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Psicoanalisi applicata alla Medicina, Pedagogia, Sociologia, Letteratura ed Arte

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Frenis Zero  Publisher

     

 "LA RIABILITAZIONE PSICOSOCIALE E I PERCORSI DI CURA"  

 

 

  di Pietro Nigro

 

 

Questo testo costituisce l'introduzione  del libro "Il lavoro di Sisisfo. Il progetto riabilitativo tra etica, evidenze ed esperienze" (Fioriti, 2011). Si ringrazia sentitamente l'editore Fioriti per il permesso alla riproduzione su Frenis Zero.


 



 


Scheda Bibliografica:

Curatori: Pietro Nigro, Giuseppe Saccottelli, Tiziana De Donatis, Domenico Semisa

Pagine: 207


Anno di Pubblicazione2011 

ISBN: 978-88-95930-35-0

Prezzo: € 25,00

Presentazione: 

L’ingresso sistematico della pratica riabilitativa, nelle sue varie declinazioni: psichiatrica, psicosociale e sociale, nel campo della cura dei disturbi mentali ha profondamente e stabilmente modificato l’assetto organizzativo e gli obiettivi strategici dei processi finalizzati alla tutela e alla promozione della salute mentale.

Ha riportato la malattia mentale all’interno della società, riconoscendola come una sua “parte”, quasi immanente alla condizione umana al pari di tutte le malattie, e non più come “corpo estraneo” da espellere e tenere separato.

 


 


 

            

 

   

 

Rivista "Frenis Zero" - ISSN: 2037-1853

Edizioni "Frenis Zero"

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EDIZIONI FRENIS ZERO

 

Sta per essere pubblicato/About to be published:

AA.VV., "Lo spazio  velato. Femminile e discorso psicoanalitico"                             a cura di G. Leo e L. Montani (Editors)

Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero

Collana: Confini della psicoanalisi

Anno/Year: 2012 

Writings by: A. Cusin, J. Kristeva, A. Loncan, S. Marino, B. Massimilla, L. Montani, A. Nunziante Cesaro, S. Parrello, M. Sommantico, G. Stanziano, L. Tarantini, A. Zurolo.

 

 

 

"The Voyage Out" by Virginia Woolf

Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero

ISBN: 978-88-97479-01-7

Anno/Year: 2011 

Pages: 672

Prezzo/Price: € 25,00

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"Vite soffiate. I vinti della psicoanalisi" di Giuseppe Leo 

Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero

Preface: Alberto Angelini

ISBN: 978-88-903710-5-9

Anno/Year: 2011 (2nd Edition)

Prezzo/Price: € 18,00

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"Psicoanalisi e luoghi della negazione" a cura di A. Cusin e G. Leo (Editors)

Writings by: J. Altounian, S. Amati Sas, M. Avakian,  A. Cusin, N. Janigro, G. Leo, B.E. Litowitz, S. Resnik, A. Sabatini Scalmati, G. Schneider, M.  Šebek, F. Sironi, L. Tarantini.

Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero

ISBN: 978-88-903710-4-2

Anno/Year: 2011

Pages: 400

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"Lebensruckblick"

by Lou Andreas Salomé

(book in German)

Author:Lou Andreas Salomé

Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero 

ISBN: 978-88-97479-00-0

Anno/Year: 2011

Pages: 267

Prezzo/Price: € 19,00

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"Psicologia   dell'antisemitismo" di Imre Hermann

Author:Imre Hermann

Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero 

ISBN: 978-88-903710-3-5

Anno/Year: 2011

Pages: 158

Prezzo/Price: € 18,00

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"Id-entità mediterranee. Psicoanalisi e luoghi della memoria" a cura di Giuseppe Leo (editor)

Writings by: J. Altounian, S. Amati Sas, M. Avakian, W. Bohleber, M. Breccia, A. Coen, A. Cusin, G. Dana, J. Deutsch, S. Fizzarotti Selvaggi, Y. Gampel, H. Halberstadt-Freud, N. Janigro, R. Kaës, G. Leo, M. Maisetti, F. Mazzei, M. Ritter, C. Trono, S. Varvin e H.-J. Wirth

Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero

ISBN: 978-88-903710-2-8

Anno/Year: 2010

Pages: 520

Prezzo/Price: € 30,00

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OTHER BOOKS

"La Psicoanalisi e i suoi confini" edited by Giuseppe Leo

Writings by: J. Altounian, P. Fonagy, G.O. Gabbard, J.S. Grotstein, R.D. Hinshelwood, J.P. Jiménez, O.F. Kernberg, S. Resnik

Editore/Publisher: Astrolabio Ubaldini

ISBN: 978-88-340155-7-5

Anno/Year: 2009

Pages: 224

Prezzo/Price: € 20,00

 

"La Psicoanalisi. Intrecci Paesaggi Confini" 

Edited by S. Fizzarotti Selvaggi, G.Leo.

Writings by: Salomon Resnik, Mauro Mancia, Andreas Giannakoulas, Mario Rossi Monti, Santa Fizzarotti Selvaggi, Giuseppe Leo.

Publisher: Schena Editore

ISBN 88-8229-567-2

Price: € 15,00

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Le scienze si fanno prestiti reciproci,

ma si limitano generalmente  a prestarsi

             cose vecchie di trenta o quaranta anni.

                                                                                  ( Whitehead 1934)

 

La frase di Whitehead in esergo rappresenta un po’ la trama di fondo delle considerazioni che proveremo a sviluppare; parafrasandola,  può risultare utile a delimitare un problema, ovvero: quali strategie delineare affinché tra conoscenze scientifiche, modelli terapeutici, governance dei servizi e campo legislativo si produca efficace  “ agire comunicativo”. 

In altri termini, riferendosi a Robert Castel, come fare in modo che gli elementi costituenti l’ordine psichiatrico possano andare verso metamorfosi, segno del passaggio ad altra coerenza, e non mutare per semplici cambiamenti seriali.

Come è noto, Castel si proponeva di assiomatizzare il sistema dei dati che costituiscono una ” politica della salute mentale”, articolando un numero finito di elementi:  un  codice teorico (per esempio, nel XIX secolo, le nosografie classiche); una tecnologia d’intervento ( per esempio il “trattamento morale”), un dispositivo istituzionale ( per esempio il manicomio); un corpo di professionisti ( per esempio i medici primari), uno statuto dell’utente ( per esempio l’alienato definito come minore assistito dalla legge del 1838 in Francia)

Semplificando:  al manicomio stava la dementia praecox e la privazione dei diritti civili degli internati.

Nell’alveo di tale concettualizzazione, oggi, dovremmo far corrispondere al modello della vulnerabilità una politica della salute mentale di comunità ed una attenzione ai diritti civili: cittadinanza, inclusione, integrazione ( in sintesi: dalla legge di riforma 180 alla Convenzione di Oviedo, alla legge sull’Amministrazione di sostegno).

 Se a un cambiamento in un “elemento” non corrispondono mutamenti negli altri, anche le riforme più avanzate possono essere riassorbite e neutralizzate.

“La relativa stabilità dell’insieme non esclude né conflitti, né tensioni, né crisi, né slittamenti, né nuovi equilibri, né mutamenti. Ma bisogna distinguere un cambiamento, per quanto importante, in una serie, e la trasformazione del’insieme del dispositivo. Rispetto ai cambiamenti seriali, chiamo metamorfosi la trasformazione dell’insieme degli elementi del sistema” ( Castel 1976)

Recentemente, Thornicroft e Tansella nell’auspicare la programmazione di  “Una migliore assistenza psichiatrica” hanno proposto di riferirsi a tre principi gerarchicamente disposti: quelli etici, quelli derivanti da evidenze scientifiche e infine quelli derivanti da esperienze di buone pratiche cliniche; e di prestare attenzione alla dimensione geografica (secondo i livelli: nazionale/regionale, locale ed individuale) e alla dimensione temporale ( fase degli input, del processo e degli outcome) (Thornicroft e Tansella 2010).

Nell’ambito della riabilitazione psicosociale, e della salute mentale in generale, risulta prioritario tradurre  le indicazioni derivanti dalla ricerca in pratiche dei servizi, di adeguare i percorsi di cura a evidenze scientifiche.

“I cambiamenti dei setting operativi ed il miglioramento qualitativo delle tecniche di intervento passano inevitabilmente attraverso una decisa apertura alle acquisizioni derivanti da altri ambiti di ricerca” (Maj 2010). L’agire della riabilitazione psicosociale può arricchire la propria identità con i dati provenienti dalla ricerca neurobiologica, attingendo elementi provenienti dal cognitivismo ( sia dalle scienze cognitive che dai modelli clinici), dal ricco patrimonio della psicopatologia clinica e fenomenologica, dai modelli psicodinamici e comportamentali. Non si tratta di eclettismo, ma di riuscire a dotarsi di modelli, tecniche e strumenti  di intervento.

In una riflessione sui trattamenti riabilitativi, il  disporre di modelli eziopatogenetici, atti a descrivere i fattori di insorgenza e mantenimento delle patologie, e di dati relativi l’efficacia dei trattamenti disponibili, consente l’elaborazione di strategie d’intervento e la possibilità di affrontare, tra l’altro, la gravosità di interventi protratti nel tempo per pazienti ed operatori.

Per iniziare, un incipit classico:

“ Le aspettative degli ottimisti presuppongono, è chiaro, svariate cose che non sono propriamente pacifiche: in primo luogo, che sia davvero possibile risolvere definitivamente e una volta per tutte un conflitto pulsionale (o per dir meglio un conflitto dell’Io con una pulsione); secondariamente, che durante il trattamento per un conflitto pulsionale si possa in certo qual modo vaccinare il soggetto contro ogni altro eventuale conflitto analogo; e, in terzo luogo, che si abbia il potere di destare, ai fini di una terapia preventiva, uno di questi conflitti patogeni di cui al momento non è dato di scorgere traccia alcuna, e che farlo sia cosa saggia “ (Freud 1937).

Quale metafora migliore per  rappresentare la presenza di una sorta di noumeno generatore di patologia.

A determinare le caratteristiche dei “trattamenti protratti nel tempo”, concorrono da un lato, dunque, gli elementi provenienti dal territorio del “patologico” e dall’altro quello della pianificazione e realizzazione degli interventi ( con altra terminologia: processi ed esiti delle attività terapeutiche).

Per quanto riguarda i trattamenti, le osservazioni di Saraceno, anch’esse classiche ormai,  rappresentano una sorta di manifesto della “cura”:

“ La rottura dell’intrattenimento non è quindi una semplice rinuncia passiva alla pratica della psichiatria ma, al contrario, è una ricerca teorica e pratica delle strade quotidiane per operare microrotture della miriade di microintrattenimenti, disvelando la miriade di risorse e modi di operare che concorrono alla ricostruzione della piena cittadinanza del paziente psichiatrico “ (Saraceno 1995).

Nel prosieguo, si tenterà di discutere  intorno ad alcuni topos della organizzazione dei servizi e della cura: cronicità versus vulnerabilità, appropriatezza degli interventi, l’organizzazione dei  servizi e la Comunità, il paziente grave, la deistituzionalizzazione (DI)/Reistituzionalizzazione (RI), le Comunità terapeutiche e i trattamenti protratti, il supported housing, la gravosità della cura, la normalità e il recovery, le pratiche nei servizi.

 

Hic Rhodus hic salta

Ovvero, il rompicapo, come tradurre nella pratica i dati delle evidenze

Cronicità versus vulnerabilità

Cronicità e difettualità, per molti decenni del novecento, hanno rappresentato elementi essenziali del paradigma kraepeliniano della schizofrenia. Gli studi epidemiologici sui decorsi ed esiti  delle sindromi schizofreniche, a partire dagli anni ’70,  falsificando il concetto di cronicità e difettualità hanno rivoluzionato il tradizionale modello della schizofrenia.

Un altro filone di ricerca, a partire dallo stesso periodo, che ha notevolmente contribuito al  cambiamento di paradigma interpretativo sulla sindrome schizofrenica, è stato rappresentato dal cosiddetto modello della vulnerabilità (Zubin e Spring 1977).

Alla luce dei risultati di questi studi empirici e di questo nuovo quadro di riferimento non è più possibile assimilare schizofrenia a cronicità. La schizofrenia non è una malattia cronica il cui organizzatore psicopatologico è rappresentato dalla ingravescente demenzialità, ma non è nemmeno riducibile alla "sindrome di Schneider" e cioè ad una costellazione di sintomi acuti e produttivi che di fatto compaiono in talune fasi del percorso schizofrenico (Rossi Monti e Stanghellini 1999).

Gli studi sull’esito clinico e sociale della schizofrenia sono assai numerosi (Ruggeri e Lasalvia 2003) e ricchi di dati, a partire dagli studi longitudinali retrospettivi di “ prima generazione” ( Bleuler 1974, Huber et al. 1975,  Ciompi 1980, Winokur e Tsuang 1975)  che evidenziavano, in studi catamnestici  assai prolungati nel tempo ( 23 anni, nello studio di M. Bleuler, e 37 anni in quello di Ciompi)  la presenza di diversi pattern di decorso e differenti pattern di esito.

In particolare, nello studio di M. Bleuler risultavano individuati otto diversi pattern di decorso e quattro differenti pattern di esito: esito favorevole nel 20% dei casi (remissione completa della sintomatologia e presenza di un soddisfacente funzionamento sociale nel corso degli ultimi cinque anni); remissione incompleta dei sintomi associata a un adeguato funzionamento per il 32% dei soggetti; nel 24% dei casi una remissione incompleta dei sintomi in presenza di un funzionamento adeguato solo in alcune aree, e un esito sfavorevole ( caratterizzato da sintomatologia persistente, ritiro sociale ed incapacità lavorativa) nel restante 24%.

Nello studio di Ciompi venivano descritti otto diversi pattern di decorso, tra i più frequenti quello caratterizzato da esordio acuto, andamento fasico, esito con remissione o disturbi lievi ( 25% ), un secondo contraddistinto da esordio cronico, evoluzione semplice, esito con disturbi moderati o gravi ( 24% ) e uno con esordio cronico e andamento fasico nel 15% dei casi; e quattro pattern di esito: remissione completa della sintomatologia nel 27% dei soggetti, condizione di lieve deterioramento nel 22% dei casi, deterioramento moderato nel 24% ed una condizione di grave deterioramento nel restante 18% dei soggetti

(Ruggeri e Lasalvia 2003). Le dimensioni cliniche e sociali dei decorsi e degli esiti seguono percorsi che configurano modelli a sistemi aperti, dotati di relativa autonomia (Eaton et al. 1998).

Un vasto insieme di ricercatori ha contribuito all’elaborazione del concetto di vulnerabilità.  Nel 1977, Zubin e Spring proposero un modello della vulnerabilità, in cui sostenevano che: “ i sintomi schizofrenici emergono quando soggetti vulnerabili sono sottoposti ad accadimenti stressanti soprasoglia di origine esogena (eventi esterni) o endogena (eventi biochimici)” (Zubin e Spring 1977).

Analogamente, Nuechterlein e Dawson nel 1984 descrissero un modello vulnerabilità/stress per lo studio dello sviluppo di episodi schizofrenici. Caratteristiche di vulnerabilità individuale (quali riduzione della capacità di elaborazione, iperreattività del sistema nervoso autonomo agli stimoli stressanti, deficit della competenza sociale ed adattabilità) interagendo con stimoli ambientali stressanti possono dar luogo ad episodi schizofrenici (Nuechterlein e Dawson 1984). Nello stesso periodo e provenendo da tradizione psichiatrica differente, Ciompi proponeva un modello di vulnerabilità nel quale assumevano importanza gli schemi logico-affettivi di riferimento (Ciompi 1982). Al concetto di vulnerabilità individuale sono state rivolte ricerche da parte di Carlo Perris. Nel modello di Perris si assume che la vulnerabilità individuale non sia esclusivamente di tipo biologico, ma sia il risultato di interazioni continue tra fattori biologici e psicosociali, che avvengono nel corso dello sviluppo ( anche nel contesto di relazioni precoci) e determinano l’interiorizzazione di modelli operativi interni di sé e delle relazioni con gli altri più  o meno adattivi (Perris 1989). Interessante risulta il tentativo, operato da Stanghellini, di confrontare il modello della vulnerabilità con quello dei sintomi ( o fenomeni) base elaborato dalle scuole tedesche (Stanghellini 1997).

Al di là della dicotomia acuzie-cronicità si situa il concetto di vulnerabilità secondo il quale ciò che perdura nel tempo sono tratti preesistenti e persistenti identificati come esperienze disturbanti dal soggetto stesso, a partire dalle quali possono svilupparsi - in particolari condizioni di sollecitazione ambientale - fenomeni psicotici conclamati (Rossi Monti e Stanghellini 1999).

Dovremmo provare adesso, dopo questo breve excursus sui concetti di cronicità e vulnerabilità, a trarre delle indicazioni per le pratiche riabilitative, ovvero delineare le modalità di offerta/utilizzo dei servizi, in relazione ai bisogni di cura.

Come è noto, gli studi epidemiologici sul decorso ed esito della schizofrenia, hanno reso inservibile il concetto di cronicità. Eppure alcuni modelli  organizzativi, pensiamo per esempio ad aspetti della residenzialità sono stati forgiati riferendosi a tale modello. Proviamo a specificarlo meglio. La filiera residenziale, comunità riabilitativa h 24, comunità alloggio h 12, gruppi appartamento nasce con l’idea di porsi in antitesi alla cronicità ma ne resta nell’orizzonte concettuale. In tanto perché prevede una riacquisizione lineare delle abilità e si  espone  a produrre “residui”, ovvero fasce di pazienti che non rispettando il timing di miglioramento progressivo sono destinati ad essere accolti in strutture assistenziali.

Il modello della vulnerabilità, viceversa, può essere declinato in modalità organizzative che prevedano l’utilizzo di tecniche,  strumenti e luoghi, adattabili al cangiante livello di gradiente vulnerabilità/stress. Per tale motivo guardiamo con interesse, nell’ambito della residenzialità, al movimento del supported housing quale utile strumento di integrazione.

Lo studio dei sintomi prodromici, delle disfunzioni che precedono il conclamarsi della malattia, le trasformazioni del profilo fenomenico delle psicosi, legato anche agli effetti  dei farmaci antipsicotici, l’intreccio con i disturbi di personalità e le dipendenze (Rossi Monti 2008), esigono un nuovo declinarsi di modelli di presa in carico.

 

 

Appropriatezza degli interventi

In un editoriale pubblicato nel 2003 sulla rivista “Psichiatria di Comunità”, Lorenzo Burti proponeva di distinguere nelle pratiche della riabilitazione psichiatrica, sviluppate in Italia nei 25 anni successivi alla legge di riforma psichiatrica,  quattro modelli generali (Burti 2003, Burti 1996, Burti e Yastrebov 1993). Il primo, derivante  dall’accudimento istituzionale, concettualizzato sotto il termine di cura da Racamier (Burti 2003), in cui prevale l’attenzione allo stile del rapporto con il paziente, caratteristica mutuata dalla tradizione psicodinamica e nel quale, tuttavia, appare carente una teoria della disabilità.

Il secondo, formulato con riferimento al  modello biopsicosociale , si propone il trattamento specifico ed efficace della disabilità ed il conseguimento  della guarigione  sociale. Attinge  ai dati della ricerca empirica, soprattutto nell’ambito dell’approccio cognitivo-comportamentale e degli studi di follow-up a lungo termine dei disturbi psichici gravi, tipicamente la schizofrenia (Burti 2003,  Lasalvia e Ruggeri 2003).

 Il terzo modello identifica la riabilitazione con la presa in carico a lungo termine a livello di comunità; privilegia  l’integrazione degli interventi e dei servizi, la continuità terapeutica, l’organizzazione dipartimentale.

Il quarto modello vede il protagonismo dell’utente, come lavoratore imprenditore, nell’impresa sociale (WHO 2001) e come associato ad altri utenti a difesa dei diritti comuni, nel movimento del self-help psichiatrico (Burti e Guerriero 2003).

La presenza di diversi modelli, a nostro avviso, può rappresentare una ricchezza. Imprescindibile, tuttavia, appare il dotarsi, per ogni pratica da progettare e realizzare, di una metodologia valutativa che si occupi del “che cosa e come si fa” (valutazione di processo) e del “che cosa si ottiene” (valutazione di esito). Il processo di valutazione può applicarsi alla validità e alla coerenza di modelli e all’efficacia di tecniche e programmi in una visione “evidence-based”, o ancora riguardare la valutazione dei servizi e dei programmi riabilitativi (Burti  2003).

A tal proposito, in letteratura è possibile rinvenire una gran mole di ricerche e di linee guida.

Per quanto riguarda per esempio la schizofrenia, le linee guida NICE, tra le altre, rappresentano una fonte documentata e rigorosa di dati. Da queste, a titolo meramente esemplificativo, proponiamo una rassegna degli interventi psicosociali e dei modelli organizzativi dei servizi valutati nel trattamento della schizofrenia (NICE 2002).

 

 

Gli interventi psicologici nel trattamento e nella gestione della schizofrenia (NICE 2002)

        La terapia cognitivo-comportamentale

        La cognitive remediation

        Il counselling e la psicoterapia di sostegno

        Gli interventi familiari

        La psicoterapia psicodinamica e la psicoanalisi

        Psicoeducazione

        Il social skills training

 

 

I modelli organizzativi dei servizi nel trattamento e nella gestione della schizofrenia (NICE 2002)

 

        I team territoriali di salute mentale

        L’assertive outreach (la presa in carico intensiva sul territorio)

        Il trattamento in day hospital per acuti

        La riabilitazione lavorativa

        L’assistenza in day hospital per utenti non acuti

        I team di gestione della crisi e trattamento domiciliare

        Gli interventi precoci

        Il case management intensivo

        L’interfaccia tra medicina di base e specialistica

 

 

 

Gli esiti principali presi in considerazione nella valutazione degli interventi psicologici e psicosociali sono rappresentati da indicatori quali il suicidio, le ricadute, la riduzione dei sintomi e permanenza in trattamento. L’efficacia documentata riguarda indicatori clinici quali recidive e psicopatologia.

Per quanto riguarda la terapia Cognitivo-comportamentale, nella revisione sono stati inclusi 13 RCT che hanno fornito dati su 1297 partecipanti. Tutti i soggetti di questi studi assumevano anche farmaci antipsicotici, e nella maggior parte dei casi, la CBT era indirizzata a soggetti con psicosi di lunga durata o resistenti al trattamento. Gli interventi cui erano sottoposti i gruppi di controllo erano l’”assistenza standard”, attività ricreative, counselling informale o di supporto. Dieci studi sono stati condotti nel Regno Unito, due negli USA e uno in Israele.

        Esistono prove d’efficacia che i programmi terapeutici CBT di maggior durata ( più di tre mesi) riducano i tassi di ricaduta in misura superiore ad ogni altro intervento

        Solo tre RCT sui 13 presi in considerazione hanno riportato informazioni sul suicidio e, sebbene siano stati riportati due suicidi nei gruppi di controllo e nessuno nei pazienti in trattamento con CBT, i dati sono insufficienti per poter trarre delle conclusioni

        La CBT riduce i sintomi alla fine del trattamento e 9-12 mesi dopo la conclusione del trattamento stesso, quando confrontata con l’”assistenza standard” o con altri interventi

        Esistono forti prove d’efficacia che la CBT migliori lo stato mentale, rispetto alla “assistenza standard”, alla fine del trattamento (punteggi  finali alla PANSS/BPRS/CPRS)

        Esistono forti prove d’efficacia che la CBT migliori i livelli d’insight alla fine del trattamento rispetto alla assistenza standard

        In uno studio, i miglioramenti nel livello di insight erano ancora significativi 5 anni dopo la fine del trattamento

 

La cognitive remediation

I primi studi hanno riportato alcuni successi, almeno per quanto riguarda il miglioramento delle performance in test cognitivi specifici. E’ stato, tuttavia, messo in dubbio che i miglioramenti fossero generalizzabili ai compiti quotidiani che utilizzano la stessa funzione cognitiva. Elementi tratti dalle tecniche di cognitive remediation sono stati integrati con altri interventi psicosociali (Brenner et al. 1990).

        La revisione non ha riportato evidenze attendibili circa l’efficacia della cognitive remediation nel migliorare gli outcome delle persone affette da schizofrenia, sia per quanto riguarda le funzioni cognitive obiettivo di trattamento, che per gli outcome più importanti, come la riduzione dei sintomi.

 

Più recentemente, tuttavia, McGurk e coll., in una meta-analisi condotta su ventisei RCT includenti 1151 soggetti, hanno riscontrato che la cognitive remediation produce miglioramenti nelle performance cognitive e, quando combinata ad altri interventi riabilitativi (Social skills training), migliora anche il funzionamento sociale ( McGurk et al. 2007).

 

 

 

Gli interventi familiari

        Esistono forti prove d’efficacia che gli interventi familiari migliorino gli esiti nelle persone affette da schizofrenia che vivono con i loro familiari ( o che hanno uno stretto rapporto con loro), soprattutto nella riduzione dei tassi di ricaduta sia durante il trattamento che fino a 15 mesi dopo la conclusione dello stesso.

        Gli interventi familiari sono, inoltre, efficaci nel ridurre i tassi  di ricaduta per chi ha presentato delle ricadute recentemente ed in coloro che sono ancora sintomatici dopo la risoluzione di un episodio acuto.

        I benefici sono più evidenti se il trattamento è protratto per un periodo di 6 mesi o più e se a queste è prevista la partecipazione del paziente.

        Il trattamento con interventi familiari può essere meno accettabile se offerto come intervento di gruppo multi-familiare.

        Le prove d’efficacia sono insufficienti per valutare se i tassi di suicidio siano condizionati dagli interventi familiari.

 

La psicoterapia psicodinamica e la psicoanalisi

        La revisione ha sintetizzato i dati provenienti da tre RCT, includendo 492 partecipanti

        Non era disponibile alcuna prova d’efficacia per poter determinare se la psicoterapia psicodinamica associata ai farmaci, in confronto al trattamento farmacologico da solo, migliorasse gli esiti fondamentali di riduzione dei tassi di ricaduta o dei sintomi o dell’accettabilità del trattamento.

        Gli utenti del servizio che usufruiscono di una psicoterapia psicodinamica individuale insight-oriented, in confronto a quelli che ricevono una psicoterapia “ di adattamento” alla realtà, presentano tuttavia, una maggiore probabilità di rimanere nello studio al follow-up a 6, 12 e 24 mesi

        Non sono state riscontrate prove d’efficacia consolidate che suggeriscano che la terapia psicoanalitica o psicodinamica in associazione ai farmaci, quando confrontata con il solo trattamento farmacologico, migliori l’esito nelle persone affette da schizofrenia.

        Esistono prove d’efficacia insufficienti per raccomandare l’uso  della psicoterapia psicoanalitica o psicodinamica nel trattamento di routine delle persone affette da schizofrenia.

 

Psicoeducazione

        Dieci RCT che includevano 1070 partecipanti.

        La revisione ha riscontrato forti prove d’efficacia che la psicoeducazione, in confronto alla assistenza standard,non ha effetto sui tassi di ricaduta.

        Esistono prove d’efficacia che la psicoeducazione, rispetto alla assistenza standard,possa migliorare lo stato mentale e l’adesione al trattamento.

        Non sono state riscontrate prove d’efficacia che esista un miglioramento nei livelli di insight.

 

 

 

 

Social skills training

Le Linee guida NICE per la schizofrenia definiscono i programmi di social skills training come: “qualsiasi intervento psicosociale strutturato, di gruppo e/o individuale, con lo scopo di migliorare le performance sociali e ridurre lo stress  e le difficoltà nelle situazioni sociali”.

Il SST è stato sviluppato come una strategia terapeutica derivata dalle tradizioni dell’apprendimento comportamentale e sociale.

        Nove RCT includenti 436 utenti dei servizi.

        La revisione ha riscontrato prove d’efficacia insufficienti per poter valutare se il SST riduca i tassi di ricaduta.

        Il Social Skills Training, rispetto alla assistenza standard:

        Migliora lo stato mentale ( misurato con le scale: BPRS e  SANS)

        Migliora  il funzionamento sociale (misurato con la Behavioural Assessment Task)

 

 

L’assertive outreach ( la presa in carico intensiva sul territorio)

La presa in carico intensiva sul territorio ed i modelli assistenziali simili sono interventi di lunga durata per le persone affette da disturbi mentali gravi e duraturi.

        Sono stati inclusi nella revisione 22 studi RCT, con dati su 3722 soggetti.

        Gli studi inclusi dovevano conformarsi alla definizione dell’ACT.

        I trattamenti di confronto erano l’assistenza territoriale standard, la riabilitazione ospedaliera e il case management.

        Gli studi sono stati inclusi nella revisione solo nel caso in cui i partecipanti fossero affetti da “disturbo mentale grave”.

 

L’effetto dell’ACT sull’utilizzo dei Servizi:

        La maggior parte degli studi condotti in USA.

        Le prove d’efficacia mostrano che, per le persone affette da disturbi mentali gravi, la presa in carico intensiva sul territorio migliora il contatto con i servizi, riduce l’utilizzo dei posti letto e i ricoveri ospedalieri ed accresce la soddisfazione per i servizi rispetto all’assistenza territoriale standard.

        Le persone che ricevono l’ACT hanno maggiori probabilità di rimanere in contatto con i servizi.

        I team dell’ACT riducono la probabilità di ricovero ( rispetto alla assistenza standard e alla riabilitazione ospedaliera): riduzione media dei ricoveri del 40%.

 

 

L’effetto dell’ACT sulla condizione abitativa e sul lavoro

        Gli utenti dei servizi che ricevono l’ACT hanno minori probabilità di essere senza fissa dimora.

        Esistono forti prove d’efficacia che suggeriscono che le persone che ricevono l’ACT hanno minori probabilità di rimanere disoccupate alla fine dello studio rispetto agli utenti che usufruiscono dell’assistenza territoriale standard.

 

L’effetto dell’ACT sui sintomi e sulla qualità di vita

        Gli utenti dei servizi che usufruiscono dell’ACT hanno maggiori probabilità di andare incontro a miglioramenti modesti sia dello stato mentale che della qualità di vita rispetto a quelli che ricevono l’assistenza standard.

 

Negli ultimi 25 anni, numerosi studi hanno evidenziato la capacità degli interventi psicoeducativi familiari (IPF) di incidere positivamente sull’esito clinico della schizofrenia (McFarlane et al. 2003). Questi interventi, a orientamento cognitivo comportamentale, condividono alcuni principi, quali:

a) l’utilità per utenti e familiari di ricevere informazioni dettagliate sulle caratteristiche cliniche della schizofrenia e sulle cure disponibili;

b) la necessità di rendere utenti e familiari più capaci di affrontare le situazioni potenzialmente stressanti attraverso il rafforzamento delle abilità di comunicazione e di problem solving.

I dati degli studi randomizzati controllati evidenziano che questi interventi sono significativamente più efficaci di quelli di routine nel ridurre le ricadute della schizofrenia, con percentuali del 6-12% vs 41-53% a 1 anno e del 17-40% vs 66-83% a 2 anni (Goldstein et al. 1978, Falloon 1985, Hogarty et al. 1991, Magliano e Fiorilli 2007). Tenendo conto delle evidenze scientifiche disponibili, numerose linee-guida raccomandano gli IPF come trattamenti elettivi, congiuntamente a quelli farmacologici, per la cura della schizofrenia (NICE 2002, Lehman et al. 2004, Gaebel et al. 2005). Da uno studio di Magliano e coll., emerge che in Italia, nonostante l’80% delle famiglie dei pazienti con schizofrenia abbia un contatto regolare con i SSM, solo l’8% riceve un intervento strutturato di questo tipo (Magliano et al. 2002: Magliano e Fiorilli 2007).

La rassegna, se pur sommaria, dei modelli della riabilitazione e di alcuni dati della letteratura  meritano riflessioni ulteriori. Se è pur vero che i dati provenienti dalla ricerca evidence-based si riferiscono principalmente ad indicatori clinici e psicopatologici e dovrebbero essere integrati da dati di outcome che valutino anche altre dimensioni (opinioni di utenti e familiari, qualità della vita), l’osservazione riportata della scarsa implementazione nei servizi di tecniche e programmi a forte impatto di efficacia (Magliano e Fiorilli 2007) resta un problema aperto.

L’appropriatezza degli interventi rappresenta un problema ineludibile nelle politiche di organizzazione dei servizi. Siamo convinti che una teoria della tecnica può risultare utile solo se sostenuta da una teoria della cura e che in assenza di entrambe, nel migliore dei casi,  possa solo darsi intrattenimento. Il trattamento dei pazienti difficili presuppone l’elaborazione/falsificazione di modelli psicopatologici, atti a spiegare genesi e mantenimento nel tempo dei disturbi psicopatologici e la formulazione di una teoria della tecnica congruente alla teoria clinica. La riabilitazione psicosociale ha bisogno, per l’elaborazione di progetti riabilitativi efficaci, di attingere ai dati provenienti dai modelli psicopatologici elaborati in ambito clinico e psicoterapico. Proprio l’attenzione alle teorie della cura formulate, tra le altre,  nei campi disciplinari di area cognitivo-comportamentale e psicodinamica potrebbero consentire ai differenti modelli riabilitativi l’elaborazione di teorie della tecnica. Recentemente, Shedler in una revisione di numerose meta-analisi ha sottolineato l’efficacia della psicoterapia psicodinamica oltre che nella depressione e disturbi d’ansia, anche nei disturbi di personalità (Shedler 2010). Analoghi risultati sono stati riportati da Leichsenring sull’efficacia della psicoterapia psicodinamica a lungo termine ( Leichsenring e Rabung 2008). Nei disturbi di personalità borderline un modello di derivazione comportamentale, supportato da numerose ricerche evidence-based,  è rappresentato dalla Dialectical  behavior therapy (DBT)  elaborato da M. Linehan (Linehan 1993). Nel campo della psicoterapia cognitivo-comportamentale, da alcuni decenni, si sono moltiplicati interventi per soggetti schizofrenici ( Tai e Turkington 2009; Chadwick et al. 1996, Fowler et al. 1995, Wykes et al. 2008, Kingdon e Turkington 1994).

 

 I servizi e la Comunità

Un concetto che meriterebbe di essere ripensato e declinato nella prassi psichiatrica è senz’altro quello di “Comunità”. Il termine possiede molte ascendenze in campo filosofico, nel nostro ambito spesso è divenuto sinonimo di “ territorio “: storia e geografia che si sovrappongono.

“Un buon servizio psichiatrico territoriale è virtualmente invisibile”, affermava Julian Leff,  quando, circa un decennio fa, evidenziava  lo scarto evidente tra i risultati della deistituzionalizzazione e delle pratiche di psichiatria di comunità e l’immagine sociale di esse, compresa la scarsa soddisfazione degli utenti e delle loro famiglie: “ Provate a chiedere a un qualunque gruppo di persone non addette ai lavori che cosa pensi dell’assistenza psichiatrica territoriale e la maggior parte di loro, se non addirittura tutti, vi risponderà che è fallita. L’espressione “sul territorio” è perfino entrata nel gergo comune a indicare che una persona è “giù di testa” o “fuori” (Leff  2002).

A tal proposito, Ferrannini notava: “ Leff invita a riflettere sulla invisibilità del servizio psichiatrico territoriale (e dei suoi operatori e strumenti) in contrasto con la percezione ridondante dei pazienti gravi, considerati ancora, nell’ambito di processi di stigmatizzazione, causa di fenomeni sociali ad alto impatto emotivo (persone senzatetto, comportamenti violenti, ecc.)”. (Ferrannini 2002).

D’altro canto, lo stesso concetto di “territorio” andrebbe ripensato. Costrutto polisemico e non riducibile al solo polo  “geografico” : “Se vogliamo comprendere che cosa si intende operativamente per servizio di salute mentale di comunità, occorre introdurre il concetto di relazione di comunità, che dilata il tradizionale concetto di relazione terapeutica dal tradizionale setting medico duale a un setting allargato, che coincide con l’intera comunità sociale e incrocia alcuni concetti per noi essenziali come quello di lavoro di gruppo multidisciplinare, continuità terapeutica e presa in carico. Lo spazio definito come “relazione di comunità” si configura come la relazione tra il sistema “servizio” e il sistema “comunità”. (Corlito 2007 ).

Nel ripensare il territorio, potrebbe anche rientrare la concettualizzazione dei dipartimenti secondo due linee:

·       Dipartimento territorializzato per tutte le funzioni (si trattano solo i pazienti della catchment area) ;

·        Dipartimento deterritorializzato per aree di competenza e specializzazione (servizi per patologia a libera scelta dell’utente, centri specialistici a valenza sovrazonale, ecc.).

Tra i tanti temi che in tale ambito potrebbero essere discussi, vorremmo citare la problematica del trattamento degli esordi psicotici. Mirella Ruggeri e Michele Tansella, in un editoriale della rivista Epidemiologia e Psichiatria Sociale, sottolineavano tre punti per il miglioramento della salute mentale della popolazione:

a)  La promozione della salute mentale e la prevenzione primaria e secondaria.

b) Aumentare la capacità dei servizi di salute mentale di trattare in maniera innovativa, efficace e non stigmatizzante i disturbi mentali al loro esordio.

c)  Comprendere l’interazione fra fattori ambientali e genetici nel determinare la vulnerabilità di un individuo ai disturbi psichici e il loro esito (Ruggeri e  Tansella 2007).

Gli interventi precoci debbono rappresentare una componente fondamentale dell’approccio terapeutico alle psicosi, poiché si sono dimostrati efficaci nel ridurre la durata del periodo di mancato trattamento (Duration of Untreated Psychosis) e nel migliorare l’esito (McGorry e Jackson 1999). In tale ambito di ricerca e di pratica, gli approcci più promettenti sono rappresentati, da un lato, dalla prevenzione secondaria centrata sulle prime fasi successive all’esordio (il cosiddetto “periodo critico” che copre i primi cinque anni dall’esordio) e, dall’altro, dall’attuazione di interventi precoci per le persone ad alto rischio e per i soggetti che manifestano già sintomi prodromici (Cocchi e Meneghelli 2004, Ruggeri e Tansella 2007). Recentemente, McGorry ha evidenziato che nei soggetti ad “Ultra-high- risk” (UHR) l’utilizzo di tecniche CBT, associate a basse dosi di antipsicotici di seconda generazione (risperidone), riduce drasticamente la transizione nell’insorgenza di psicosi (il 9.7% nei soggetti UHR trattati verso il 35% di coloro che ricevevano assistenza standard, nell’arco di tempo di sei mesi) (McGorry 2010). Nel discutere di interventi precoci per l’esordio psicotico, diviene prioritario il tema della organizzazione dei servizi: si devono costruire Servizi specifici per la prevenzione mirata e il trattamento intensivo degli esordi psicotici o essi debbono risultare interni e diffusi all’interno dei DSM? (Corlito 2010). Le esperienze australiane ed inglesi sottolineano la necessità di condurre gli interventi in ambiti accessibili e non stigmatizzanti e dunque in Servizi a  forte specializzazione e distinti dai classici setting psichiatrici, nel nostro paese caratterizzato dalla presenza di DSM a modalità organizzativa generalista, una soluzione potrebbe essere ricercata nell’istituire almeno un unico Centro specializzato per DSM (Ghio et al. 2010).

 

 

  Il Paziente grave

Tra i punti caratterizzanti i servizi di psichiatria di comunità, un ruolo importante è ricoperto dalla centralità della presa in carico di pazienti affetti da disturbi mentali gravi (disturbi dello spettro psicotico e gravi disturbi di personalità). Il punto essenziale del profilo tipico della malattia mentale grave è che questo disturbo ha inizio durante l’adolescenza o la prima età adulta ed è associato ad un disturbo pervasivo delle funzioni mentali, che mette a rischio la normale evoluzione della vita, nonché la sua stessa qualità (Perris e McGorry, 1998).

“Ma chi è il “paziente grave”? È questo un problema che, come ben sappiamo, attraversa da sempre il nostro campo disciplinare (esistono in letteratura almeno venti definizioni di “severe mental illness”), ma soprattutto le pratiche concrete, se ricordiamo la difficoltà definitoria, la complessità delle variabili in gioco (diagnosi, angoli di osservazione e caratteristiche dell’osservatore, committenza, contesto sociale e operativo), il rapporto non lineare che connette la gravità clinica alla gravosità assistenziale e alle espressività di menomazioni di vario tipo e grado (nella sfera dell’autonomia, delle abilità sociali, della qualità della vita)”. (Ferrannini 2002).

Nel continuare a discutere di paziente grave, Ferrannini osserva ulteriormente:” Inoltre non possiamo negare il crescente manifestarsi di nuovi profili di gravità, che si aggiungono alle categorie consolidate, ma al tempo stesso ne ampliano i confini. Si tratta di nuove persone, definite sul versante della storia ora personale, ora psicopatologica, ora istituzionale e sociale, ma spesso dal loro inscindibile intreccio: anziani fragili, pazienti autori di reato inseriti nel circuito penale (carcere, OPG), adolescenti devianti, pazienti con disturbi da abuso e con “doppia diagnosi”, pazienti con gravi disturbi dell’umore e comportamenti autolesivi, persone malate di mente senza fissa dimora nelle grandi aree urbane, ed altre ancora che non conosciamo o non vediamo”. (Ferrannini 2002).

Una dilatazione di confini che ci fa pensare all’aforisma di Tatossian: “Noi non possiamo scegliere le malattie mentali ma ogni epoca storica sceglie la sua psichiatria” (Tatossian 1979).

 “C’è pertanto un ampio consenso sulla necessità che i servizi psichiatrici diano, in via prioritaria, risposte ai pazienti con disturbi mentali gravi, che presentano il più alto grado di bisogni non soddisfatti. Giova ricordare che il tasso totale di pazienti con disturbi mentali gravi si colloca tra 300 e 400 per 100.000 abitanti e le evidenze epidemiologiche mettono in rilievo che i pazienti gravi sono circa il 40% dei pazienti con disturbi dello spettro psicotico ai quali va aggiunto il 9% dei pazienti non psicotici in carico ai servizi: ci troviamo evidentemente di fronte a una realtà quanti qualitativa che richiede un impegno forte”. (Ferrannini 2002).

In questa prospettiva, è necessario riuscire a declinare il tempo della cura (che può anche risultare prolungato, lifetime) ai suoi luoghi (territorio,  domicilio, CSM, ospedale, strutture residenziali e semiresidenziali, case di riposo, carceri, istituzioni varie), prestando attenzione, nei “contratti di cura”, a mantenere spazi di negoziazione tra l’autodeterminazione del paziente (consenso e partecipazione) e la propensione attiva da parte degli operatori nel progettare percorsi di “presa in carico”.

 

 Dopo  la  Deistituzionalizzazione: stiamo imboccando il cammino contrario? 

Sul fenomeno della Deistituzionalizzazione/Reistituzionalizzazione (DI/RI), proveremo a ragionare a partire dalle considerazioni di Priebe e Fioritti (Priebe e Fioritti 2004). Essi fanno notare che la DI non ha mai preso la forma di un processo isolato, relativo alle sole politiche sanitarie o sociali verso la malattia mentale, ma piuttosto si è inserita e spesso ha sfruttato la corrente di cambiamenti più generali negli atteggiamenti e nelle politiche nei confronti di più categorie di cittadini svantaggiati. Essa ha semmai interpretato più che guidato lo spirito di un periodo, quello degli anni ’60, ’70 e ’80, il cui Zeitgeist era certamente quello delle libertà individuali, del primato della soggettività e dei servizi alla persona. La DI ha incontrato un vasto consenso nella maggior parte degli Stati europei e nel mondo anglofono per oltre vent’anni, limitandosi, tuttavia, in alcuni contesti, a un fenomeno di transistituzionalizzazione o transospedalizzazione. Attualmente assisteremmo ad un fenomeno opposto, ovvero la ripresa della RI (Priebe e Fioritti 2004).

Gli indizi proposti dai due autori possono essere sintetizzati nei seguenti punti:

 Il più univoco e costante in tutti i Paesi occidentali riguarda sicuramente l’impressionante aumento dei letti nelle strutture psichiatrico-forensi. Tutti i Paesi europei nel corso degli anni ’90 hanno aumentato, in percentuali che vanno dal 20 al 300% (come Olanda e Germania), la dotazione in Ospedali psichiatrici giudiziari di massima sicurezza e in strutture a media sicurezza, spesso coinvolgendo il settore privato. In quasi tutti i Paesi si stanno programmando ulteriori allargamenti, spesso indirizzando a questo settore risorse prese dai Servizi ordinari.

La situazione degli OPG italiani è in qualche modo diversa, congelati come sono da trenta anni in una condizione provvisoria e poco qualificata. Non è senza significato però che negli ultimi due tre anni il numero degli internati sia aumentato del 20%, che si sia introdotta di fatto la possibilità di effettuare misure di sicurezza all’esterno degli OPG, che si siano avviate sperimentazioni di strutture residenziali a media sicurezza e che si sia ravvivato l’interesse sulla psichiatri penitenziaria (Pirfo 2004, Ferrannini 2004).

Un secondo indizio è costituito da un certo cambiamento nell’atteggiamento dei professionisti riguardo allo strumento del ricovero obbligatorio. Il tasso dei ricoveri obbligatori effettuati nei diversi Paesi dell’Unione Europea varia fino a venti volte (Salize e Dressing, 2004). Tuttavia, nonostante questa variabilità ancora per molti versi inspiegabile, in quasi tutti i Paesi europei questi tassi sono sensibilmente aumentati. Nel Regno Unito dai circa 10.000 del 1980 si è arrivati a 15.000 nel 1998 e ai circa 25.000 attuali. Nell’arco di dieci anni i TSO sono aumentati del 27% in Olanda e del 67% in Germania. Un terzo indizio riguarda la drammatica espansione del settore residenziale, in tutte le sue varie componenti (residenze protette, comunità terapeutiche, socio-riabilitative, gruppi appartamento, comunità alloggio ecc.).

Provando a formulare delle considerazioni sui due ultimi punti citati, ovvero quello della cura del paziente grave e sul manifestarsi di fenomeni di RI, partiremmo dall’adagio che più o meno recita “E’ pur vero che per ogni problema complesso esistono soluzioni semplici e riduttive…peccato che non funzionino”.

A fronte dei problemi sollevati dalla gestione dei pazienti gravi (fenomeno del drop-out dai servizi, assenza di consenso a trattamenti protratti) e del manifestarsi a livello sociale della cultura dell’insicurezza sociale, riteniamo utile ed eticamente fondato continuare a proporre modelli efficaci di cura nell’ambito della psichiatria di comunità, rifuggendo da proposte di Reistituzionalizzazione.

Priebe e Fioritti osservano, inoltre, che in quasi tutti gli Stati dell’Unione sono state riviste le procedure di TSO e in quelli che non l’hanno fatto (Regno Unito e Italia) sono state presentate proposte di legge che tendono ad allargare l’ambito di azione dei Servizi psichiatrici, ed estendere tempi di degenza e potere dei Servizi (Priebe e Fioritti 2004).

Come è noto, nel nostro Paese innumerevoli sono state  le proposte di modifiche della legge 180; anche in questa legislatura vi sono disegni di legge in “materia di assistenza psichiatrica”, accomunati dal dispiegarsi di una panoplia di strumenti rivolti ai “trattamenti senza consenso”:  trattamento sanitario prolungato, prescrizione psichiatrica obbligatoria, TSO extra-ospedaliero, contratto terapeutico vincolante.

Diversi piani di lettura risultano possibili, legislativo, clinico, economico. Forse quello che ci interessa di più è rappresentato dal considerare i diversi disegni di legge come tentativo velleitario di restaurazione culturale.

Una analisi critica della legge 180 potrebbe partire dal testo  “Conversazione sulla 180”, scritto da Basaglia nel 1979, nel quale è possibile rinvenire tracce di un’analisi storico-critica della riforma  italiana (Basaglia 1979). Per Basaglia, il merito della legge è stato quello di porsi come avamposto della lotta, sviluppata negli anni sessanta e settanta dal movimento antiistituzionale, contro lo “stigma” e l’”invalidazione” sociale dei malati di mente. I tre elementi convergenti di questa lotta possono essere rappresentati dalla inutilizzabilità, nei confronti dei pazienti psichiatrici, del concetto di pericolosità e scandalosità, dalla abolizione degli ospedali psichiatrici ( in quanto fabbriche dello stigma e dell’invalidazione sociale) e dal confluire della 180 nella legge 833 di riforma sanitaria; a sancire, quest’ultimo punto, la fine di una legislazione “speciale” per la psichiatria. Gli aspetti salienti della 180, in questa rilettura del testo basagliano, consistono dunque nel superamento, operato dalla legge, dei dispositivi “disciplinari” del sistema psichiatrico precedente (internamento coatto, esclusione sociale, eccezionalità giuridica). L’interesse di questo testo consiste, però, nello sguardo prospettico che ci offre, ovverosia, nella capacità di cogliere nella riforma dispositivi di tipo biopolitico. Per dirlo in sintesi, se la legge Giolitti  del 1904 risultava congruente alle strutture di una società del XIX secolo ( fase industriale, o in altri termini dell’epoca fordista della produzione, con i correlati di “società disciplinare”. E in Italia, comunque, con larghi strati di mondo contadino), la riforma 180 poteva meglio interpretare lo “spirito nuovo”, ovvero una società post-fordista, con forte prevalenza nel mondo del lavoro di precarizzazione, flessibilità, mobilità: alla società disciplinare succede quella biopolitica del controllo capillare. Nel difendere i valori chiave di libertà e uguaglianza non possiamo che rifiutare disegni di legge politicamente reazionari e non fondati su alcuna evidenza scientifica, vuoi clinica che inerente la organizzazione dei moderni servizi di psichiatria di comunità.

A tal proposito, appare interessante, viceversa, notare come sia possibile rinvenire aspetti di congruenza tra modelli di cura e la promulgazioni di leggi quale quella sulla Amministrazione di sostegno (AdS). La storia della AdS prende il via, in Italia, dal Convegno  “Un altro diritto per il malato di mente”, svoltosi a Trieste nel 1986 con lo scopo di: “superare il divario fra gli orizzonti innovatori della 180 e le linee anacronistiche dei regimi di protezione della persona, quali accolte nel codice civile del 1942”, dal quale scaturì la cosiddetta Bozza Cendon :” progetto di riforma del diritto degli “infermi di mente” e di “altri disabili”.

Come è noto, il complesso percorso del progetto, a partire dalla presentazione alla Camera, all’inizio degli anni novanta, culminò nell’approvazione avvenuta al Senato nel dicembre 2003, con successiva pubblicazione della legge nella GU del 9 gennaio 2004 (legge 6/2004); all’art.1 essa recita:

“ La presente legge ha la finalità di tutelare, con la minore limitazione possibile della capacità di agire, le persone prive in tutto o in parte di autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana, mediante interventi di sostegno temporaneo o permanente”.

Le gravi limitazioni a diritti personalissimi (in materia di matrimonio, riconoscimento della prole,disporre testamento o donazione), la loro sostanziale irrevocabilità, hanno reso gli istituti dell’interdizione e dell’inabilitazione inadatti a una tutela flessibile del malato e aperta alle finalità di cura e autonomizzazione introdotta dalla stessa legge di riforma psichiatrica (Catanesi e Carabellese 2006). L’amministrazione di sostegno, viceversa, non è scollegabile da una relazione terapeutica, da un lavoro di rete, da una presa in carico continuativa, da un’attenzione ai diritti (Ferrannini 2007).

 

COMUNITÀ TERAPEUTICHE E TRATTAMENTI PROTRATTI

Sempre più necessaria sembra essere oggi una accurata riflessione sulle strutture residenziali, che devono essere caratterizzate per tipologie e per capacità di risposta ai bisogni diversificati (a trattamento intensivo, come risposta prevalentemente sanitaria/clinica per brevi periodi; a trattamento protratto, come risposta riabilitativa strutturata a medio e lungo termine; di tipo socio-assistenziale, finalizzate al recupero del diritto di cittadinanza, e quindi anche luoghi di vita o comunque luoghi ove trascorrere periodi molto prolungati della propria vita, con un profilo assistenziale “non dedicato” ma proveniente dalle pratiche “ordinarie” del CSM di competenza) (Angelozzi et al. 2005).

La conflittuale compresenza di finalità quali la cura, l’assistenza, l’abitare e la socializzazione rischia di rendere ambigue le funzioni delle strutture intermedie (Asioli 1988), soprattutto se si confonde la riabilitazione psichiatrica con una pratica generica e approssimativa, fatta di vaga animazione, di saltuarie occupazioni del tempo da parte del paziente lungoassistito, di estemporanee iniziative, di intrattenimenti afinalistici (Paltrinieri 1996).

Alcuni fattori di criticità sembrano caratterizzare significativamente le strutture comunitarie, e in particolare quelle che erogano più di altre un trattamento protratto (Ferrannini et al. 2004):

1) Queste strutture accolgono una popolazione con aspetti di maggiore gravità clinica e di intenso bisogno assistenziale rispetto alla popolazione complessivamente assistita dal Dipartimento di Salute Mentale.

2) Il costo economico del trattamento, sia per il suo carattere intensivo (elevato rapporto operatori/pazienti) sia per la lunga durata media della permanenza degli ospiti, è elevato.

La valutazione diagnostica e prognostica tradizionale di per sé appare condizione insufficiente per definire il paziente bisognoso di un inserimento in una comunità a tempo protratto. Nella pratica dei servizi si conoscono i cosiddetti casi impossibili, per alcuni i casi a vita, che faticano a trovare nelle consuete proposte terapeutiche beneficio o miglioramento del quadro clinico. Questi, oltre a soggiornare per lungo tempo nelle comunità in cui sono inseriti, spesso affrontano ripetuti trasferimenti da comunità a comunità, disegnando un nuovo fenomeno che si potrebbe definire nomadismo istituzionale, determinato non solo da normative che regolano i tempi di inserimento, ma talvolta anche da movimenti espulsivi della comunità (Ferrannini et al. 2004). Se, da un lato, si è finalmente assistito all’abbandono di pratiche pseudoterapeutiche, che di fatto mantenevano assetti cronici e invalidanti, dall’altro vi è il rischio oggi che una gestione efficientistica e riparativa del danno, all’interno del tempo definito e puntiforme della prestazione, possa portare a nuove forme di cronicità, che si manifestano attraverso la transistituzionalizzazione (il passaggio del paziente da una comunità a un’altra) o il fenomeno del revolving door comunitario: con ciò si intende sottolineare che trattamenti erogati solo nel rispetto di tempi prestabiliti potrebbero determinare esiti e prospettive terapeutiche fallimentari. Ogni comunità terapeutica si fonda prevalentemente su modelli concettuali di habitat che fanno riferimento alla casa e all’ospedale. Se è implicito che la comunità possa identificarsi, a seconda delle necessità e delle fasi terapeutiche, con entrambi i modelli prospettati, è più facile che una comunità a tempo protratto si trovi più spostata verso il modello culturale della famiglia-casa (Ferrannini et al. 2004).

D’altro canto, i dati ricavati dallo studio Progress Residenze già nel 2004 sottolineavano il basso turnover dalle strutture residenziali che tendevano dunque a configurarsi come “case per la vita” (De Girolamo 2004). Appare prioritario, allo stato attuale, affrontare la riconversione di una parte della “residenzialità” in comunità terapeutiche ad interventi terapeutico-riabilitativo intensivi (Corlito 2010).

 

 Supported housing

La storia della psichiatria è una  storia di case (Saraceno 1995)

        Custodial housing (strutture tipo board-and-care home, nursing home, che ospitano anche grandi numeri di pazienti)

        Supportive housing (strutture residenziali di medie e piccole dimensioni ed abitazioni protette, con carattere di transitorietà: paradigma del continuum residenziale)

        Supported housing (abitazioni indipendenti con supporto flessibile e individualizzato, in cui l’aspetto abitativo è disgiunto da quello assistenziale)        (Maone 2006).

L’approccio di supported housing si definisce per contrapposizione al paradigma  del continuum residenziale. Continuum  residenziale o linear continuum housing: si fonda su una “lineare” concezione del decorso dei disturbi mentali gravi, si suppone che i bisogni  del paziente mutino nel tempo, in relazione alle fasi del suo disturbo e che, pertanto, occorra prevedere un sistema residenziale che contenga un ampio ventaglio di setting differenziati sulla base del livello di assistenza e di restrittività.

Il paziente dovrebbe transitare lungo tale continuum, dall’assistenza sulle 24 ore fino alla vita indipendente. Al di là dei suoi limiti applicativi, la difficoltà di fondo del continuum consiste nello stretto legame, la sovrapposizione e la confusione fra trattamento e luogo di vita del paziente.  Solo disgiungendo il bisogno di trattamento/assistenza dal bisogno di avere un luogo in cui vivere, diviene possibile mettere più chiaramente a fuoco le esigenze relative agli aspetti strettamente abitativi e, separatamente, il tipo e l’intensità del supporto che il paziente richiede o di cui ha bisogno (Maone 2006)

Infine, relativamente al decorso, se un maggior impegno dei servizi sul versante del trattamento precoce è oggi doveroso e potrà evitare probabilmente in futuro molte situazioni che oggi vediamo evolvere negativamente, ciò non offre però ragioni etiche o prognostiche per un disinvestimento da quelle situazioni in cui un trattamento precoce non è più possibile.  (Peloso 2007).  “Il gruppo operativo si misura sulla quantità e sul tipo di progetti, fantasie e realizzazioni tecniche che riesce ancora a produrre nei confronti del paziente cronico” (Ballerini 1987 ). Occorre quindi anche un forte impegno a evitare che le situazioni problematiche, quelli che Asioli definisce i pazienti “ingrati”, finiscano per essere concentrate in alcune strutture residenziali – a gestione diretta o in convenzione è irrilevante – che divengono l’anello più basso del servizio, nuovi ghetti isolati, divisi, staccati sui quali nessuno riesce più a investire (Peloso 2007).

 

 

                                             

                                         La gravosità della cura

Gli dei avevano condannato Sisifo a far rotolare senza posa un macigno sino alla cima di una montagna, dalla quale la pietra ricadeva per azione del suo stesso peso. Essi avevano pensato, con una certa ragione, che non esiste punizione più terribile del lavoro inutile e senza speranza

    Albert Camus, il Mito di Sisifo 1942

 

 

 L’operatore, la gravosità della sofferenza e il Servizio

La progettazione e realizzazione di “percorsi di cura” mette in gioco saperi clinici ed organizzativi. Se vogliamo, sinonimo di percorso di cura, o rivelatore di un’altra dimensione, è una delle icone della Psichiatria di Comunità, ovvero il concetto di “presa in carico”. Rossi Monti ci avverte che il pregio della definizione di presa in carico rappresenta il suo stesso limite “ da un lato trasmette il senso della gravosità del compito che il clinico o il gruppo dei curanti si assume; dall’altro fa pensare al mettersi sulle spalle un fardello, facendosi appunto carico di una serie di incombenze che vicariano funzioni e capacità che abitualmente competono all’altra persona…la funzione vicariante può essere limitata nel tempo o parziale, ma il termine ha comunque il merito di non nascondere la pesantezza del compito” (Rossi Monti 2006).

Ragionare sulla presa in carico, può farci riflettere su quanto il trattamento protratto di utenti “gravosi” (Ballerini 1987) e la frustrazione che questo spesso comporta, possa influire sulla declinazione di modelli di relazione terapeutica, al fine di evitare modalità difensive sostanzialmente di tipo espulsivo sia del paziente sia della problematica stessa (Asioli 2004).

Di fronte all’ineluttabilità di certi percorsi di sofferenza, e a quello che Racamier definisce esistere non esistendo di molti dei nostri utenti (Ferro et al. 2002), non si può non avvertire un senso di insignificanza, di inadeguatezza, di inquietudine. Il senso di frustrazione (di fantasie onnipotenti), se negato o non sufficientemente elaborato, si traduce in quel non c’è niente da fare! che troppo spesso e in modo più o meno esplicito ci diciamo (Perozziello 2008).  Il confronto tra i modelli teorici e gli approcci clinici nasce quindi dall’esigenza di una riflessione sul trattamento dei pazienti gravi. Racamier definisce il processo che si svolge nei pazienti schizofrenici gravi come durabile ed estensibile nel tempo e nella psiche del soggetto (Racamier 1995). Ciò non significa, però, che sia incurabile. Non bisogna, infatti, pensare che la schizofrenia sia incurabile per il fatto di durare nel tempo, né considerarla disorganizzata perché è complessa (Lanzara et al. 2004).

L’attenzione dei curanti deve quindi attivare una funzione integratrice che tenga conto di tutti i vari aspetti, favorendo un miglior adattamento del paziente attraverso l’accoglimento dei suoi bisogni – anziché negarli – e aiutandolo a proteggersi dai vissuti spesso insostenibili causati dalla discontinuità delle sue relazioni, fatte di rotture e di agiti. Se è stato costruito un modello in cui il terapeuta è in grado di tollerare e sostenere le esperienze negative, sarà possibile ristabilire nel tempo il rapporto con il paziente e parlare di quanto è accaduto (Lanzara et al. 2004).

 

Normalità, recovery, epoché

Come l’intero sistema sanitario può servire i bisogni del paziente quando egli ha bisogno di assistenza protratta per tempi lunghi (ponendo attenzione al suo diritto di piena cittadinanza)? (Saraceno 2005).

 

 

Una domanda da riattualizzare è quella relativa la concettualizzazione della “normalità in psichiatria”. Non a caso, rinunciare a “inseguire la normalità a tutti i costi cercando di adeguare i pazienti ai nostri modelli di cura e ai nostri standard di benessere” (Toniolo e Grossi 2006), così come considerare la persona “un soggetto visto nella sua interezza e, come tale, portatore di interessi, di emozioni, di talenti, di speranze e di paure”, sono parte integrante delle più avanzate proposte di revisione dei principi di riabilitazione psichiatrica (Carozza 2007). Vanno nella stessa direzione la ridefinizione della “guarigione” come “modo di vivere una vita soddisfacente, piena di speranze e collaborativa, anche con i limiti posti dalla malattia” (Roberts e Wolfson 2004) e la recente valorizzazione del concetto di  “empowerment” (Rappaport 1981) come partecipazione attiva alla definizione della cura e maggior controllo della propria vita del paziente, che si contrappone al tradizionale ruolo paternalistico del terapeuta (Gosio e Pellegrino 2009).

Il tema della guarigione (recovery) sta assumendo un peso considerevole nella letteratura scientifica internazionale e, in molti Paesi, le politiche per l’assistenza psichiatrica hanno iniziato a prevedere in modo esplicito le strategie per garantire un’assistenza recovery-oriented (CSIP et al. 2007). Questo rilievo nella letteratura e nelle politiche è anche una prima risposta alle sollecitazioni in tal senso che sono venute dalle organizzazioni dei familiari e degli utenti, che non accettano che l’efficacia dei trattamenti offerti venga disgiunta dalla presenza di aspettative favorevoli e di strategie di empowerment (Tibaldi e Govers 2009). Va chiarito e ricordato che sono state le associazioni di utenti e familiari a porre per prime questo tema sul tavolo, richiamando professionisti e politici a confrontarsi con le scelte che questo tema implica. (Tibaldi e  Govers 2009).

In una relazione presentata nel 1971 a Helsinki all’International Committee Against Mental Illness, Basaglia aveva sostenuto che l’oggetto della riabilitazione andava individuato a diversi livelli: quello individuale, cioè il malato e la sua malattia, quello sovrastrutturale in cui il malato era costretto, cioè l’istituzione, e quello strutturale, definito dal ruolo strategico che l’istituzione ha all’interno del sistema sociale di cui è espressione.

Cosa significa tutto questo per il futuro della riabilitazione? Molto semplicemente che c’è spazio per rivederne i contenuti, definendola come una strategia di salute pubblica che mira a ridurre i fattori di rischio e a promuovere i fattori protettivi implicati nell’insorgenza e nel mantenimento delle difficoltà nel funzionamento sociale connesse ai disturbi mentali, attraverso interventi a livello individuale, interpersonale e socioambientale. Su questi presupposti si può stabilire una nuova alleanza tra clinici, ricercatori, utenti e società civile e su questa frontiera si misurerà nei prossimi anni lo sviluppo della riabilitazione in psichiatria“ (Barbato 2008).

 

 

Conclusioni

Un’introduzione non è fatta per avere delle conclusioni. Ci si può,  ragionevolmente,  dire soddisfatti di una introduzione solo se questa riesce a definire un campo per suscitare dibattito e approfondimenti.

Il trattamento del “paziente grave” è il tema rispetto al quale le relazioni che seguiranno hanno cercato di misurarsi e pertanto vorremmo tornarci ancora. Pazienti caratterizzati da una patologia definita grave dalla psicopatologia e dalle classificazioni psichiatriche, da  funzionamento mentale alterato dalla presenza di deficit funzionali e da difficoltà nel sostenere un trattamento e nello stabilire l’alleanza terapeutica (Perris 1989, Perris 1998, Semerari 1999).

Il trattamento dei pazienti difficili esige l’elaborazione/falsificazione di modelli psicopatologici, atti a spiegare genesi e mantenimento nel tempo dei disturbi psicopatologici, e di dotarci di una teoria della tecnica congruente alla teoria clinica. Il riflettere su “Il normale e il patologico” a declinare modalità di cura e organizzazione dei servizi: ad esempio, trattare come variabili indipendenti l’abitare ed il curare.

Ancora una volta: appropriatezza degli interventi, attenzione ai processi di recovery per generare risorse, empowerment e diritti sociali.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 


 
 
 
 
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Responsabile Editoriale : Giuseppe Leo

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