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Ad Servandam Naturam
(2000)

In tutta la regione del Barigadu, dai confini occidentali col lago Omodeo e fino al prossimo Mandrolisai a oriente, aveva acquistato larga fama una insolita figura di eremita, conosciuta da tutti, nelle campagne e nei villaggi, dai vecchi come dai bambini, dai contadini e dall’altro popolo. Aveva un nomignolo strano, inusitato, e, a seconda di chi lo pronunziava, risibile, per un uomo dalla candida e liscia chioma. Era Pilurzu il suo nome che in sardo vale arruffato. Ma al battesimo gli venne dato Antonio Crobu, per quanto nessuno lo conoscesse, sotto quelle vesti anagrafiche. Antonio non l’aveva chiamato neppure la madre mai, perché, dai giochi infantili, per un errore di pronuncia o un accavallamento di sillabe, quella peregrina accozzaglia di  fonemi era diventata sua per la vita. Ora Pilurzu, avendo attraversato una esistenza minata dai patimenti, ed essendo rimasto solo, senza i suoi affetti, tenendosi lontano dalla gente, si era ridotto a vivere in un casolare appartato, un romitaggio alle spalle del paese nativo, su una collina aerea dominante la dolce valle sottoposta, fra  boschi di roverelle e di castagni.

La moglie gliela aveva uccisa il cancro, quella terribile malattia “…chi in tottue faghet luttos mannos…”(1), e i figli, i due unici figli maschi, un incidente in una miniera belga, nel 1955. Si era abituato, per destino, alla solitudine ma non disdegnava, talvolta, conversare e vivere momenti di calda socialità. Ancorché più che nonagenario, egli, uno degli ultimi ragazzi del ‘99 era solido come una roccia, e conduceva un’esistenza alacre, fra mille piccole attività, senza stancarsi mai, senza mai dire di no ad alcuno. Come fosse stato sempre sul Carso a combattere gli Austriaci, come allora non aveva mai abbandonato l’abitudine al sigaro toscano che sardamente fumava con la brace in bocca. …

Un giorno, alla ricorrenza della nascita sua,  presi con sé un quaderno ed una penna, si gettò nella luce abbagliante del mattino, nell’insolita mitezza dell’aria, verso i boschi nord-orientali. Con mano tremula vergò, fra le rocce di S’Isteddu, sulla carta ingiallita dagli anni, una sua ottava di commiato, rivolta agli uomini, all’uomo: il suo testamento spirituale nel leggiadro stile dei poeti antichi :

Mi sunt faltende  forzas e alenu,
bennida est s’hora de sa dispedida;

hapo logradu su tempus serenu

ma est accabadu su cursu ‘e sa vida.

E hoe chi de annos so pienu

derramende sa trist’ e affliggida

esistenzia, ti naru cun ternura:

hapas semper che mama sa natura.

 

Racconto tratto da Balentias, di Eliano Cau e Tonino Cau, Editrice S’alvure, Oristano ottobre 2000

Testi:

Adelasia del Sinis
 Ad servandam Naturam
 Eremitanu
 Dove Vanno le Nuvole


 

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