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IL SUICIDIO DI DAVID FOSTER WALLACE

 

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 Segnaliamo l'uscita su "L'indice dei Libri del Mese" di luglio-agosto 2009 (n.7/8) dell'articolo di Francesco Guglieri "Di che cosa parliamo quando parliamo di dfw". Si ringrazia l'autore dell'articolo per aver autorizzato la riproduzione del suo testo su questo sito web.

 

 




 

Novità - News


 

 

Rivista Frenis Zero

 

"Di che cosa parliamo quando parliamo di dfw"

 

di Francesco Guglieri

 

    

   

Maitres à dispenser

 


 
 

 

 

 

 

 

                

    Quando una grigia mattina d'autunno, scorrendo il sito del "New York Times", lessi la notizia che un paio di giorni prima uno "scrittore postmoderno era stato trovato morto" (così recitava il titolo: e mai come in quel frangente il gergo letterario mi apparve maldestro e fuori luogo), ovvero che il 12 settembre 2008 David Foster Wallace, a soli quarantasei anni, si era tolto la vita impiccandosi nella sua casa a Claremont, California, la prima reazione fu di incredulo ammutolimento. Da una parte immagino sia la naturale e scontata reazione di fronte al suicidio di una persona conosciuta (nella misura in cui si può dire di conoscere uno scrittore molto amato, e ammesso che si possa mai conoscere qualcuno al punto da poter asserire:"sì, sapevo che si sarebbe ucciso"); da un'altra parte, credo che c'entri anche il particolare tipo di scrittore che Wallace è stato.

Naturalmente non fui l'unico a essere turbato dalla sua morte: sui giornali di tutto il mondo fu un fioccare di coccodrilli, commemorazioni, profili dell'uomo e dello scrittore. Ma fu soprattutto in rete (che in qualche modo sembrava diventata la sua patria d'elezione, il luogo privilegiato e inevitabile in cui si danno appuntamento gli adepti del culto) che i suoi lettori espressero le reazioni più sincere e commosse. Pochi minuti dopo che la notizia fu pubblicata non c'era blog, sito amatoriale, "gruppo" di facebook che non raccogliesse le parole stupefatte e addolorate di chi l'aveva letto e amato - e anche di chi magari non l'aveva mai veramente letto - alcune quasi rabbiose per la sua decisione (altra classica reazione di fronte a un suicidio. Ma è veramente una "decisione"? "La persona che ha una così detta 'depressione psicotica' e cerca di uccidersi non lo fa 'per sfiducia' o per qualche altra convinzione astratta che il dare e avere nella vita non sono in pari. E sicuramente non lo fa perché improvvisamente la morte comincia a sembrarle attraente. La persona in cui l'invisibile agonia della Cosa raggiunge un livello insopportabile si ucciderà proprio come una persona intrappolata si butterà da un grattacielo in fiamme" scrive Wallace stesso in Infinite Jest, 1996; Fandango, 2000; Einaudi, 2006). Ben presto la cosa assume dimensioni che ci si sarebbe aspettati per una rockstar, non certo per uno scrittore oggettivamente ostico, spesso impenetrabile, autore di libri tanto lunghi quanto impegnativi.

Il "New York Times" lo definisce "la mente più geniale della sua generazione" (ma a scriverlo non è la Michiko Kakutani che a suo tempo fece le pulci a Infinite Jest...), prontamente ripreso dalle fascette dei suoi libri ristampati da "Stile Libero"; il critico e "detective letterario" D.T. Max sul "New Yorker" ne ripercorre, in un lungo e dettagliato articolo, la carriera e in particolare le vicende del manoscritto su cui stava lavorando ormai da molti anni: The Pale King. Questo, che sarà il suo terzo romanzo (dopo La scopa del sistema, Einaudi, 2008, e Infinite Jest), uscirà nella primavera del 2010 negli Stati Uniti con tanto di apparato filologico degli editor che ne hanno curato l'edizione, essendo un manoscritto ben lungi dalla stesura definitiva. L'attesa dei fan è ovviamente spasmodica, e c'è chi ha messo in piedi un sito che raccoglie tutte le notizie sulla collazione e pubblicazione del testo (http://www.thepaleking.com).

Altri hanno compilato un vero e proprio dizionario wallaciano in cui, accanto alla definizione corrente di una parola, troviamo il particolare senso con cui la usa Wallace e un brano di esempio tratto dai suoi scritti (http://lexicon.griffinandhoxie.com). C'è chi compila elenchi più o meno esaustivi di personaggi depressi o allusioni al suicidio presenti nella sua opera (e ce ne sono tanti...). Spunta l'epistolario, ad esempio alcune missive che si è scambiato con DeLillo ( a cui scrive:"Credo che una specie di matura sanità sia la forma più pura di eroismo che oggi ci sia rimasta"). Esce il film tratto da Brevi interviste con uomini schifosi (Einaudi, 2000). Si raschia il fondo degli inediti: il suo editore manda in libreria, debitamente rimpolpato tanto da tirarne fuori un volumetto, This is water, un suo discorso tenuto in un college americano. Di questi giorni è il progetto denominato "Infinite Summer" (http://infinite-summer.org), una sorta di maratona organizzata via internet per leggere tutto Infinite Jest durante l'estate: un obiettivo tutto sommato fattibile poiché, calcolano gli organizzatori, si tratta di sole 75 pagine alla settimana. Non manca la vetta di squallore quando, un paio di mesi dopo la morte, in rete spuntano le cartelle dell'autopsia eseguita sul corpo dello scrittore.

Un curioso (ma forse Wallace direbbe hideous, "schifoso") fenomeno per cui cortocircuitano - è l'età dell'informazione, bellezza - teorie letterarie diventate di colpo letterali e parapubblicistica scandalistica. Un misto di sincera commozione, moda, sfruttamento commerciale, morbosità: non è un caso che da più parti il suo suicidio sia stato paragonato a quello di Kurt Cobain. Ma forse Wallace, anzi "dfw" come lo chiamano i suoi fan, con una sigla che è un po' firma e un po' logo, è stato proprio questo, anche questo: una rockstar per noi nerds della letteratura. E non certo per le sue eccentricità o, peggio, il capello lungo e la bandana: della celebrity, dell'idolo di quel "culto delle star e dei morti" di cui parla il suo amico DeLillo, aveva due delle caratteristiche più importanti. La prima è il suo essere, per così dire, l'oggetto di un desiderio mimetico, qualcuno da ammirare per il suo talento inarrivabile, un talento così grande dall'avere qualcosa di mostruoso, ipertrofico: da qui il suo essere anche uno scrittore di moda (uno che se lo leggi ti "distingui"), oggetto di un'imitazione per lo più fallimentare da parte di intere legioni di aspiranti romanzieri. La seconda è il suo essere sentito come qualcuno "che ci rappresenta", che dà voce a una generazione, alla sua disperazione, ai suoi fallimenti. Qualcuno che con la sua autenticità (la sincerità dei bambini, degli artisti e delle rockstar: dice il senso comune...) si fa interprete e cantore di un'epoca non solo da un punto di vista intellettuale, spiegandocela, svelandone le ideologie e i poteri, ma in certo senso anche "fisicamente", emotivamente, prendendola su di sé, incarnandola.

Eppure c'è dell'altro. Di fronte a ogni suicidio, chi resta non può fare a meno di interrogarsi sulle cause che hanno spinto una persona a togliersi la vita. Se il suicidio è quello di uno scrittore, si tende inevitabilmente a leggerne le opere come un enorme biglietto d'addio, a cercare tra le righe un "sintomo", una traccia di quella sofferenza che spieghi, e giustifichi ai nostri occhi, tale gesto. Anche il lettore più avvertito non può trattenersi dall'esercitare questa convinzione, questa illusione che la scrittura sia una sorta di "coscienza materializzata", l'io dell'autore messo su carta, l'interno del sé esteriorizzato. E' una fallacia non molto diversa da quella che ci porta a scambiare i personaggi per delle persone vive. La letteratura, nelle sue migliori interpretazioni, non fa altro che ripetere questo doppio gesto: come una finta di corpo, prima ci spinge a ficcare il naso nelle vite degli altri (dei personaggi, dell'autore) con la presunzione di trovare nella scrittura (e cioè in un'assenza) le tracce di una presenza che sempre ci sfugge (quella dell'io sofferente), poi ci svela come illusorio tale desiderio. Perché non solo a certe domande ("A cosa stai pensando? Cosa vuoi dire veramente?") è già difficile rispondere quando l'interlocutore ce l'abbiamo davanti al naso, ma è ancora più difficile rispondervi di fronte alla presenza assoluta: a noi stessi ("Cosa sto pensando? Cosa sto dicendo veramente?").

Nel caso di Wallace, tutto ciò è doppiamente significativo perché, se c'è un tema che ricorre ossessivamente nei suoi testi narrativi e saggistici, è proprio la domanda:"Chi parla quando parlo?". La sua scrittura frattale, in grado di proliferare all'infinito intorno al suo oggetto, gemmando in una serie di subordinate, incisi, digressioni, note, parentesi, contrappunti, è lo strumento che utilizza per perseguire un realismo in grado di restituire la realtà non del "mondo fuori", ma del mondo interiore. Per correre con le parole dietro ai pensieri. Ma questo mondo interiore ha un fondo di lutto e assenza che non potrà mai farsi cogliere dal linguaggio (è una Cosa, appunto, indicibile).

Secondo Maurice Blanchot (è all'inizio di Passi falsi, 1943), "uno scrittore che scrive:'Sono solo', o come Rimbaud: 'Sono veramente d'oltre tomba', può venir giudicato quasi grottesco. E' grottesco prender coscienza della propria solitudine rivolgendosi al lettore, e con mezzi che impediscono all'uomo di essere solo. La parola 'solo' è diffusa come la parola 'pane'. Non appena la si pronuncia, si evoca la presenza di tutto ciò che essa esclude. Tali aporie del linguaggio sono prese raramente sul serio". Forse si spiega così il nostro bisogno di consolazione di fronte alla sua morte: Wallace era lo scrittore che più di tutti sembrava prendere sul serio tale aporia. E prendendola sul serio rendeva ancora possibile, ancora possibile per noi, quello spazio che chiamiamo letteratura.