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"Psicoanalisi e luoghi della negazione"
a cura di A. Cusin e G. Leo (Editors)
Writings by: J.
Altounian, S. Amati Sas, M. Avakian, A. Cusin, N. Janigro, G. Leo,
B.E. Litowitz, S. Resnik, A. Sabatini Scalmati, G. Schneider, M.
Šebek,
F. Sironi, L. Tarantini.
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
ISBN: 978-88-903710-4-2
Anno/Year: 2011
Pages: 400
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"Lebensruckblick"
by Lou Andreas Salomé
(book in German)
Author:Lou Andreas Salomé
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
ISBN: 978-88-97479-00-0
Anno/Year: 2011
Pages: 267
Prezzo/Price: € 19,00
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"Psicologia
dell'antisemitismo" di Imre Hermann
Author:Imre Hermann
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
ISBN: 978-88-903710-3-5
Anno/Year: 2011
Pages: 158
Prezzo/Price: € 18,00
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"Id-entità mediterranee.
Psicoanalisi e luoghi della memoria" a cura di Giuseppe Leo
(editor)
Writings by: J.
Altounian, S. Amati Sas, M. Avakian, W. Bohleber, M. Breccia, A.
Coen, A. Cusin, G. Dana, J. Deutsch, S. Fizzarotti Selvaggi, Y.
Gampel, H. Halberstadt-Freud, N. Janigro, R. Kaës, G. Leo, M.
Maisetti, F. Mazzei, M. Ritter, C. Trono, S. Varvin e H.-J. Wirth
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
ISBN: 978-88-903710-2-8
Anno/Year: 2010
Pages: 520
Prezzo/Price: € 30,00
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"Vite soffiate. I vinti della
psicoanalisi" di Giuseppe Leo
Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero
ISBN: 978-88-903710-0-4
Anno/Year: 2008
Prezzo/Price: € 18,00
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"La Psicoanalisi e i suoi
confini" edited by Giuseppe Leo
Writings by: J.
Altounian, P. Fonagy, G.O. Gabbard, J.S. Grotstein, R.D.
Hinshelwood, J.P. Jiménez, O.F. Kernberg, S. Resnik
Editore/Publisher: Astrolabio Ubaldini
ISBN: 978-88-340155-7-5
Anno/Year: 2009
Pages: 224
Prezzo/Price: € 20,00
"La Psicoanalisi. Intrecci Paesaggi
Confini"
Edited by S. Fizzarotti Selvaggi, G.Leo.
Writings by: Salomon Resnik, Mauro Mancia, Andreas Giannakoulas,
Mario Rossi Monti, Santa Fizzarotti Selvaggi, Giuseppe Leo.
Publisher: Schena Editore
ISBN 88-8229-567-2
Price: € 15,00
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Da anni seguo in psicoterapia
psicoanalitica persone provenienti dal subcontinente sahariano che
hanno conosciuto la prigionia, la tortura, la violenza fisica e
sessuale e, in momenti di assoluto pericolo, si sono trovate a
scegliere tra due alternative: o consegnarsi ad una morte crudele ed
anonima, o fuggire non importa dove. Per un imprevisto gioco del caso,
si è fatta avanti la seconda possibilità, da cui il loro fortunoso
arrivo in Italia.
Sulle spalle di queste persone, accanto
ad esperienze di brutalità e violenze, grava la lacerazione del
tessuto familiare e sociale, radice ed humus della loro
identità affettiva e della loro personalità.
Caso clinico
Dall’istituzione con cui lavoro ricevo
un dossier che mi dà sommarie notizie di un ragazzo di 17 anni che,
dietro suggerimento dell’assistente sociale, ha accettato di avere dei
colloqui con me.
Nel file leggo che il giovane,
per l’attività e l’impegno dei genitori, è stato molti mesi in
prigione; ne è poi fuggito, grazie all’intervento di persone esterne.
Quando la violenza di Stato iscrive una
persona nelle liste di proscrizione, prima o poi perseguita tutti i
suoi familiari, adulti o bambini che siano. La sorte di questo
giovane, a cui do il nome di Carlo, non è diversa da quella di molti
altri. Non si sa nulla dei suoi familiari.
Subito dopo la fuga, Carlo è stato
fatto salire su un aereo con destinazione Italia: scalo Fiumicino.
Superata la frontiera, il passer che l’ha accompagnato si è
dileguato. Carlo è abbandonato, alla mercé di una realtà sconosciuta e
di imprevedibili presenze estranee. In tasca ha cinque euro.
All’angoscia catastrofica connessa alla
perdita di tutto ciò che è noto - affetti familiari, compagni, gruppo
sociale e poi carcere - si aggiunge l’angoscia dell’assolutamente
nuovo e della mancanza di un qualsivoglia punto di riferimento.
Vincoli improvvisamente perduti aprono voragini, impediscono di fare
distinzione tra il passato e il presente, tra mondo interno e mondo
esterno.
Al primo appuntamento, come poi a tutti
gli altri, Carlo giunge puntuale.
Entra timoroso, a testa china. Stento a
riconoscere in lui l’adolescente che quelle poche righe mi hanno fatto
immaginare. Si siede e inarca la testa sul petto; del suo viso riesco
ad intravedere solo la palpebra destra abbassata, scossa da un rapido
tremore e il labbro superiore, anch’esso scosso da fremiti.
Passano i secondi, il silenzio è
profondissimo; ho l’impressione di cogliere i battiti del suo cuore;
ho davanti a me un giovane ferito di cui percepisco i segni del
terrore e dell’angoscia.
Il tempo scorre in silenzio: parla il
suo corpo chiuso su se stesso, le mani che si stringono e si
aggrappano l’una sull’altra, il pallore che tinge la sua pelle di
ombre verdastre. Chiuso su se stesso, Carlo sembra difendersi da uno
spazio senza confini da cui può essere risucchiato e da cui può
arrivare di tutto.
Cerco di contenerlo con il mio sguardo
e con la mia attenzione che si è fatta molto intensa. Dopo poco gli
dico che sono con lui e che in questa stanza, assieme, possiamo fare
qualcosa per aiutarlo, so che ha molto sofferto.
Dopo più di 30 minuti, le sue prime
faticose parole: mi chiede se può avere dell’acqua. Nell’alzarmi ho un
brivido, mi domando quanto quest’incontro ne rievochi altri ben
diversi, da cui questa richiesta d’acqua. Dopo l’applicazione di
elettrodi, il bisogno di bere è fortissimo. Torno a sedermi e mi
domando se lo sguardo con cui avvolgo la sua persona, il silenzio
della stanza, l’acqua che gli ho offerto l’aiutino a differenziare
questo luogo dai luoghi in cui è stato rinchiuso per tanto tempo.
Lo vedo lottare per trattenere scoppi
di pianto, poi, ad un tratto, due lacrime grosse come chicchi di
grandine gli solcano il viso.
E’ pericoloso fare rumore in prigione,
ancora più pericoloso far vedere il proprio dolore. Ha imparato a
trattenere le lacrime, a nasconderle, a condensarle in due sole grandi
gocce. Ma è anche pericoloso essere in contatto con l’ansia che questa
stanza ha fatto emergere. Occorre mobilizzarla, tenerla sotto
controllo.
Alcuni minuti prima della fine
del nostro tempo gli comunico che la seduta sta per terminare e che,
se lui è d’accordo, ci vedremo alla stessa ora, lo stesso giorno fra
una settimana. Si alza; dopo alcuni secondi, senza guardarmi, ma con
parole che aprono al mio sguardo il suo mondo interno, mi dice:
“Come si può guarire da tutto questo…?”
Gli dico che non lo so, ma assieme
possiamo provarci. Esce a capo chino, come era entrato.
Durante la seduta il suo corpo si era
fatto veicolo di forti emozioni e aveva messo in secondo piano la
parola; quando, dopo averlo accompagnato alla porta, rientro nella
stanza, percepisco una forte oppressione alle tempie.
In queste terapie occorre molta
esperienza e sensibilità clinica; più che interpretazioni di
significati, quello che transita sono intense comunicazioni di
transfert e controtransfert.
La settimana successiva, Carlo giunge
puntuale all’incontro. Continuerà poi a venire per circa due anni.
Nel primo incontro, il giovane mi ha
insegnato che il silenzio è la lingua in cui transiteranno le nostre
comunicazione più profonde. Il suo silenzio, ciò che mi dice il suo
corpo - la postura immobile e tremante, la tensione con cui stringe
una mano sull’altra o, nei giorni freddi, il suo berretto, il capo
reclino, la distanza che interpone tra sé e il tavolo – danno
espressione ai suoi stati mentali.
La mia stanza è calda, piccola ed
accogliente, ma io ho sensazioni di freddo e l’impressione che i
confini del mio corpo incontrino il
vuoto. Lascio che i minuti trascorrano in silenzio e che queste
sensazioni si decantino; poi, gradualmente, gliene parlo. Gli parlo
del suo sentirsi solo, anzi isolato, che la sua storia tanto diversa
da quella delle persone che incontra amplifica il suo isolamento; che
nulla di quello che lo circonda ha senso per lui, che soffrire assieme
tutto ciò lentamente l’aiuterà.
Dopo un po’, sempre a testa china, mi
dice: “Le mie ossa non si scalderanno più, le mani mi fanno male,
il sangue non scorre”. Sul suo volto una, massimo due lacrime.
Penso che dobbiamo lentamente scongelare un mondo ghiacciato
dall’odio, dalla vergogna e dal dolore delle torture, tornare a fare
circolare il sangue in un corpo che ha più volte visto in faccia la
morte. Anche le sue notti sono “ghiacciate”, Carlo da mesi non sogna.
Dorme pochissimo, ha paura dei suoi compagni di camera.
Le notti in prigione sono più
pericolose del giorno, l’arbitrio è più nero. Si è chiamati, si è
portati via, non si sa se si tornerà in cella.
Le sedute si susseguono con le stesse
modalità: alcuni movimenti significativi e poche parole. Dopo due mesi
riesce a slegare una mano dall’altra e porta la mano destra sulle
labbra. Un gesto per placare il tremore? per sentirsi? o solamente un
gesto di libertà? Non lo so, è un movimento, l’inizio di un disgelo.
Dopo poco mi dice: “Non ce la faccio a parlare. Io sono sempre là,
quello che è avvenuto là è il mio presente”.
Il dolore che improvvisamente fa
irruzione protrae a tempo indefinito lo spavento dell’aggressione
subita, il tempo sembra chiudersi all’interno di un continuo presente.
Ciò impedisce alla sua voce di diventare parola, e a Carlo, da “cosa”
in mano dei carcerieri, tornare ad essere persona umana tra altre
persone. Carlo non può andare dal medico, ne teme il verdetto:
infezione da HIV.
Gli dico che so che è molto difficile
parlare ad una sconosciuta del dolore, della vergogna e dello
strazio in cui è stata presa la sua
giovane vita. Che sono qui per accogliere e sorreggere le sue
difficoltà e per cercare di alleviare il suo vissuto di sofferenza e
paura. Spero di aiutarlo a sentire che, accanto al suo passato, può
incominciare a percepire lo scorrere di giorni diversi.
L’effrazione del terrorismo di Stato
lascia come marchio una grande fragilità e un’invasiva sensazione di
piccolezza. L’adolescente dalla cui vita l’adolescenza è stata
violentemente cancellata, ha imparato a vivere con queste piaghe, sa
come muoversi e cosa l’aspetta. L’aprirsi a questo paese così diverso
dal suo, sapere cosa ne è della sua famiglia, forse completamene
massacrata, guardare questo suo forzato presente, apre altre piaghe;
ne ha paura, non ne conosce l’entità e il prezzo.
Tutto ciò deve essere affrontato, ma
questo verrà dopo; per prima cosa è urgente che Carlo percepisca che
c’è qualcuno che condivide i suoi fremiti, che coglie la sua
sofferenza, che lo aiuta a differenziare tra i diversi aspetti della
sua esperienza; e che egli può depositare nei nostri incontri la sua
vergogna, la sua rabbia, il suo dolore, il suo odio e i suoi
sentimenti di morte.
Nel corso delle sedute assisto alla
lotta che il gelo, la sfiducia, l’enormità dei fatti hanno ingaggiato
contro la sua parola. Gliene parlo in termini molto semplici, mi dice:
“Le parole vengono alla bocca, ma poi tornano dentro, non escono”.
Gli dico che questo accade perché non sono solo parole, ma urli,
pianti, emozioni intere, fatti duri e concreti a cui è impossibile
dare un nome. Per un attimo, timidamente, per la prima volta dopo
mesi, alza lo sguardo su di me. Sul suo volto una lacrima, ma anche
sul mio.
La volta successiva arriva in ritardo.
Mi dice che è sceso alla solita fermata, ma si è perduto, non riusciva
più a trovare la strada, si è accorto che girava sempre attorno al mio
palazzo senza riuscire a vedere il portone.
E’ difficile ristabilire la fiducia,
tornare a vedere la luce. In pochi secondi si dà la morte, si lacerano
legami ed affetti, ma quando poi si prova a ridare un senso alla vita,
a riappropriarsi di qualche sentimento, si perde la strada, il
percorso diventa lento, scivoloso ed irreale.
Dopo quattro mesi riesce ad andare da
un internista, poi appare il primo sogno. Ovviamente terribile, così
terribile che gli fa male il cuore. I sogni di questi pazienti hanno
una qualità concreta con ripercussioni sul loro stato di salute.
“Ho visto massacrare mia madre…silenzio,
effrayant! Mi sono svegliato di soprassalto, un’angoscia
terribile, il cuore…, e si porta la mano al petto, mi fa male”.
Mi chiedo a quale movimento
psichico sia legato questo sogno, cosa è accaduto, a cosa si deve
questo scongelamento, pur se così doloroso. Gli chiedo della giornata,
della sua serata. Mi dice: “Mi sono svegliato
per andare in bagno, tornavo in camera quando degli uomini ospiti del
centro, forse avevano bevuto, hanno cominciato a parlare male
dell’Africa, a ridere. E’ vero, mi dicevano, che nel tuo paese gli
uomini e le donne vanno in giro nudi? Io mi sono molto offeso, ho
sentito dolore, ho cominciato a difendere il mio paese, la mia terra;
poi me ne sono andato. Non avevo mai parlato con loro, mi ha fatto
tanto male sentirli. Poi mi sono addormentato, e ho fatto questo
sogno”.
Gli faccio notare che ha difeso la sua
comunità, che ha fatto una fondamentale distinzione tra la popolazione
e i carcerieri, ma poi il passato, la violenza del potere si è
prepotentemente ripresentata, l’ha ripreso nella sua rete di morte ove
non è ammessa differenziazione, ambivalenza, contraddizione. Prima gli
era difficile parlare con i compagni del centro perché la sua prigione
si estendeva anche al mondo esterno, ora che è riuscito a
circoscriverla al suo interno, che ha avuto il coraggio di difendersi
e di dare la sua versione dei fatti, i soldati sono tornati; con tutto
il loro potere l’hanno colpito al cuore.
Con il passare delle
settimane, Carlo lentamente comincia ad abbassare le sue difese, cessa
di immobilizzare in una chiusura autistica le sue angosce, torna ad
essere in contatto con alcune sue risorse; riprende a sognare. Ma i
suoi sogni sono terribili. “E’ notte, buio. Nella foresta è
inseguito dai soldati che afferrano le persone e le gettano nelle
fiamme”. Un altro: “I soldati gettano i
prigionieri da elicotteri in pasto ai coccodrilli”.
Da questi sogni si sveglia di
soprassalto e non riesce più a dormire.
La riattivazione dell’attività onirica
va di pari passo con un netto peggioramento psicofisico. In seduta
poche, intense comunicazioni. Carlo è molto pallido, si sente male,
dispera di riuscire a venire fuori dal suo stato di confusione e
paura. Eppure ha cominciato ad essere più presente alla sue giornate;
seppure per brevi tratti, il passato in qualche modo comincia a
divenire tale. Durante le giornate è impegnato in un lavoro, al centro
di accoglienza si sente più sicuro, ma gli incubi hanno riaperto le
porte del suo inferno personale; tutto sembra spostarsi
contemporaneamente nel passato e all’interno. Sembra che quello che
non è stato ucciso allora nella realtà, debba esserlo adesso, nella
raffigurazione onirica. I momenti di speranza che, seppure deboli,
erano apparsi all’orizzonte, sono attaccati da questo movimento. Io
sono in pena per lui.
Un giorno entra zoppicando. Dopo alcuni
minuti di silenzio gli chiedo cosa è accaduto alla sua gamba: “Mi
hanno bastonato”. Sto per esprimere un moto di indignazione e di
allarme, quando noto che sta per dire qualcosa. Gli lascio tempo.
Dopo un po’:
“Stanotte ho fatto un sogno terribile. Sono in
prigione, entrano i soldati con pistole, fucili, mi bastonano, mi
prendono a calci. Chiedo pietà, ma niente, ancora calci, botte, non
finivano mai. Poi entra una donna, io non la vedo in faccia. Sono per
terra, ma sento che dice a quello che più di tutti si era gettato su
di me di andare a consegnare una lettera. Gliela porge. Allora
quest’uomo se ne va, gli altri si allontano. La donna mi dice: svelto,
fuggi, fuggi!! Lei va da una parte, io dall’altra. Da quando mi sono
svegliato la gamba mi fa male. Mi hanno bastonato tanto. Ho avuto una
terribile paura, credevo di morire”.
Considerazioni di tecnica e di teoria
A questo punto credo siano opportune
alcune riflessioni.
Nel colpire l’avversario, il terrorismo
di Stato vuole in lui/lei colpire il percorso di umanizzazione, la
lenta evoluzione degli affetti, l’essere soggetto ed individuo,
l’appartenere alla vita ed essere un’espressione dell’esistere.
La violenza dello Stato lo/la strappa
dal suo retroterra culturale ed umano, dalla sua storia familiare,
sociale ed affettiva, dagli odori e dai colori della sua terra, in una
parola da quell’humus originario nel quale è emersa la sua
differenza: quell’area di dipendenza assoluta con l’ambiente che è
inscritta nei livelli profondi della personalità umana.
“Il nostro presente senso dell’Io -
scrive Freud - è […] un avvizzito residuo di un sentimento assai più
inclusivo, anzi di un sentimento onnicomprensivo che corrispondeva ad
una comunione quanto mai intima dell’Io con l’ambiente” (Freud 1929,
562 ).
Il sopruso del potere strappa
l’individuo dai luoghi affettivi ove si saldano i primi legami, e con
essi il primordiale sentimento di sé, un’appartenenza di base, fatta
di reciprocità e complementarità, ove si depositano i nuclei
indifferenziati, indeterminati ed originari del nostro esistere. Là
ove trovano ricettacolo e depositazione aree di ambiguità e di
simbiosi: il nucleo agglutinato ed ambiguo di cui parla Bleger, che di
norma rimane silente. Ombra mai dissipata, che non chiede di esserlo
nella misura in cui è condivisa e contenuta dall’ambiente. Che in
parte si decanta nei comuni gesti quotidiani, in parte rimane
immobilizzata sullo sfondo, sorretta dal consenso muto della comunità,
retroterra di sicurezza, sintesi ed espressione dei suoi membri.
La perdita di questa relazione
primordiale, con cui si ha una relazione massiva ed indiscriminata, è
catastrofica. Quando ciò avviene si ha a che fare con la perdita del
“depositario” a cui seguono a valanga tutte le altre perdite. Vera e
propria “apocalisse culturale” da cui si fanno avanti i fantasmi
inquietanti, confusi e primigeni dell’indifferenziazione primaria e
dei primi orizzonti persecutori.
Il venire meno dei legami primari,
della famiglia e della comunità tracima sull’individuo confusione,
terrore e persecuzione. Stati di inquietante estraneità e il timore di
non riuscire a sopravvivere.
Invaso dall’improvvisa cancellazione
della propria identità affettiva e sociale, intersoggettiva e
trans-soggettiva, l’Io è sopraffatto dall’insorgere di stati di
confusione. Ne possono derivare un annebbiamento più o meno temporaneo
della coscienza e un’invasiva angoscia catastrofica, vissuti di
depersonalizzazione e derealizzazione, confusione psicotica e
frammentazione.
Nel lavoro con questi pazienti è
necessario avere ben chiaro che abbiamo a che fare con la
défaillance del sociale e del trans-soggettivo, con lo sfaldamento
di ciò che era dato per garantito. Con l’impotenza della mente ad
integrare, legare, elaborare in catene associative l’accelerazione
affettiva /sensoriale della brutalità sofferta, con l’angoscia legata
al crollo e all’assenza di oggetti protettori esterni. Con profondi
sentimenti di impotenza, di mancanza di difesa e vissuti di
disintegrazione e morte.
A queste considerazioni consegue la
modalità tecnica per cui, ad esempio nel sogno “mi hanno bastonato”,
sebbene sia esplicito il ruolo affidato alla mia persona, non faccio
interpretazioni di transfert. Non le faccio perché è urgente aiutare
il paziente a dipanare il connubio intenso ed improvviso che si è
verificato tra le aree primitive ed indifferenziate della sua mente -
il nucleo agglutinato - e la perversione e la violenza subite.
In questo sogno il paziente ha operato
una discriminazione fondamentale, è questa che va sottolineata e
rafforzata perché egli ha bisogno di continuare a procedere su questa
strada. A livello intrapsichico appare una differenziazione tra buoni
e cattivi, tra la morte e la vita; questa stessa differenziazione deve
estendersi tra il suo mondo interno e la violenza dello Stato il cui
ordine “non è contenuto dallo spazio psichico del soggetto, ma [...]
lo determina senza che egli possa riconoscervi ciò che attiene alla
propria personale violenza” (Puget 1989). Solo dopo questa primaria
distinzione, gli eventi che vive nel presente si potranno
differenziare dal suo passato.
Primo obiettivo di queste terapie è
stabilire chiare scissioni, non integrare una divisione schizoide.
La perversione è legge in prigione;
come in una cloaca qualsiasi cosa è uguale al suo opposto, così tra le
sue mura, tra prigioniero e carceriere, sequestrato e sequestratore si
stabiliscono false simmetrie, e false equazioni equiparano un oggetto
ad un altro. Carlo deve riuscire a liberarsi da tutto ciò, deve
tornare a fare delle discriminazioni, a differenziare tra sé e gli
altri.
Sta a me aiutarlo in questo processo,
dalla mia non “ambiguità” dipende la sua possibilità di continuare a
procedere su questa strada. Chiamarmi dentro con una interpretazione
di transfert non serve al paziente. Mentre ciò che serve è aiutarlo a
fare luce sulla perversa fusione che egli teme sia avvenuta tra lui e
i suoi persecutori, e ad uscire dalla proditoria confusione in cui si
sente impaniato, potendo distinguere tra la sua persona e gli altri.
Ciò significa lenire i suoi profondi stati confusionali, i momenti di
annebbiamento e restringimento di coscienza.
L’astenersi dall’interpretazione di
transfert, norma a cui mi attengo sempre, era tanto più necessaria in
questo caso. Carlo era fuggito dalla prigione grazie all’intervento di
una donna, probabilmente inviata da sua madre, che era riuscita a
corrompere qualcuno e salvarlo. Il sogno ci permetteva di far
riemergere queste figure e ritessere i dialoghi da tempo interrotti. I
sentimenti di Carlo verso la madre erano fortemente ambivalenti: il
suo essere un’intellettuale e avversaria del partito in carica, aveva
sollevato contro di lei l’onda omicida del potere che aveva travolto
anche Carlo. Ma non solo, la madre era una donna impegnata nel lavoro,
per cui presumibilmente lo aveva spesso lasciato solo e, elemento
centrale, era assente - era già stata arrestata - quando i soldati,
fatta irruzione in casa, lo hanno trascinato in prigione.
L’effrazione provocata da questi eventi
“genera un’alterazione della funzione e della struttura della memoria
che, per così dire, si congela attorno a fatti traumatici per poi
irradiare il suo cono d’ombra sullo spazio/tempo precedente gli eventi
lesivi” (Sabatini Scalmati 2000, p.175). La terapia, di contro, si
assume il compito, spesso la sfida, di riallacciare i fili del
passato, ridare vita e tenere vivi, anche in momenti fortemente
depressivi, i rapporti con gli “oggetti buoni”, oggetti che dobbiamo
estrarre dalle macerie, restaurare e, frammento dopo frammento,
restituire ai loro colori e alla loro tridimensionalità.
E’ nell’ordine del terrore cancellare
gli spazi del mondo interno, della soggettività, della circolazione
degli affetti e della rappresentazione fantasmatica. E’ nell’ordine
della relazione terapeutica fare attenzione ai piccolissimi frammenti
di memoria relativi ai vissuti e agli eventi precedenti i fatti
traumatici, farli tornare in vita, rivestirli delle emozioni e degli
affetti che una volta li hanno abitati e che, a differenza degli
ultimi, li hanno fatto sentire vivi e amati.
Ancora sul caso clinico
Torniamo al paziente e al suo dialogo
interno con la madre che lentamente riusciamo a ricostruire.
In una seduta Carlo riesce a dirmi:
“Tutto quello che mi è accaduto è terribile. Questi eventi mi hanno
fatto crescere molto in fretta”. Pur soffrendo, egli non
recrimina. Comincia a ricordare alcuni aspetti del carattere della
madre e degli altri familiari.
Nelle sedute le comunicazione sono
molto intense, emozioni, angosce, spaesamento, immagini di terribili
episodi, la morte di compagni di cella, il suicidio di altri. Dopo
circa otto mesi Carlo osa appoggiare un suo avambraccio sul bordo del
tavolo. A questo atto di avvicinamento, di distensione – il suo corpo
non è più così contratto e le sue mani non sono più aggrappate l’una
all’altra – seguono nuove difficoltà e ansie persecutorie. “Per me
tutto è perduto, mi dice, non so cosa fare, come vivere, e
poi non posso parlare, non mi sento bene”.
Fuori lavora con impegno, sta facendo
delle cose importanti, i risultati sono buoni. Le analisi cliniche
hanno escluso danni seri, ma Carlo ha sempre forti dolori alla testa e
notti con lunghe ore di insonnia.
In una seduta mi dice: “Io
non mi riconosco in questo corpo, non ci sto bene. Sono cresciuto
quando ero in prigione e, dopo un silenzio, non glielo volevo
dire, ma io non mi fido di nessuno, proprio di nessuno”.
Le sue parole mi conducono nei luoghi
bui, umidi e sporchi ove sensazioni di disgusto hanno fanno sentire
disgustosa la vita, ove sono state sistematicamente lacerate le reti
di relazioni interne. Carlo è cresciuto nei sotterranei; il suo corpo
è stato umiliato, il suo pene attraversato da scosse elettriche, cosa
ne sarà della sua vita sessuale?
Esposto alla nudità e ai suoi bisogni
primari, violato da sguardi estranei, privato delle più elementari
condizioni igieniche e di ogni forma di privacy, picchiato, abusato e
torturato, l’essere umano diviene un corpo esposto ad una spaventosa
vergogna di sé. Un processo di de-umanizzazione cancella in breve
tempo secoli di socializzazione e individuazione.
Le sue parole danno voce alla sua
profonda solitudine, alla distanza spazio temporale in cui per la
maggior parte del tempo vive, ad una qualità di vissuti che, a buona
ragione, pensa io non possa capire.
Eppure, se è vero che la mente
dell’analista può raggiungere solo i livelli psichici che ha esplorato
nella sua analisi, è anche vero che, se la sua analisi e la sua
ininterrotta autoanalisi gli hanno permesso e gli permettono di
vegliare sulle proprie aree di ambiguità (Bleger 1967) e di
annebbiamento di coscienza, sulla subdola sollecitazione a cadere
nelle trame alienanti e “pacificanti” delle istituzioni e del potere (Aulagnier
1979), guidato dai pazienti, senza perdere la propria strada,
l’analista può affacciarsi all’esperienza dell’orrore per ciò che il
genere umano è capace di fare. Avvicinarsi alle loro esperienze e
incontrarli là dove è avvenuta la terribile cesura. Un nuovo sentire
si renderà allora disponibile ad essere investito dal transfert e dal
controtransfert.
Rassicuro Carlo dicendogli che in gioco
non è la fiducia in me o in altre persone che gli sono vicino, ma la
sua capacità e possibilità di sostenersi senza nessun ma o però; di
poter tenere assieme il suo sé di oggi e quello di ieri; affrontare la
vergogna, perché questa gli impedisce di prendersi cura fino in fondo
di sé.
La sua vergogna ci parla
dell’interiorizzazione dello sguardo irrisorio degli altri, sguardo
che l’ha alienato da sé, dal suo corpo, dalla sua storia e oggi lo
aliena dalla comunità che lo circonda.
In prigione l’odore diviene umiliazione
e quando il pudore, la vergogna e il disgusto, primi veli che l’essere
umano tesse attorno a sé, sono lacerati ed offesi, la mente si ritrae,
distoglie lo sguardo. Tra l’Io e l’ideale dell’Io, tra il soggetto e
gli altri soggetti si apre una voragine senza fine. Un passo di Freud
ci può aiutare a dare voce alle fantasie di morte che affiorano in
questi momenti
“L’angoscia di morte, nella melanconia,
ammette soltanto una spiegazione: l’Io rinuncia a se stesso, giacché,
invece che amato, si sente odiato e perseguitato dal Super-Io. Vivere
equivale dunque per l’Io a essere amato dal Super-io […]. Il Super-io
svolge la stessa funzione protettiva e salvatrice anticamente svolta
dal padre e in seguito dalla Provvidenza o dal destino. Tuttavia
l’Io è costretto a giungere alle stesse conclusioni quando si trova in
un pericolo reale di enormi proporzioni, pericolo che non ritiene di
poter superare con i propri mezzi. Si sente abbandonato da ogni forza
protettiva e si lascia morire” (corsivo mio) (Freud 1922, 520).
Nonostante le oscillazioni, le difese
che Carlo mette in campo sono meno violente, accanto alla proiezione
compare l’introiezione; gli amici gli diventano sempre più cari e la
sua vita quotidiana conosce molti cambiamenti. Lavora, è accolto con
affetto da un gruppo di compagni, si avvicina alle ragazze. Ha dei
successi e delle soddisfazioni molto concrete. Riesce bene in quello
che fa, pur se a prezzo di lotte estenuanti con se stesso.
Quando gli altri si fanno troppo vicini
riemergono tutte le sue difficoltà. Carlo percepisce e soffre le
differenze. Il confronto con la “normalità” è lancinante.
“Se si avvicinano è peggio. Non
ce la faccio. Sul suo volto di nuovo contrazioni dolorose, di
nuovo un nodo alla gola, come se l’indicibile lo soffocasse.
Il confronto con i suoi nuovi amici
gli ha rimandato come uno specchio l’immagine offesa, orfana, diversa
del suo sé.
Eppure continua ad andare avanti;
vuole sapere cosa ne è dei suoi genitori, inizia a fare ricerche
tramite la Croce Rossa. Mangia con fatica, come sempre si sveglia
prima che l’orologio suoni, altrimenti al trillo della sveglia è
afferrato da un grande spavento. Carlo accusa dolori al cuore. “Credevo
- mi dice - che le cose cambiassero, ma quando sto con i miei
coetanei io dentro mi sento in prigione”. Affiora rabbia per i
suoi genitori che non gli hanno assicurato una vita come quella degli
altri ragazzi, ma nello stesso tempo ha nostalgia della sua famiglia.
La casa degli amici gli rimanda
tutta la sua mancanza. Attraversiamo un periodo difficile. La
fragilità che sembrava superata è sempre dietro l’angolo.
Le sedute si susseguono, a volte
l’umore è alto, a volte meno; nei momenti in cui è più in contatto con
sé stesso e può dare parola ad episodi che gli pesano dentro, la
sofferenza è più acuta. E’ passato un anno dall’inizio dei nostri
incontri, un giorno è particolarmente depresso, e con il volto tirato
mi dice: “Io sono qui solo in apparenza, non mi sento nel mio
corpo. Io sono sempre là, questo è più forte. Sento molto odio,
collera, dentro sono sempre solo”.
Nonostante ciò Carlo sta meglio, la
sua pelle ha un colore diverso, prima aveva delle nuance che
viravano sul verdastro, ora verso l’oro. La sua vita si è aperta a più
livelli di esperienza. Nella vita quotidiana le cose vanno bene, è
inserito nel gruppo di amici, il suo lavoro gli piace e si trova bene
con le persone che frequenta; riesce anche a ridere e divertirsi.
Eppure a livelli più profondi il vissuto traumatico continua a
seminare attorno a sé il vuoto. Dopo una cena in casa di amici, fa
questo sogno: “Mi trovo in un posto, forse in una cena, tutti
parlano, ma io mi sento estraneo, non so cosa dire, non capisco
neppure cosa gli altri dicono”.
Ci incontriamo oramai da un anno e
mezzo quando Carlo nel suo entrare manifesta qualcosa di nuovo. Si
siede, appoggia ambedue gli avambracci sul tavolo, il suo corpo è
rilassato, la difesa dell’immobilizzazione sembra superata, mi dice: “Ho
sognato che ero a x (nel suo paese), con i miei compagni e la
mia ragazza, prima di quello che è successo…”.
Questo “prima” gli permette di
parlare del padre e dei fratelli, dei tratti affettuosi e gentili
della madre, di recuperare affetti e legami che sembravano cancellati,
di distendere il suo corpo, di appoggiarsi al tavolo. Prima di uscire
dice: “Adesso mi sento più tranquillo, mi rendo conto di cosa
significa venire qui, mi ha fatto bene”.
Carlo si muove su un territorio sempre
più vasto e le oscillazioni persecutorie/depressive sono meno
polarizzate. Si apre a qualità psichiche differenziate, sta
faticosamente costruendo un tessuto di relazioni. Inizia a fare dei
programmi per il suo futuro, si riaffacciano i progetti che aveva
iniziato a fantasticare nella sua prima adolescenza.
Inizia in questo periodo a farsi
avanti la possibilità di sospendere i nostri incontri. Un giorno mi
dice: “Con quello che è successo ci dovrò sempre fare i conti, però
ora quando lavoro riesco a stare meglio, qualche volta me ne dimentico
anche. Questo è l’unico posto in cui mi sento veramente con me, qui ci
sono tutto. Forse ora anche fuori di qui posso avere meno paura per
quello che provo dentro”.
Permangono aree di estesa fragilità,
ma Carlo sente il richiamo di nuove esperienze. Penso che posso
lasciarlo andare, che per lui si è avvicinato il momento di
distanziarsi. Abbiamo dato espressione emotiva e parola ad alcuni suoi
terribili vissuti, ora può iniziare ad allontanare dal cuore alcune
immagini del suo passato.
Nonostante ciò che ha visto e
sofferto, penso che Carlo sia in grado di affrontare la vita e la sua
particolare sofferenza esistenziale.
Concordiamo di vederci fino alle
vacanze estive, ovviamente con la disponibilità a riprendere il lavoro
in qualsiasi momento ne senta il bisogno.
Al termine dell’ultima seduta, sulla
porta si volta, avvolge la stanza con lo sguardo, poi mi dice: “Qui
ci sono le cose che nessuno sa”.
Non ho più visto Carlo, mi ha
telefonato alcune volte.
Pochi mesi fa, mi ha comunicato la
sua decisione di andare a vivere in una città del nord dove degli
amici gli hanno trovato lavoro.
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