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FRENIS  zero 

Psicoanalisi applicata alla Medicina, Pedagogia, Sociologia, Letteratura ed Arte

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Frenis Zero  Publisher

     "Violenza sociale e sofferenza psichica"

di Anna Sabatini Scalmati

 

 

 

Nell'annunciare l'uscita del libro "Bearing Witness. psychoanalytic work with people traumatized by torture and State violence", abbiamo avuto il permesso da uno dei curatori, Anna Sabatini Scalmati, di riprodurre la versione in italiano del capitolo da lei scritto che ha il titolo "Social conflicts and psychic suffering". Ringraziamo sentitamente la dottoressa Scalmati per la sua gentilezza.

BEARING WITNESS

Psychoanalytic Work with People Traumatized by Torture and State Violence

Editors (a cura di) Andrès Gautier & Anna Sabatini Scalmati

Karnac Books, London 2010

ISBN  978-1-85575-796-7

pp.172

 


 

Summary

 

Social violence and psychical suffering

 

The paper presents the clinical case of an African adolescent, imprisoned and tortured for months, who has experienced the catastrophic state of constant and extreme emotional/physical upheavel, put in action by the brutality of state-sponsored violence. In cases like this, it is essential that therapy functions as a container or a place where aspects of shame, anger, pain, feelings of being powerless and the fear of death can be deposited. If this occurs it is possible to re-establish mental process of differentiation, ambivalence and contradiction. It is crucial to establish a schizoid division between prisoner and keeper, as the first step to help the patient to recover himself.

Riassunto

 

Si presenta il caso clinico di un adolescente africano che, imprigionato e torturato per mesi, ha conosciuto la catastrofica accelerazione affettiva/ sensoriale messa in azione dalla brutalità del terrorismo di stato. E’ essenziale in questi casi che la terapia si faccia ricettacolo e luogo di depositazione di aspetti di vergogna, rabbia, dolore, sensazioni di piccolezza e sentimenti di morte. Se ciò avviene, è possibile riuscire a riattivare processi mentali di differenziazione, ambivalenza, contraddizione. Operare una divisione schizoide tra prigioniero e carceriere, primo passo per aiutare il paziente a ritrovare se stesso.

 

 

 

            

 

 

  

 

Rivista "Frenis Zero" - ISSN: 2037-1853

Edizioni "Frenis Zero"

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 Di prossima pubblicazione/About to be published:

"Psicoanalisi e luoghi della negazione" a cura di A. Cusin e G. Leo (Editors)

Writings by: J. Altounian, S. Amati Sas, M. Avakian,  A. Cusin, N. Janigro, G. Leo, B.E. Litowitz, S. Resnik, A. Sabatini Scalmati, G. Schneider, M.  Šebek, F. Sironi, L. Tarantini.

Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero

ISBN: 978-88-903710-4-2

Anno/Year: 2011

Pages: 400

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"Lebensruckblick"

by Lou Andreas Salomé

(book in German)

Author:Lou Andreas Salomé

Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero 

ISBN: 978-88-97479-00-0

Anno/Year: 2011

Pages: 267

Prezzo/Price: € 19,00

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"Psicologia   dell'antisemitismo" di Imre Hermann

Author:Imre Hermann

Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero 

ISBN: 978-88-903710-3-5

Anno/Year: 2011

Pages: 158

Prezzo/Price: € 18,00

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"Id-entità mediterranee. Psicoanalisi e luoghi della memoria" a cura di Giuseppe Leo (editor)

Writings by: J. Altounian, S. Amati Sas, M. Avakian, W. Bohleber, M. Breccia, A. Coen, A. Cusin, G. Dana, J. Deutsch, S. Fizzarotti Selvaggi, Y. Gampel, H. Halberstadt-Freud, N. Janigro, R. Kaës, G. Leo, M. Maisetti, F. Mazzei, M. Ritter, C. Trono, S. Varvin e H.-J. Wirth

Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero

ISBN: 978-88-903710-2-8

Anno/Year: 2010

Pages: 520

Prezzo/Price: € 30,00

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"Vite soffiate. I vinti della psicoanalisi" di Giuseppe Leo 

Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero

ISBN: 978-88-903710-0-4

Anno/Year: 2008

Prezzo/Price: € 18,00

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OTHER BOOKS

"La Psicoanalisi e i suoi confini" edited by Giuseppe Leo

Writings by: J. Altounian, P. Fonagy, G.O. Gabbard, J.S. Grotstein, R.D. Hinshelwood, J.P. Jiménez, O.F. Kernberg, S. Resnik

Editore/Publisher: Astrolabio Ubaldini

ISBN: 978-88-340155-7-5

Anno/Year: 2009

Pages: 224

Prezzo/Price: € 20,00

 

"La Psicoanalisi. Intrecci Paesaggi Confini" 

Edited by S. Fizzarotti Selvaggi, G.Leo.

Writings by: Salomon Resnik, Mauro Mancia, Andreas Giannakoulas, Mario Rossi Monti, Santa Fizzarotti Selvaggi, Giuseppe Leo.

Publisher: Schena Editore

ISBN 88-8229-567-2

Price: € 15,00

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Da anni seguo in psicoterapia psicoanalitica persone provenienti dal subcontinente sahariano che hanno conosciuto la prigionia, la tortura, la violenza fisica e sessuale e, in momenti di assoluto pericolo, si sono trovate a scegliere tra due alternative: o consegnarsi ad una morte crudele ed anonima, o fuggire non importa dove. Per un imprevisto gioco del caso, si è fatta avanti la seconda possibilità, da cui il loro fortunoso arrivo in Italia.

Sulle spalle di queste persone, accanto ad esperienze di brutalità e violenze, grava la lacerazione del tessuto familiare e sociale, radice ed humus della loro identità affettiva e della loro personalità.

 

 

Caso clinico

 

Dall’istituzione con cui lavoro ricevo un dossier che mi dà sommarie notizie di un ragazzo di 17 anni che, dietro suggerimento dell’assistente sociale, ha accettato di avere dei colloqui con me.

Nel file leggo che il giovane, per l’attività e l’impegno dei genitori, è stato molti mesi in prigione; ne è poi fuggito, grazie all’intervento di persone esterne.

Quando la violenza di Stato iscrive una persona nelle liste di proscrizione, prima o poi perseguita tutti i suoi familiari, adulti o bambini che siano. La sorte di questo giovane, a cui do il nome di Carlo, non è diversa da quella di molti altri. Non si sa nulla dei suoi familiari.

Subito dopo la fuga, Carlo è stato fatto salire su un aereo con destinazione Italia: scalo Fiumicino. Superata la frontiera, il passer che l’ha accompagnato si è dileguato. Carlo è abbandonato, alla mercé di una realtà sconosciuta e di imprevedibili presenze estranee. In tasca ha cinque euro.

All’angoscia catastrofica connessa alla perdita di tutto ciò che è noto - affetti familiari, compagni, gruppo sociale e poi carcere - si aggiunge l’angoscia dell’assolutamente nuovo e della mancanza di un qualsivoglia punto di riferimento. Vincoli improvvisamente perduti aprono voragini, impediscono di fare distinzione tra il passato e il presente, tra mondo interno e mondo esterno.

Al primo appuntamento, come poi a tutti gli altri, Carlo giunge puntuale.

Entra timoroso, a testa china. Stento a riconoscere in lui l’adolescente che quelle poche righe mi hanno fatto immaginare. Si siede e inarca la testa sul petto; del suo viso riesco ad intravedere solo la palpebra destra abbassata, scossa da un rapido tremore e il labbro superiore, anch’esso scosso da fremiti.

Passano i secondi, il silenzio è profondissimo; ho l’impressione di cogliere i battiti del suo cuore; ho davanti a me un giovane ferito di cui percepisco i segni del terrore e dell’angoscia.

Il tempo scorre in silenzio: parla il suo corpo chiuso su se stesso, le mani che si stringono e si aggrappano l’una sull’altra, il pallore che tinge la sua pelle di ombre verdastre. Chiuso su se stesso, Carlo sembra difendersi da uno spazio senza confini da cui può essere risucchiato e da cui può arrivare di tutto.

Cerco di contenerlo con il mio sguardo e con la mia attenzione che si è fatta molto intensa. Dopo poco gli dico che sono con lui e che in questa stanza, assieme, possiamo fare qualcosa per aiutarlo, so che ha molto sofferto.

Dopo più di 30 minuti, le sue prime faticose parole: mi chiede se può avere dell’acqua. Nell’alzarmi ho un brivido, mi domando quanto quest’incontro ne rievochi altri ben diversi, da cui questa richiesta d’acqua. Dopo l’applicazione di elettrodi, il bisogno di bere è fortissimo. Torno a sedermi e mi domando se lo sguardo con cui avvolgo la sua persona, il silenzio della stanza, l’acqua che gli ho offerto l’aiutino a differenziare questo luogo dai luoghi in cui è stato rinchiuso per tanto tempo.

Lo vedo lottare per trattenere scoppi di pianto, poi, ad un tratto, due lacrime grosse come chicchi di grandine gli solcano il viso.

E’ pericoloso fare rumore in prigione, ancora più pericoloso far vedere il proprio dolore. Ha imparato a trattenere le lacrime, a nasconderle, a condensarle in due sole grandi gocce. Ma è anche pericoloso essere in contatto con l’ansia che questa stanza ha fatto emergere. Occorre mobilizzarla, tenerla sotto controllo.

Alcuni minuti prima della fine del nostro tempo gli comunico che la seduta sta per terminare e che, se lui è d’accordo, ci vedremo alla stessa ora, lo stesso giorno fra una settimana. Si alza; dopo alcuni secondi, senza guardarmi, ma con parole che aprono al mio sguardo il suo mondo interno, mi dice: “Come si può guarire da tutto questo…?”

Gli dico che non lo so, ma assieme possiamo provarci. Esce a capo chino, come era entrato.

Durante la seduta il suo corpo si era fatto veicolo di forti emozioni e aveva messo in secondo piano la parola; quando, dopo averlo accompagnato alla porta, rientro nella stanza, percepisco una forte oppressione alle tempie.

In queste terapie occorre molta esperienza e sensibilità clinica;  più che interpretazioni di significati, quello che transita sono intense comunicazioni di transfert e controtransfert.

La settimana successiva, Carlo giunge puntuale all’incontro. Continuerà poi a venire per circa due anni.

Nel primo incontro, il giovane mi ha insegnato che il silenzio è la lingua in cui transiteranno le nostre comunicazione più profonde. Il suo silenzio, ciò che mi dice il suo corpo - la postura immobile e tremante, la tensione con cui stringe una mano sull’altra o, nei giorni freddi, il suo berretto, il capo reclino, la distanza che interpone tra sé e il tavolo – danno espressione ai suoi stati mentali.

La mia stanza è calda, piccola ed accogliente, ma io ho sensazioni di freddo e l’impressione che i confini del mio corpo incontrino il vuoto. Lascio che i minuti trascorrano in silenzio e che queste sensazioni si decantino; poi, gradualmente, gliene parlo. Gli parlo del suo sentirsi solo, anzi isolato, che la sua storia tanto diversa da quella delle persone che incontra amplifica il suo isolamento; che nulla di quello che lo circonda ha senso per lui, che soffrire assieme tutto ciò lentamente l’aiuterà.

Dopo un po’, sempre a testa china, mi dice: “Le mie ossa non si scalderanno più, le mani mi fanno male, il sangue non scorre”. Sul suo volto una, massimo due lacrime. Penso che dobbiamo lentamente scongelare un mondo ghiacciato dall’odio, dalla vergogna e dal dolore delle torture, tornare a fare circolare il sangue in un corpo che ha più volte visto in faccia la morte. Anche le sue notti sono “ghiacciate”, Carlo da mesi non sogna. Dorme pochissimo, ha paura dei suoi compagni di camera.

Le notti in prigione sono più pericolose del giorno, l’arbitrio è più nero. Si è chiamati, si è portati via, non si sa se si tornerà in cella.

Le sedute si susseguono con le stesse modalità: alcuni movimenti significativi e poche parole. Dopo due mesi riesce a slegare una mano dall’altra e porta la mano destra sulle labbra. Un gesto per placare il tremore? per sentirsi? o solamente un gesto di libertà? Non lo so, è un movimento, l’inizio di un disgelo. Dopo poco mi dice: “Non ce la faccio a parlare. Io sono sempre là, quello che è avvenuto là è il mio presente”.

Il dolore che improvvisamente fa irruzione protrae a tempo indefinito lo spavento dell’aggressione subita, il tempo sembra chiudersi all’interno di un continuo presente. Ciò impedisce alla sua voce di diventare parola, e a Carlo, da “cosa” in mano dei carcerieri, tornare ad essere persona umana tra altre persone. Carlo non può andare dal medico, ne teme il verdetto: infezione da HIV.

Gli dico che so che è molto difficile parlare ad una sconosciuta del dolore, della vergogna e dello strazio in cui è stata presa la sua giovane vita. Che sono qui per accogliere e sorreggere le sue difficoltà e per cercare di alleviare il suo vissuto di sofferenza e paura. Spero di aiutarlo a sentire che, accanto al suo passato, può incominciare a percepire lo scorrere di giorni diversi.

L’effrazione del terrorismo di Stato lascia come marchio una grande fragilità e un’invasiva sensazione di piccolezza. L’adolescente dalla cui vita l’adolescenza è stata violentemente cancellata, ha imparato a vivere con queste piaghe, sa come muoversi e cosa l’aspetta. L’aprirsi a questo paese così diverso dal suo, sapere cosa ne è della sua famiglia, forse completamene massacrata, guardare questo suo forzato presente, apre altre piaghe; ne ha paura, non ne conosce l’entità e il prezzo.

Tutto ciò deve essere affrontato, ma questo verrà dopo; per prima cosa è urgente che Carlo percepisca che c’è qualcuno che condivide i suoi fremiti, che coglie la sua sofferenza, che lo aiuta a differenziare tra i diversi aspetti della sua esperienza; e che egli può depositare nei nostri incontri la sua vergogna, la sua rabbia, il suo dolore, il suo odio e i suoi sentimenti di morte.

Nel corso delle sedute assisto alla lotta che il gelo, la sfiducia, l’enormità dei fatti hanno ingaggiato contro la sua parola. Gliene parlo in termini molto semplici, mi dice: “Le parole vengono alla bocca, ma poi tornano dentro, non escono”. Gli dico che questo accade perché non sono solo parole, ma urli, pianti, emozioni intere, fatti duri e concreti a cui è impossibile dare un nome. Per un attimo, timidamente, per la prima volta dopo mesi, alza lo sguardo su di me. Sul suo volto una lacrima, ma anche sul mio.

La volta successiva arriva in ritardo. Mi dice che è sceso alla solita fermata, ma si è perduto, non riusciva più a trovare la strada, si è accorto che girava sempre attorno al mio palazzo senza riuscire a vedere il portone.

E’ difficile ristabilire la fiducia, tornare a vedere la luce. In pochi secondi si dà la morte, si lacerano legami ed affetti, ma quando poi si prova a ridare un senso alla vita, a riappropriarsi di qualche sentimento, si perde la strada, il percorso diventa lento, scivoloso ed irreale.

Dopo quattro mesi riesce ad andare da un internista, poi appare il primo sogno. Ovviamente terribile, così terribile che gli fa male il cuore. I sogni di questi pazienti hanno una qualità concreta con ripercussioni sul loro stato di salute.

Ho visto massacrare mia madre…silenzio, effrayant!  Mi sono svegliato di soprassalto, un’angoscia terribile, il cuore…, e si porta la mano al petto, mi fa male”.

Mi chiedo a quale movimento psichico sia legato questo sogno, cosa è accaduto, a cosa si deve questo scongelamento, pur se così doloroso. Gli chiedo della giornata, della sua serata. Mi dice: “Mi sono svegliato per andare in bagno, tornavo in camera quando degli uomini ospiti del centro, forse avevano bevuto, hanno cominciato a parlare male dell’Africa, a ridere. E’ vero, mi dicevano, che nel tuo paese gli uomini e le donne vanno in giro nudi? Io mi sono molto offeso, ho sentito dolore, ho cominciato a difendere il mio paese, la mia terra; poi me ne sono andato. Non avevo mai parlato con loro, mi ha fatto tanto male sentirli. Poi mi sono addormentato,  e ho fatto  questo sogno”.

Gli faccio notare che ha difeso la sua comunità, che ha fatto una fondamentale distinzione tra la popolazione e i carcerieri, ma poi il passato, la violenza del potere si è prepotentemente ripresentata, l’ha ripreso nella sua rete di morte ove non è ammessa differenziazione, ambivalenza, contraddizione. Prima gli era difficile parlare con i compagni del centro perché la sua prigione si estendeva anche al mondo esterno, ora che è riuscito a circoscriverla al suo interno, che ha avuto il coraggio di difendersi e di dare la sua versione dei fatti, i soldati sono tornati; con tutto il loro potere l’hanno colpito al cuore.

Con il passare delle settimane, Carlo lentamente comincia ad abbassare le sue difese, cessa di immobilizzare in una chiusura autistica le sue angosce, torna ad essere in contatto con alcune sue risorse; riprende a sognare. Ma i suoi sogni sono terribili. “E’ notte, buio.  Nella foresta è inseguito dai soldati che afferrano le persone e le gettano nelle fiamme”. Un altro: “I soldati gettano i prigionieri da elicotteri in pasto ai coccodrilli”.

Da questi sogni si sveglia di soprassalto e non riesce più a dormire.

La riattivazione dell’attività onirica va di pari passo con un netto peggioramento psicofisico. In seduta poche, intense comunicazioni. Carlo è molto pallido, si sente male, dispera di riuscire a venire fuori dal suo stato di confusione e paura. Eppure ha cominciato ad essere più presente alla sue giornate; seppure per brevi tratti, il passato in qualche modo comincia a divenire tale. Durante le giornate è impegnato in un lavoro, al centro di accoglienza si sente più sicuro, ma gli incubi hanno riaperto le porte del suo inferno personale; tutto sembra spostarsi contemporaneamente nel passato e all’interno. Sembra che quello che non è stato ucciso allora nella realtà, debba esserlo adesso, nella raffigurazione onirica. I momenti di speranza che, seppure deboli, erano apparsi all’orizzonte, sono attaccati da questo movimento. Io sono in pena per lui.

Un giorno entra zoppicando. Dopo alcuni minuti di silenzio gli chiedo cosa è accaduto alla sua gamba: “Mi hanno bastonato”. Sto per esprimere un moto di indignazione e di allarme, quando noto che sta per dire qualcosa. Gli lascio tempo.

Dopo un po’: “Stanotte ho fatto un sogno terribile. Sono in prigione, entrano i soldati con pistole, fucili, mi bastonano, mi prendono a calci. Chiedo pietà, ma niente, ancora calci, botte, non finivano mai. Poi entra una donna, io non la vedo in faccia. Sono per terra, ma sento che dice a quello che più di tutti si era gettato su di me di andare a consegnare una lettera. Gliela porge. Allora quest’uomo se ne va, gli altri si allontano. La donna mi dice: svelto, fuggi, fuggi!! Lei va da una parte, io dall’altra. Da quando mi sono svegliato la gamba mi fa male. Mi hanno bastonato tanto. Ho avuto una terribile paura, credevo di morire”.

 

 

Considerazioni di tecnica e di teoria

 

A questo punto credo siano opportune alcune riflessioni.

Nel colpire l’avversario, il terrorismo di Stato vuole in lui/lei colpire il percorso di umanizzazione, la lenta evoluzione degli affetti, l’essere soggetto ed individuo, l’appartenere alla vita ed essere un’espressione dell’esistere.

La violenza dello Stato lo/la strappa dal suo retroterra culturale ed umano, dalla sua storia familiare, sociale ed affettiva, dagli odori e dai colori della sua terra, in una parola da quell’humus originario nel quale è emersa la sua differenza: quell’area di dipendenza assoluta con l’ambiente che è inscritta nei livelli profondi della personalità umana.

 

“Il nostro presente senso dell’Io - scrive Freud - è […] un avvizzito residuo di un sentimento assai più inclusivo, anzi di un sentimento onnicomprensivo che corrispondeva ad una comunione quanto mai intima dell’Io con l’ambiente” (Freud 1929, 562 ).

 

Il sopruso del potere strappa l’individuo dai luoghi affettivi ove si saldano i primi legami, e con essi il primordiale sentimento di sé, un’appartenenza di base, fatta di reciprocità e complementarità, ove si depositano i nuclei indifferenziati, indeterminati ed originari del nostro esistere. Là ove trovano ricettacolo e depositazione aree di ambiguità e di simbiosi: il nucleo agglutinato ed ambiguo di cui parla Bleger, che di norma rimane silente. Ombra mai dissipata, che non chiede di esserlo nella misura in cui è condivisa e contenuta dall’ambiente. Che in parte si decanta nei comuni gesti quotidiani, in parte rimane immobilizzata sullo sfondo, sorretta dal consenso muto della comunità, retroterra di sicurezza, sintesi ed espressione dei suoi membri.

La perdita di questa relazione primordiale, con cui si ha una relazione massiva ed indiscriminata, è catastrofica. Quando ciò avviene si ha a che fare con la perdita del “depositario” a cui seguono a valanga tutte le altre perdite. Vera e propria “apocalisse culturale” da cui si fanno avanti i fantasmi inquietanti, confusi e primigeni dell’indifferenziazione primaria e dei primi orizzonti persecutori.

Il venire meno dei legami primari, della famiglia e della comunità tracima sull’individuo confusione, terrore e persecuzione. Stati di inquietante estraneità e il timore di non riuscire a sopravvivere.

Invaso dall’improvvisa cancellazione della propria identità affettiva e sociale, intersoggettiva e trans-soggettiva, l’Io è sopraffatto dall’insorgere di stati di confusione. Ne possono derivare un annebbiamento più o meno temporaneo della coscienza e un’invasiva angoscia catastrofica, vissuti di depersonalizzazione e derealizzazione, confusione psicotica e frammentazione.

Nel lavoro con questi pazienti è necessario avere ben chiaro che abbiamo a che fare con la défaillance del sociale e del trans-soggettivo, con lo sfaldamento di ciò che era dato per garantito. Con l’impotenza della mente ad integrare, legare, elaborare in catene associative l’accelerazione affettiva /sensoriale della brutalità sofferta, con l’angoscia legata al crollo e all’assenza di oggetti protettori esterni. Con profondi sentimenti di impotenza, di mancanza di difesa e vissuti di disintegrazione e morte.

A queste considerazioni consegue la modalità tecnica per cui, ad esempio nel sogno “mi hanno bastonato”, sebbene sia esplicito il ruolo affidato alla mia persona, non faccio interpretazioni di transfert. Non le faccio perché è urgente aiutare il paziente a dipanare il connubio intenso ed improvviso che si è verificato tra le aree primitive ed indifferenziate della sua mente - il nucleo agglutinato - e la perversione e la violenza subite.

In questo sogno il paziente ha operato una discriminazione fondamentale, è questa che va sottolineata e rafforzata perché egli ha bisogno di continuare a procedere su questa strada. A livello intrapsichico appare una differenziazione tra buoni e cattivi, tra la morte e la vita; questa stessa differenziazione deve estendersi tra il suo mondo interno e la violenza dello Stato il cui ordine “non è contenuto dallo spazio psichico del soggetto, ma [...] lo determina senza che  egli possa riconoscervi ciò che attiene alla propria personale violenza” (Puget 1989). Solo dopo questa primaria distinzione, gli eventi che vive nel presente si potranno differenziare dal suo passato.

Primo obiettivo di queste terapie è stabilire chiare scissioni, non integrare una divisione schizoide.

La perversione è legge in prigione; come in una cloaca qualsiasi cosa è uguale al suo opposto, così tra le sue mura, tra prigioniero e carceriere, sequestrato e sequestratore si stabiliscono false simmetrie, e false equazioni equiparano un oggetto ad un altro. Carlo deve riuscire a liberarsi da tutto ciò, deve tornare a fare delle discriminazioni, a differenziare tra sé e gli altri.

Sta a me aiutarlo in questo processo, dalla mia non “ambiguità” dipende la sua possibilità di continuare a procedere su questa strada. Chiamarmi dentro con una interpretazione di transfert non serve al paziente. Mentre ciò che serve è aiutarlo a fare luce sulla perversa fusione che egli teme sia avvenuta tra lui e i suoi persecutori, e ad uscire dalla proditoria confusione in cui si sente impaniato, potendo distinguere tra la sua persona e gli altri. Ciò significa lenire i suoi profondi stati confusionali, i momenti di annebbiamento e restringimento di coscienza.

L’astenersi dall’interpretazione di transfert, norma a cui mi attengo sempre, era tanto più necessaria in questo caso. Carlo era fuggito dalla prigione grazie all’intervento di una donna, probabilmente inviata da sua madre, che era riuscita a corrompere qualcuno e salvarlo. Il sogno ci permetteva di far riemergere queste figure e ritessere i dialoghi da tempo interrotti. I sentimenti di Carlo verso la madre erano fortemente ambivalenti: il suo essere un’intellettuale e avversaria del partito in carica, aveva sollevato contro di lei l’onda omicida del potere che aveva travolto anche Carlo. Ma non solo, la madre era una donna impegnata nel lavoro, per cui presumibilmente lo aveva spesso lasciato solo e, elemento centrale, era assente - era già stata arrestata - quando i soldati, fatta irruzione in casa, lo hanno trascinato in prigione.

L’effrazione provocata da questi eventi “genera un’alterazione della funzione e della struttura della memoria che, per così dire, si congela attorno a fatti traumatici per poi irradiare il suo cono d’ombra sullo spazio/tempo precedente gli eventi lesivi” (Sabatini Scalmati 2000, p.175). La terapia, di contro, si assume il compito, spesso la sfida, di riallacciare i fili del passato, ridare vita e tenere vivi, anche in momenti fortemente depressivi, i rapporti con gli “oggetti buoni”, oggetti che dobbiamo estrarre dalle macerie, restaurare e, frammento dopo frammento, restituire ai loro colori e alla loro tridimensionalità.

E’ nell’ordine del terrore cancellare gli spazi del mondo interno, della soggettività, della circolazione degli affetti e della rappresentazione fantasmatica. E’ nell’ordine della relazione terapeutica fare attenzione ai piccolissimi frammenti di memoria relativi ai vissuti e agli eventi precedenti i fatti traumatici, farli tornare in vita, rivestirli delle emozioni e degli affetti che una volta li hanno abitati e che, a differenza degli ultimi, li hanno fatto sentire vivi e amati.

 

                  

Ancora sul caso clinico

 

Torniamo al paziente e al suo dialogo interno con la madre che lentamente riusciamo a ricostruire.

In una seduta Carlo riesce a dirmi: “Tutto quello che mi è accaduto è terribile. Questi eventi mi hanno fatto crescere molto in fretta”.  Pur soffrendo, egli non recrimina. Comincia a ricordare alcuni aspetti del carattere della madre e degli altri familiari.

Nelle sedute le comunicazione sono molto intense, emozioni, angosce, spaesamento, immagini di terribili episodi, la morte di compagni di cella, il suicidio di altri. Dopo circa otto mesi Carlo osa appoggiare un suo avambraccio sul bordo del tavolo. A questo atto di avvicinamento, di distensione – il suo corpo non è più così contratto e le sue mani non sono più aggrappate l’una all’altra – seguono nuove difficoltà e ansie persecutorie. “Per me tutto è perduto, mi dice, non so cosa fare, come vivere, e poi non posso parlare, non mi sento bene”.

Fuori lavora con impegno, sta facendo delle cose importanti, i risultati sono buoni. Le analisi cliniche hanno escluso danni seri, ma Carlo ha sempre forti dolori alla testa e notti con lunghe ore di insonnia.

In una seduta mi dice: “Io non mi riconosco in questo corpo, non ci sto bene. Sono cresciuto quando ero in prigione e, dopo un silenzio, non glielo volevo dire, ma io non mi fido di nessuno,  proprio di nessuno”.

Le sue parole mi conducono nei luoghi bui, umidi e sporchi ove sensazioni di disgusto hanno fanno sentire disgustosa la vita, ove sono state sistematicamente lacerate le reti di relazioni interne. Carlo è cresciuto nei sotterranei; il suo corpo è stato umiliato, il suo pene attraversato da scosse elettriche, cosa ne sarà della sua vita sessuale?

Esposto alla nudità e ai suoi bisogni primari, violato da sguardi estranei, privato delle più elementari condizioni igieniche e di ogni forma di privacy, picchiato, abusato e torturato, l’essere umano diviene un corpo esposto ad una spaventosa vergogna di sé. Un processo di de-umanizzazione cancella in breve tempo secoli di socializzazione e individuazione.

Le sue parole danno voce alla sua profonda solitudine, alla distanza spazio temporale in cui per la maggior parte del tempo vive, ad una qualità di vissuti che, a buona ragione, pensa io non possa capire.

Eppure, se è vero che la mente dell’analista può raggiungere solo i livelli psichici che ha esplorato nella sua analisi, è anche vero che, se la sua analisi e la sua ininterrotta autoanalisi gli hanno permesso e gli permettono di vegliare sulle proprie aree di ambiguità (Bleger 1967) e di annebbiamento di coscienza, sulla subdola sollecitazione a cadere nelle trame alienanti e “pacificanti” delle istituzioni e del potere (Aulagnier 1979), guidato dai pazienti, senza perdere la propria strada, l’analista può affacciarsi all’esperienza dell’orrore per ciò che il genere umano è capace di fare. Avvicinarsi alle loro esperienze e incontrarli là dove è avvenuta la terribile cesura. Un nuovo sentire si renderà allora disponibile ad essere investito dal transfert e dal controtransfert.

Rassicuro Carlo dicendogli che in gioco non è la fiducia in me o in altre persone che gli sono vicino, ma la sua capacità e possibilità di sostenersi senza nessun ma o però; di poter tenere assieme il suo sé di oggi e quello di ieri; affrontare la vergogna, perché questa gli impedisce di prendersi cura fino in fondo di sé.

La sua vergogna ci parla dell’interiorizzazione dello sguardo irrisorio degli altri, sguardo che l’ha alienato da sé, dal suo corpo, dalla sua storia e oggi lo aliena dalla comunità che lo circonda.

In prigione l’odore diviene umiliazione e quando il pudore, la vergogna e il disgusto, primi veli che l’essere umano tesse attorno a sé, sono lacerati ed offesi, la mente si ritrae, distoglie lo sguardo. Tra l’Io e l’ideale dell’Io, tra il soggetto e gli altri soggetti si apre una voragine senza fine. Un passo di Freud ci può aiutare a dare voce alle fantasie di morte che affiorano in questi momenti

 

“L’angoscia di morte, nella melanconia, ammette soltanto una spiegazione: l’Io rinuncia a se stesso, giacché, invece che amato, si sente odiato e perseguitato dal Super-Io. Vivere equivale dunque per l’Io a essere amato dal Super-io […]. Il Super-io svolge la stessa funzione protettiva e salvatrice anticamente svolta dal padre e in seguito dalla Provvidenza o dal destino. Tuttavia l’Io è costretto a giungere alle stesse conclusioni quando si trova in un pericolo reale di enormi proporzioni, pericolo che non ritiene di poter superare con i propri mezzi. Si sente abbandonato da ogni forza protettiva e si lascia morire” (corsivo mio) (Freud 1922, 520).

 

Nonostante le oscillazioni, le difese che Carlo mette in campo sono meno violente, accanto alla proiezione compare l’introiezione; gli amici gli diventano sempre più cari e la sua vita quotidiana conosce molti cambiamenti. Lavora, è accolto con affetto da un gruppo di compagni, si avvicina alle ragazze. Ha dei successi e delle soddisfazioni molto concrete. Riesce bene in quello che fa, pur se a prezzo di lotte estenuanti con se stesso.

Quando gli altri si fanno troppo vicini riemergono tutte le sue difficoltà. Carlo percepisce e soffre le differenze. Il confronto con la “normalità” è lancinante.

Se si avvicinano è peggio. Non ce la faccio. Sul suo volto di nuovo contrazioni dolorose, di nuovo un nodo alla gola, come se l’indicibile lo soffocasse.

Il confronto con i suoi nuovi amici gli ha rimandato come uno specchio l’immagine offesa, orfana, diversa del suo sé.

Eppure continua ad andare avanti; vuole sapere cosa ne è dei suoi genitori, inizia a fare ricerche tramite la Croce Rossa. Mangia con fatica, come sempre si sveglia prima che l’orologio suoni, altrimenti al trillo della sveglia è afferrato da un grande spavento. Carlo accusa dolori al cuore. “Credevo - mi dice - che le cose cambiassero, ma quando sto con i miei coetanei io dentro mi sento in prigione”. Affiora rabbia per i suoi genitori che non gli hanno assicurato una vita come quella degli altri ragazzi, ma nello stesso tempo ha nostalgia della sua famiglia.

La casa degli amici gli rimanda tutta la sua mancanza. Attraversiamo un periodo difficile. La fragilità che sembrava superata è sempre dietro l’angolo.

Le sedute si susseguono, a volte l’umore è alto, a volte meno; nei momenti in cui è più in contatto con sé stesso e può dare parola ad episodi che gli pesano dentro, la sofferenza è più acuta. E’ passato un anno dall’inizio dei nostri incontri, un giorno  è particolarmente depresso, e con il volto tirato mi dice: “Io sono qui solo in apparenza, non mi sento nel mio corpo. Io sono sempre là, questo è più forte. Sento molto odio, collera, dentro sono sempre solo”.

Nonostante ciò Carlo sta meglio, la sua pelle ha un colore diverso, prima aveva delle nuance che viravano sul verdastro, ora verso l’oro. La sua vita si è aperta a più livelli di esperienza. Nella vita quotidiana le cose vanno bene, è inserito nel gruppo di amici, il suo lavoro gli piace e si trova bene con le persone che frequenta; riesce anche a ridere e divertirsi. Eppure a livelli più profondi il vissuto traumatico continua a seminare attorno a sé il vuoto. Dopo una cena in casa di amici, fa questo sogno: “Mi trovo in un posto, forse in una cena, tutti parlano, ma io mi sento estraneo, non so cosa dire, non capisco neppure cosa gli altri dicono”.

Ci incontriamo oramai da un anno e mezzo quando Carlo nel suo entrare manifesta qualcosa di nuovo. Si siede, appoggia ambedue gli avambracci sul tavolo, il suo corpo è rilassato, la difesa dell’immobilizzazione sembra superata, mi dice: “Ho sognato che ero a x (nel suo paese), con i miei compagni e la mia ragazza, prima di quello che è successo…”.

Questo “prima” gli permette di parlare del padre e dei fratelli, dei tratti affettuosi e gentili della madre, di recuperare affetti e legami che sembravano cancellati, di distendere il suo corpo, di appoggiarsi al tavolo. Prima di uscire dice: “Adesso mi sento più tranquillo, mi rendo conto di cosa significa venire qui, mi ha fatto bene”.

Carlo si muove su un territorio sempre più vasto e le oscillazioni persecutorie/depressive sono meno polarizzate. Si apre a qualità psichiche differenziate, sta faticosamente costruendo un tessuto di relazioni. Inizia a fare dei programmi per il suo futuro, si riaffacciano i progetti che aveva iniziato a fantasticare nella sua prima adolescenza.

Inizia in questo periodo a farsi avanti la possibilità di sospendere i nostri incontri. Un giorno mi dice: “Con quello che è successo ci dovrò sempre fare i conti, però ora quando lavoro riesco a stare meglio, qualche volta me ne dimentico anche. Questo è l’unico posto in cui mi sento veramente con me, qui ci sono tutto. Forse ora anche fuori di qui posso avere meno paura per quello che provo dentro”.

Permangono aree di estesa fragilità, ma Carlo sente il richiamo di nuove esperienze. Penso che posso lasciarlo andare, che per lui si è avvicinato il momento di distanziarsi. Abbiamo dato espressione emotiva e parola ad alcuni suoi terribili vissuti, ora può iniziare ad allontanare dal cuore alcune immagini del suo passato.

Nonostante ciò che ha visto e sofferto, penso che Carlo sia in grado di affrontare la vita e la sua particolare sofferenza esistenziale.

Concordiamo di vederci fino alle vacanze estive, ovviamente con la disponibilità a riprendere il lavoro in qualsiasi momento ne senta il bisogno.

Al termine dell’ultima seduta, sulla porta si volta, avvolge la stanza con lo sguardo, poi mi dice: “Qui ci sono le cose che nessuno sa”.

Non ho più visto Carlo, mi ha telefonato alcune volte.

Pochi mesi fa, mi ha comunicato la sua decisione di andare a vivere in una città del nord dove degli amici gli hanno trovato lavoro.

 

 

 

 

 

 

                  

 

 

 

 

 

 

 

 

Bibliografia

Aulagnier, P. (1979) Les destins du plaisir. Aliénation-amour-passion. P.U.F., Paris.

Tr. it. I destini del piacere. Alienazione, amore, passione. La Biblioteca, Bari-

Roma 2002.

Bleger,  J. (1967) Simbiosi e ambiguità.  Studio psicoanalitico. Libreria Editrice

Lauretana, Loreto.

Freud, S. (1922) L’Io e l’Es. OSF, 9.

Freud, S. (1929) Disagio della civiltà. OSF, 10.

Puget, J. (1989) Prefazione, in : Puget, J., Kaёs, R. et al., Violence d’État et Psychanalyse. Dunod, Paris. Tr. it. Violenza di Stato e psicoanalisi. Gnocchi Editore, Napoli 1994.

Sabatini Scalmati, A. (2000)  Memorie congelate memorie evitate: a proposito della

relazione terapeutica con le vittime di tortura. In Richard e Piggle, 2, 2000.

 

 

 
 
 
 
   

 

 

 

 

 

 

   

 

 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   
 
 

 

   
   
 

 

   
   
   
 

 

   
   
   
   
   
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
   
 

 

 

 

 

 

 

 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

   

 

 

 

 

 

Responsabile Editoriale : Giuseppe Leo

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