Home_Page


Adelasia del Sinis
(2002)

Quando ero giovane il mio cognome era Musiu: allora vivevo libera di sognare respirando il vento della scogliera. Ora sono Adelasia, Adelasia Arenas. Il nuovo nome mi viene da colui che ho sposato.  Sono qui da tre anni, ma ci resterò ancora per poco, lo so. Un lento male ignoto mi ha pian piano ridotta a una larva umana: non posso muovermi, e respiro a fatica. Mi costa uno sforzo tremendo lasciarti questa eredità scritta, mio Comita, che fosti portato via, un giorno funesto -. Adelasia era stesa sul giaciglio, duro, nonostante un doppio strato di stuoie, incapace a muoversi, circondata dai suoi ricordi. Le stavano da presso alcune fanti, amorevoli, solerti. Il morbo oscuro di cui era vittima, l’aveva resa, lentamente ma progressivamente un automa, un corpo inerte. Le uniche cose vive erano gli occhi, mobilissimi e belli, la voce affannata.

    Si sentiva morire. Intorno a lei tutto era stato tentato, tutto. Vanamente, e a lungo, si era adoperato nella ricerca di chissà quali erbe, su majargiu di Cabras, tziu Troghidori, percorrendo, scavando le dune del Sinis, le basse pendici del Montiferru, alla ricerca dell’erba che non c’è, della radice chimerica, del fiore magico. Inutilmente le messe, le salmodie, le promesse a Santu Srabadoi erano volate al cielo insensibile della sua fede. E infruttuoso, anche, era stato l’impegno di una bruxa determinata, la bella Incantera. Sentendo la morte, aveva chiamato lo scrivano dalla corte di Aristanis, a dettargli i ricordi della sua vita, i segreti della sua giovinezza, gli spasimi della sua malattia. Comita sarebbe tornato: glielo diceva il cuore; ma doveva trovare, un giorno, della madre, quel distillato d’amore, quelle parole vergate da mano pisana e destinate a sfidare il tempo.

    Sono qui, da tanto, ormai. Pensavo che sarei stata più forte del male, sbagliando: il male è stato più forte di me. La mia persona era leggiadra, in gioventù: sfidava le offese dei venti, acconsentiva alle carezze dell’aria. Il mio corpo era leggero, le mie membra flessuose ed energiche; profumava di salso la mia pelle ambrata, e di gigli la mia chioma corvina. Pere mi amava …e anch’io l’amavo, col cuore. Un giorno l’attendevo, come sempre, un giorno nebbioso di novembre. Ero ignara, ero quasi felice. Vagivi, Comita, al fuoco, alle volute del fumo di casa, custodito da Bonaria, la mia ancella fidata. Non si avvistavano barche, sulle coltri del mare: ero serena. La capanna di falasco, protetta, era abbracciata da molte altre; le nostre barche all’aria, a saldarsi nelle commessure, ad amalgamarsi, asse con asse, in corpi unici, per liete pesche. I tuoi grandi occhi ridenti mi facevano sentire beata, Comita: coprivano il velo del mio cuore, e il segreto che ti dirò, alla fine di queste memorie. So che tornerai, ma dubito che potrò stringerti a me. Premerai e bacerai queste pergamene che io non ho la forza di scrivere, un giorno, sentendo lo spasimo artigliarti il  petto, sconvolgerti il sangue. Questa è la mia vita, figlio, questa è la vita di chi la sorte ha piegato come cera al fuoco della sventura. Aspettavo tuo padre, come sempre; come sempre, aderivo al libeccio delle rupi, mi sentivo parte viva dell’aria fluttuante, impregnata delle mille fragranze del promontorio. Barche no, non ne avvistavo. Ciò nondimeno ero paga. Poi, come se mi avessero reciso i nervi delle gambe, i nervi delle braccia, caddi al suolo, d’improvviso. Fui a lungo sola, impossibilitata a parlare, a respirare. Una forza oppressiva mi artigliava i polmoni, mi serrava la bocca. Le braccia non obbedivano agli ordini della mente, le gambe non mi reggevano. Da me era fuggita l’ultima stilla di energia. Come una foglia d’autunno, umiliata dal sole, lacerata dal vento del nord: ero così, vittima di qualcosa che non capivo, che non capisco.

Stetti ore distesa, fra sabbia ed erbe, all’ingiuria dell’aria, che non mi dava più sensazione alcuna. Un corpo morto, o meglio, un corpo con forze snervate, non sufficienti a farmi reagire. Mi trovarono i pescatori, mi trovò Pere -. Adelasia narrava a Comita il tormento della sua pena. Pronunciava le parole nella lingua dei toscani, assimilata durante la lunga frequentazione della corte arborense. A lei era stato concesso, poiché a Cabras possedeva le barche, e approvvigionava di muggini e anguille la mensa della regina. Poche nobili dame godevano, in verità, di quel privilegio. Eleonora talvolta le aveva accordato udienza, tra i suoi impegni politici: la trovava spontanea, intelligente, viva. A tal punto da diventarne amica quasi dal primo istante.

Adelasia era un nome regale, malgrado l’origine. Il padre, abbiente, era uno dei majorales di Cabras; frequentatore del palazzo arborense, aveva ben pensato di non far torto a nessuno chiamando l’amata primogenita Adelasia, come la giudicessa di Torres. Nessuno nel popolo aveva quel nome. Anche per questo, la distanza sociale, pareva tra le due donne meno rilevante. E inoltre poteva accedere alla corte, sentirne le musiche, i clamori; poteva goderne l’atmosfera, e considerarsi, in parte, patrizia. Ma come? …………………

 

Questo romanzo è inedito. Il manoscritto giace presso polverose scrivanie di alcune case editrici del Nord.


 

Testi:

Adelasia del Sinis
 Ad servandam Naturam

 Eremitanu
 Dove Vanno le Nuvole


 

Catalogo libri




*** | *** | *** | ***
copyright © 2002, elianoc@yahoo.com All rights reserved