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Asile Cigarru
(2002)

Succede spesso all’uomo maturo, offeso dal dolore, di non trovare riposo in luogo alcuno, di sentirsi estraneo al mondo in cui respira. Gli succede che, occhi sensi e cuore, volti a captare un alito di speranza, diventino così insofferenti della vita usuale che in lui frasi, gesti, accozzaglie di parole insulse, vomitate unicamente per sentirsi vivi, producano la voglia di fuggire, di separarsi, seppur per breve tempo dall’umanità, di evitare lo sterile magma del consorzio umano. Accade ancora di voler vivere in silenzio, proiettandosi in sfere di sogno fuggevole ed evanescente, lontano, in dimensioni altre ove i nostri simili non ci possano dare noia.
Viveva da tempo questa condizione tiu Asile gigarru, ferito dal tempo in modo irreparabile.
Allora se ne andava ramingo per il suo piccolo universo, esule dai pensieri ferali; se ne andava ove meditare è un atto che ci collega al Cosmo, che ci fa sentire, quantunque esigua, una parte del Tutto. Spesso, nell’ultimo periodo di quella vita effimera, gli capitava di inclinare più che mai ai sogni e ai miraggi. Rifletteva in un luogo amico, fratello, solito; rifletteva sotto una sughera annosa. L’abitudine a parlare con gli uomini aveva sviluppato in lui, con la fantasia, la sensibilità a captare le vibrazioni, i segnacoli, i codici segreti del mondo naturale chiuso ai più.
Su suergiu di Olisezzo, gli pareva, da lontano, sempre uguale, come se, per quello, il tempo fosse fluito invano. Non era così.
Avvicinandosi, e riandando a ritroso negli anni, notava ferite, callosità che non conosceva: spiragli dell’anima nascosta, di stagione in stagione più evidenti, più profondi. Notava come, a somiglianza degli uomini, neppure per l’albero si accanivano impunemente le bufere dei venti, l’ira delle nuvole, l’insulsa spietata imperizia umana.
L’orrido incanto della valle a nord, aveva quello straordinario guardiano. Ma la sughera osservava anche le sue spalle, non vedesse subdoli nemici tenderle insidie.
In uno dei suoi riposi, all’ombra, Asile assisté a un dialogo muto. Ispirato da una foglia che gli danzava tra i rami contorti, il patriarca si rivolgeva però all’uomo. Diceva: “Uomo, se sei uomo di cabale, un uomo vero, non essere come la foglia vagabonda, schiavo del vento, del male, in questa nostra vita menzognera; sii albero, per quanto le tue foglie ricevano nell’aria un segnale malvagio; non temere tempeste o avversità: espandi verso il cielo fermi i tuoi rami”.
Alla lunga sequela di idee, Asile, che nell’albero si riconosceva, avrebbe voluto sentir dire alla foglia: “Io sono quella foglia, e sono contenta perché i venti mi fanno volare: non sono prigioniera, non mi trattiene alcuno, attraverso a volo i monti e il mare. Giro il mondo, e non devo per questo, pagare il pedaggio a nessun padrone: dunque io volo libera, leggera, esempio dell’umanità dolente”.
Come di chi è avvezzo a ben altre battaglie, l’alberò le saettò attinente la risposta:” Quando soffia il vento maestrale, non lo temo, ché ho forze nel seno, né mi portano lontano le bufere autunnali; come un fanciullo innocente, mi sento cittadino del luogo in cui sono nato; sempre fedele a questa montagna, non come te, mal esiliata!”. E la foglia: ”Nessuno mi neghi la libertà, né mi costringa alla dura prigionia; fluttuo libera nell’aria, non ho gravità, felice della mia sorte; più non conosco fratello o padre, sciolta da ogni tormento; ho pena di te, perché non voli leggero, tu, schiavo di dure radici!”.
Asile raccoglieva in cuor suo l’altercare impercettibile, l’acerbo scontro tra filosofie esistenziali. Immaginava la stoccata finale del vegliardo, che venne:
” La libertà di cui parli, è come un lieve sospiro di vento: prima vieni lanciata su una nube, subito dopo costretta al suolo; ti inganni, se resti lassù, poiché ti aspetta un buio apposentu: non manca per alcuno, la dimora finale, per tutte le creature sconfortate del mondo”. L’albero aveva vinto la tenzone: una vittoria amara, però.
Quasi a conferma delle ultime congetture, un refolo più forte distaccò dal suo mondo la foglia, scagliandola chissà dove.
***
Ma non era terminata la sentenziosità de su suerg’e Olisezzo; in vena di far conoscere all’umano seduto alla sua ombra quanto saggio fosse, guardandosi intorno e non scorgendo foglie da bersagliare, volse un’occhiata ai suoi piedi e prese a dire.
Si rivolgeva a un giovane consimile; intendeva bene, il vecchio fumatore di sigaro che, avendo rinunciato all’inveterata abitudine, si ficcava in bocca piccole fronde di corbezzolo o cisto, sostitutive dell’amato gigarru.
Foriero di procelle, intanto, turbinava il libeccio. Con l’iracondia immotivata di chi considera tutti gli esseri suoi avversari, gli scagliava nugoli di polvere, piccole tormente di sterpi, insetti incolpevoli. Attorno, una piccola sugherella, vergine ancora, protetta dal tronco gibboso e dalle fronde vetuste. Ogni vento la scuoteva, all’apparenza benigno, ché si infrangeva la veemenza distruttrice contro la mole del gigante addestrata ai tornei coi vortici, alle folate crudeli. Il piccolo grigio tronco del suergiolu, corrugato, diritto, si era avvalso del grande vicino. Era venuto su felicemente: dando verdi foglie, ben distribuiti rami, aveva scelto di esser custode, anche lui della valle. Perdurando la clemenza delle stagioni, mai aveva accusato danni: accettava la sfida dell’intemperie che, per riguardo verso i piccoli, non gli si scaraventava addosso con tutta la sua irruenza.
Gigarru sentiva quell’albero dal color ferrigno, quel martire isolato sul monte, un fratello. Come lui, nessuna cosa al mondo era più triste: lo schiacciava tutto il dolore possibile. Anche la sua pelle era rugosa: ogni ruga, una croce, ogni croce un lutto. Sentiva che la vita, forse per molti benevolo insipiente scorrere di giorni, era per lui il cumulo di tanti, assidui, piccoli mali. Sentiva questo, e guardava l’alberello innocente, ascoltando quel che il decano gli diceva.
“Tu sei nato alla mia ombra e la tua, intorno a te, è circoscritta a un palmo. Tu svetti, cercando l’aria, punti al cielo: respiri, ti espandi, impercettibilmente, aggiungi ogni anno qualche piccola foglia; sei impaziente di vivere, e non ti accorgi che la vita ti passa leggera come il fiato della brezza di S’isteddu, ti sconvolge come la ventate de su ent’austesu, ti martoria, strappandoti le foglie, ti vorrebbe piegare, gettare al suolo, vorrebbe ucciderti. Sotto di me puoi sperare, puoi sognare, incurante delle offese. Emetterai altri germogli, ogni anno aggiungendo un piccolo anello al tuo tronco. Non si vedrà, però: la vita è così lenta, specie nel dolore. Perché tu non lo avverti, ma questo impercettibile scorrere delle ore è finalizzato a darti il colpo finale, più in là, quando meno te lo aspetti. Offeso sei già oggi, o suergiolu che mi guardi e che ti vanti della mia protezione.
A ben guardare, le ferite dell’albero arcaico erano gravi. Asile era stato nella sua vita anche ogadore de ortigu; aveva decorticato migliaia di piante, ovunque, nei salti, al caldo, al morso delle formiche rosse, alla villosa urticante carezza della processionaria: intuiva l’esperienza, anche dopo anni, della mano che aveva vibrato la scure per appropriarsi delle valve preziose. Su suergiu vetusto aveva ben motivo di lamentarsi. Segni tangibili, ferite intime, il suo sangue, messo a nudo dalla scure maldestra e leggera del primo venuto. Asile accarezzava quelle vecchie ferite, non mai rimarginate. Carezzava così anche il proprio cuore.
Volendo educare il proprio discepolo, l’albero antico si ritraeva: aggrumava le fronde, permettendo alle ventate di scorrazzare liberamente. “Non mi proteggi più?”, pareva dicesse su suergiolu. “Pian piano allenterò la mia guardia, ti lascerò solo ogni giorno un istante più lungo, ti insegnerò come resistere ai nemici, come affrontarli. Hai già subito duri assalti: io li ho stemperati. Ma le mie fronde invecchiano, disseccano le mie radici, presto non darò più ghiande. In tempi lontani, io ho visto di tutto: tutte le bufere dell’inverno, tutte le vampe dell’inferno: ho visto uomini torvi passare sotto di me: ho lasciato impinguare branchi di porci, di cinghiali. Ho dato il nido a migliaia di uccelli, ombra e sicurezza a te. Ma presto, quando unu ogadore che spero abile, per la prima volta ti domerà, non farò in tempo a godere la lieta porpora della tua nobile corteccia. Vecchio, vecchio di secoli, come avessi vissuto le ere dai primordi dell’umanità, reclinerò il capo.
Asile annuì, riconoscendosi in quelle parole e ficcandosi in bocca un piccolo asfodelo secco che tormentava da un’ora
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pubblicato nel luglio 2002 dall’Unione Sarda


 

Testi:

Adelasia del Sinis
  Ad servandam Naturam
 Eremitanu
 Dove Vanno le Nuvole


 

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