tracce di un’analisi
storico-critica della riforma italiana
(Basaglia 1979). Per Basaglia, il merito della legge è stato quello
di porsi come avamposto della lotta, sviluppata negli anni sessanta e
settanta dal movimento antiistituzionale, contro lo “stigma” e
l’”invalidazione” sociale dei malati di mente. I tre elementi
convergenti di questa lotta possono essere rappresentati dalla
inutilizzabilità, nei confronti dei pazienti psichiatrici, del
concetto di pericolosità e scandalosità, dalla abolizione degli
ospedali psichiatrici ( in quanto fabbriche dello stigma e
dell’invalidazione sociale) e dal confluire della 180 nella legge
833 di riforma sanitaria; a sancire, quest’ultimo punto, la fine di
una legislazione “speciale” per la psichiatria. Gli aspetti
salienti della 180, in questa rilettura del testo basagliano,
consistono dunque nel superamento, operato dalla legge, dei
dispositivi “disciplinari” del sistema psichiatrico precedente
(internamento coatto, esclusione sociale, eccezionalità giuridica).
L’interesse di questo testo consiste, però, nello sguardo
prospettico che ci offre, ovverosia, nella capacità di cogliere nella
riforma dispositivi di tipo biopolitico. Per dirlo in sintesi, se la
legge Giolitti del 1904
risultava congruente alle strutture di una società del XIX secolo (
fase industriale, o in altri termini dell’epoca fordista della
produzione, con i correlati di “società disciplinare”. E in
Italia, comunque, con larghi strati di mondo contadino), la riforma
180 poteva meglio interpretare lo “spirito nuovo”, ovvero una
società post-fordista, con forte prevalenza nel mondo del lavoro di
precarizzazione, flessibilità, mobilità: alla società disciplinare
succede quella biopolitica del controllo capillare. Nel difendere i
valori chiave di libertà e uguaglianza non possiamo che rifiutare
disegni di legge politicamente reazionari e non fondati su alcuna
evidenza scientifica, vuoi clinica che inerente la organizzazione dei
moderni servizi di psichiatria di comunità.
A tal proposito, appare interessante, viceversa, notare come sia
possibile rinvenire aspetti di congruenza tra modelli di cura e la
promulgazioni di leggi quale quella sulla Amministrazione di sostegno
(AdS). La storia della AdS prende il via, in Italia, dal Convegno
“Un altro diritto per
il malato di mente”, svoltosi a Trieste nel 1986 con lo scopo
di: “superare il divario fra
gli orizzonti innovatori della 180 e le linee anacronistiche dei
regimi di protezione della persona, quali accolte nel codice civile
del 1942”, dal quale scaturì la cosiddetta Bozza
Cendon :” progetto di
riforma del diritto degli “infermi di mente” e di “altri
disabili”.
Come è noto, il complesso percorso del progetto, a partire dalla
presentazione alla Camera, all’inizio degli anni novanta, culminò
nell’approvazione avvenuta al Senato nel dicembre 2003, con
successiva pubblicazione della legge nella GU del 9 gennaio 2004
(legge 6/2004); all’art.1 essa recita:
“ La presente legge
ha la finalità di tutelare, con la minore limitazione possibile della
capacità di agire, le persone prive in tutto o in parte di autonomia
nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana, mediante
interventi di sostegno temporaneo o permanente”.
Le gravi limitazioni a diritti personalissimi (in materia di
matrimonio, riconoscimento della prole,disporre testamento o
donazione), la loro sostanziale irrevocabilità, hanno reso gli
istituti dell’interdizione e dell’inabilitazione inadatti a una
tutela flessibile del malato e aperta alle finalità di cura e
autonomizzazione introdotta dalla stessa legge di riforma psichiatrica
(Catanesi e Carabellese 2006). L’amministrazione di sostegno,
viceversa, non è scollegabile da una relazione terapeutica, da un
lavoro di rete, da una presa in carico continuativa, da
un’attenzione ai diritti (Ferrannini 2007).
COMUNITÀ TERAPEUTICHE E TRATTAMENTI PROTRATTI
Sempre più necessaria sembra essere oggi una accurata riflessione
sulle strutture residenziali, che devono essere caratterizzate per
tipologie e per capacità di risposta ai bisogni diversificati (a
trattamento intensivo, come risposta prevalentemente sanitaria/clinica
per brevi periodi; a trattamento protratto, come risposta
riabilitativa strutturata a medio e lungo termine; di tipo
socio-assistenziale, finalizzate al recupero del diritto di
cittadinanza, e quindi anche luoghi di vita o comunque luoghi ove
trascorrere periodi molto prolungati della propria vita, con un
profilo assistenziale “non dedicato” ma proveniente dalle pratiche
“ordinarie” del CSM di competenza) (Angelozzi et al. 2005).
La conflittuale compresenza di finalità quali la cura,
l’assistenza, l’abitare e la socializzazione rischia di rendere
ambigue le funzioni delle strutture intermedie (Asioli 1988),
soprattutto se si confonde la riabilitazione psichiatrica con una
pratica generica e approssimativa, fatta di vaga animazione, di
saltuarie occupazioni del tempo da parte del paziente lungoassistito,
di estemporanee iniziative, di intrattenimenti afinalistici (Paltrinieri
1996).
Alcuni fattori di criticità sembrano caratterizzare
significativamente le strutture comunitarie, e in particolare quelle
che erogano più di altre un trattamento protratto (Ferrannini et al.
2004):
1) Queste strutture accolgono una popolazione con aspetti di
maggiore gravità clinica e di intenso bisogno assistenziale rispetto
alla popolazione complessivamente assistita dal Dipartimento di Salute
Mentale.
2) Il costo economico del trattamento, sia per il suo carattere
intensivo (elevato rapporto operatori/pazienti) sia per la lunga
durata media della permanenza degli ospiti, è elevato.
La valutazione diagnostica e prognostica tradizionale di per sé
appare condizione insufficiente per definire il paziente bisognoso di
un inserimento in una comunità a tempo protratto. Nella pratica dei
servizi si conoscono i cosiddetti casi impossibili, per alcuni
i casi a vita, che faticano a trovare nelle consuete proposte
terapeutiche beneficio o miglioramento del quadro clinico. Questi,
oltre a soggiornare per lungo tempo nelle comunità in cui sono
inseriti, spesso affrontano ripetuti trasferimenti da comunità a
comunità, disegnando un nuovo fenomeno che si potrebbe definire nomadismo
istituzionale, determinato non solo da normative che regolano i
tempi di inserimento, ma talvolta anche da movimenti espulsivi della
comunità (Ferrannini et al. 2004). Se, da un lato, si è finalmente
assistito all’abbandono di pratiche pseudoterapeutiche, che di fatto
mantenevano assetti cronici e invalidanti, dall’altro vi è il
rischio oggi che una gestione efficientistica e riparativa del danno,
all’interno del tempo definito e puntiforme della prestazione, possa
portare a nuove forme di cronicità, che si manifestano attraverso la
transistituzionalizzazione (il passaggio del paziente da una comunità
a un’altra) o il fenomeno del revolving door comunitario: con
ciò si intende sottolineare che trattamenti erogati solo nel rispetto
di tempi prestabiliti potrebbero determinare esiti e prospettive
terapeutiche fallimentari. Ogni comunità terapeutica si fonda
prevalentemente su modelli concettuali di habitat che fanno
riferimento alla casa e all’ospedale. Se è implicito che la comunità
possa identificarsi, a seconda delle necessità e delle fasi
terapeutiche, con entrambi i modelli prospettati, è più facile che
una comunità a tempo protratto si trovi più spostata verso il
modello culturale della famiglia-casa (Ferrannini et al. 2004).
D’altro canto, i dati ricavati dallo studio Progress Residenze già
nel 2004 sottolineavano il basso turnover dalle strutture residenziali
che tendevano dunque a configurarsi come “case per la vita” (De
Girolamo 2004). Appare prioritario, allo stato attuale, affrontare la
riconversione di una parte della “residenzialità” in comunità
terapeutiche ad interventi terapeutico-riabilitativo intensivi (Corlito
2010).
Supported
housing
La storia della psichiatria è una
storia di case (Saraceno 1995)
•
Custodial housing
(strutture tipo board-and-care home, nursing home, che ospitano anche
grandi numeri di pazienti)
•
Supportive housing
(strutture residenziali di medie e piccole dimensioni ed abitazioni
protette, con carattere di transitorietà: paradigma del continuum
residenziale)
•
Supported housing
(abitazioni indipendenti con supporto flessibile e individualizzato,
in cui l’aspetto abitativo è disgiunto da quello assistenziale)
(Maone 2006).
L’approccio di supported housing si definisce per contrapposizione
al paradigma del
continuum residenziale. Continuum
residenziale o linear continuum housing: si fonda su una
“lineare” concezione del decorso dei disturbi mentali gravi, si
suppone che i bisogni del paziente mutino nel tempo, in relazione alle fasi del suo
disturbo e che, pertanto, occorra prevedere un sistema residenziale
che contenga un ampio ventaglio di setting differenziati sulla base
del livello di assistenza e di restrittività.
Il paziente dovrebbe transitare lungo tale continuum,
dall’assistenza sulle 24 ore fino alla vita indipendente. Al di là
dei suoi limiti applicativi, la difficoltà di fondo del continuum
consiste nello stretto legame, la sovrapposizione e la confusione fra
trattamento e luogo di vita del paziente.
Solo disgiungendo il bisogno di trattamento/assistenza dal
bisogno di avere un luogo in cui vivere, diviene possibile mettere più
chiaramente a fuoco le esigenze relative agli aspetti strettamente
abitativi e, separatamente, il tipo e l’intensità del supporto che
il paziente richiede o di cui ha bisogno (Maone 2006)
Infine, relativamente al decorso, se un maggior impegno dei servizi
sul versante del trattamento precoce è oggi doveroso e potrà evitare
probabilmente in futuro molte situazioni che oggi vediamo evolvere
negativamente, ciò non offre però ragioni etiche o prognostiche per
un disinvestimento da quelle situazioni in cui un trattamento precoce
non è più possibile. (Peloso
2007). “Il
gruppo operativo si misura sulla quantità e sul tipo di progetti,
fantasie e realizzazioni tecniche che riesce ancora a produrre nei
confronti del paziente cronico” (Ballerini 1987 ). Occorre
quindi anche un forte impegno a evitare che le situazioni
problematiche, quelli che Asioli definisce i pazienti “ingrati”,
finiscano per essere concentrate in alcune strutture residenziali –
a gestione diretta o in convenzione è irrilevante – che divengono
l’anello più basso del servizio, nuovi ghetti isolati, divisi,
staccati sui quali nessuno riesce più a investire (Peloso 2007).
La
gravosità della cura
Gli
dei avevano condannato Sisifo a far rotolare senza posa un macigno
sino alla cima di una montagna, dalla quale la pietra ricadeva per
azione del suo stesso peso. Essi avevano pensato, con una certa
ragione, che non esiste punizione più terribile del lavoro inutile e
senza speranza
–
Albert Camus, il Mito
di Sisifo 1942
L’operatore,
la gravosità della sofferenza e il Servizio
La progettazione e realizzazione di “percorsi di cura” mette in
gioco saperi clinici ed organizzativi. Se vogliamo, sinonimo di
percorso di cura, o rivelatore di un’altra dimensione, è una delle
icone della Psichiatria di Comunità, ovvero il concetto di “presa
in carico”. Rossi Monti ci avverte che il pregio della definizione
di presa in carico rappresenta il suo stesso limite “
da un lato trasmette il senso della gravosità del compito che il
clinico o il gruppo dei curanti si assume; dall’altro fa pensare al
mettersi sulle spalle un fardello, facendosi appunto carico di una
serie di incombenze che vicariano funzioni e capacità che
abitualmente competono all’altra persona…la funzione vicariante può
essere limitata nel tempo o parziale, ma il termine ha comunque il
merito di non nascondere la pesantezza del compito” (Rossi Monti
2006).
Ragionare sulla presa in carico, può farci riflettere su quanto il
trattamento protratto di utenti “gravosi” (Ballerini 1987) e la
frustrazione che questo spesso comporta, possa influire sulla
declinazione di modelli di relazione terapeutica, al fine di evitare
modalità difensive sostanzialmente di tipo espulsivo sia del paziente
sia della problematica stessa (Asioli 2004).
Di fronte all’ineluttabilità di certi percorsi di sofferenza, e a
quello che Racamier definisce esistere non esistendo di molti dei
nostri utenti (Ferro et al. 2002), non si può non avvertire un senso
di insignificanza, di inadeguatezza, di inquietudine. Il senso di
frustrazione (di fantasie onnipotenti), se negato o non
sufficientemente elaborato, si traduce in quel non c’è niente da
fare! che troppo spesso e in modo più o meno esplicito ci diciamo (Perozziello
2008). Il confronto tra i
modelli teorici e gli approcci clinici nasce quindi dall’esigenza di
una riflessione sul trattamento dei pazienti gravi. Racamier definisce
il processo che si svolge nei pazienti schizofrenici gravi come durabile
ed estensibile nel tempo e nella psiche del soggetto (Racamier
1995). Ciò non significa, però, che sia incurabile. Non bisogna,
infatti, pensare che la schizofrenia sia incurabile per il fatto di
durare nel tempo, né considerarla disorganizzata perché è complessa
(Lanzara et al. 2004).
L’attenzione dei curanti deve quindi attivare una funzione
integratrice che tenga conto di tutti i vari aspetti, favorendo un
miglior adattamento del paziente attraverso l’accoglimento dei suoi
bisogni – anziché negarli – e aiutandolo a proteggersi dai
vissuti spesso insostenibili causati dalla discontinuità delle sue
relazioni, fatte di rotture e di agiti. Se è stato costruito un
modello in cui il terapeuta è in grado di tollerare e sostenere le
esperienze negative, sarà possibile ristabilire nel tempo il rapporto
con il paziente e parlare di quanto è accaduto (Lanzara et al. 2004).
Normalità,
recovery, epoché
Come
l’intero sistema sanitario può servire i bisogni del paziente
quando egli ha bisogno di assistenza protratta per tempi lunghi
(ponendo attenzione al suo diritto di piena cittadinanza)?
(Saraceno 2005).
Una domanda da riattualizzare è quella relativa la
concettualizzazione della “normalità in psichiatria”. Non a caso,
rinunciare a “inseguire la
normalità a tutti i costi cercando di adeguare i pazienti ai nostri
modelli di cura e ai nostri standard di benessere” (Toniolo e
Grossi 2006), così come considerare la persona “un
soggetto visto nella sua interezza e, come tale, portatore di
interessi, di emozioni, di talenti, di speranze e di paure”,
sono parte integrante delle più avanzate proposte di revisione dei
principi di riabilitazione psichiatrica (Carozza 2007). Vanno nella
stessa direzione la ridefinizione della “guarigione” come “modo di vivere una vita soddisfacente, piena di speranze e collaborativa,
anche con i limiti posti dalla malattia” (Roberts e Wolfson
2004) e la recente valorizzazione del concetto di “empowerment” (Rappaport 1981) come partecipazione attiva
alla definizione della cura e maggior controllo della propria vita del
paziente, che si contrappone al tradizionale ruolo paternalistico del
terapeuta (Gosio e Pellegrino 2009).
Il tema della guarigione (recovery) sta assumendo un peso
considerevole nella letteratura scientifica internazionale e, in molti
Paesi, le politiche per l’assistenza psichiatrica hanno iniziato a
prevedere in modo esplicito le strategie per garantire un’assistenza
recovery-oriented (CSIP et al. 2007). Questo rilievo nella
letteratura e nelle politiche è anche una prima risposta alle
sollecitazioni in tal senso che sono venute dalle organizzazioni dei
familiari e degli utenti, che non accettano che l’efficacia dei
trattamenti offerti venga disgiunta dalla presenza di aspettative
favorevoli e di strategie di empowerment (Tibaldi e Govers
2009). Va chiarito e ricordato che sono state le associazioni di
utenti e familiari a porre per prime questo tema sul tavolo,
richiamando professionisti e politici a confrontarsi con le scelte che
questo tema implica. (Tibaldi e Govers
2009).
In una relazione presentata nel 1971 a Helsinki all’International
Committee Against Mental Illness, Basaglia aveva sostenuto che
l’oggetto della riabilitazione andava individuato a diversi livelli:
quello individuale, cioè il malato e la sua malattia, quello
sovrastrutturale in cui il malato era costretto, cioè
l’istituzione, e quello strutturale, definito dal ruolo strategico
che l’istituzione ha all’interno del sistema sociale di cui è
espressione.
“ Cosa significa tutto
questo per il futuro della riabilitazione? Molto semplicemente che
c’è spazio per rivederne i contenuti, definendola come una
strategia di salute pubblica che mira a ridurre i fattori di rischio e
a promuovere i fattori protettivi implicati nell’insorgenza e nel
mantenimento delle difficoltà nel funzionamento sociale connesse ai
disturbi mentali, attraverso interventi a livello individuale,
interpersonale e socioambientale. Su questi presupposti si può
stabilire una nuova alleanza tra clinici, ricercatori, utenti e società
civile e su questa frontiera si misurerà nei prossimi anni lo
sviluppo della riabilitazione in psichiatria“ (Barbato 2008).
Conclusioni
Un’introduzione non è fatta per avere delle conclusioni. Ci si può,
ragionevolmente, dire
soddisfatti di una introduzione solo se questa riesce a definire un
campo per suscitare dibattito e approfondimenti.
Il trattamento del “paziente grave” è il tema rispetto al quale
le relazioni che seguiranno hanno cercato di misurarsi e pertanto
vorremmo tornarci ancora. Pazienti caratterizzati da una patologia
definita grave dalla psicopatologia e dalle classificazioni
psichiatriche, da funzionamento
mentale alterato dalla presenza di deficit funzionali e da difficoltà
nel sostenere un trattamento e nello stabilire l’alleanza
terapeutica (Perris 1989, Perris 1998, Semerari 1999).
Il trattamento dei pazienti difficili esige
l’elaborazione/falsificazione di modelli psicopatologici, atti a
spiegare genesi e mantenimento nel tempo dei disturbi psicopatologici,
e di dotarci di una teoria della tecnica congruente alla teoria
clinica. Il riflettere su “Il normale e il patologico” a declinare
modalità di cura e organizzazione dei servizi: ad esempio, trattare
come variabili indipendenti l’abitare ed il curare.
Ancora una volta: appropriatezza degli interventi, attenzione ai
processi di recovery per generare risorse, empowerment e diritti
sociali.
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