Succede
spesso all’uomo maturo, offeso dal dolore, di non trovare riposo in luogo
alcuno, di sentirsi estraneo al mondo in cui respira. Gli succede che, occhi
sensi e cuore, volti a captare un alito di speranza, diventino così
insofferenti della vita usuale che in lui frasi, gesti, accozzaglie di
parole insulse, vomitate unicamente per sentirsi vivi, producano la voglia
di fuggire, di separarsi, seppur per breve tempo dall’umanità, di evitare lo
sterile magma del consorzio umano. Accade ancora di voler vivere in
silenzio, proiettandosi in sfere di sogno fuggevole ed evanescente, lontano,
in dimensioni altre ove i nostri simili non ci possano dare noia.
Viveva da tempo questa condizione tiu Asile gigarru, ferito dal tempo in
modo irreparabile.
Allora se ne andava ramingo per il suo piccolo universo, esule dai pensieri
ferali; se ne andava ove meditare è un atto che ci collega al Cosmo, che ci
fa sentire, quantunque esigua, una parte del Tutto. Spesso, nell’ultimo
periodo di quella vita effimera, gli capitava di inclinare più che mai ai
sogni e ai miraggi. Rifletteva in un luogo amico, fratello, solito;
rifletteva sotto una sughera annosa. L’abitudine a parlare con gli uomini
aveva sviluppato in lui, con la fantasia, la sensibilità a captare le
vibrazioni, i segnacoli, i codici segreti del mondo naturale chiuso ai più.
Su suergiu di Olisezzo, gli pareva, da lontano, sempre uguale, come se, per
quello, il tempo fosse fluito invano. Non era così.
Avvicinandosi, e riandando a ritroso negli anni, notava ferite, callosità
che non conosceva: spiragli dell’anima nascosta, di stagione in stagione più
evidenti, più profondi. Notava come, a somiglianza degli uomini, neppure per
l’albero si accanivano impunemente le bufere dei venti, l’ira delle nuvole,
l’insulsa spietata imperizia umana.
L’orrido incanto della valle a nord, aveva quello straordinario guardiano.
Ma la sughera osservava anche le sue spalle, non vedesse subdoli nemici
tenderle insidie.
In uno dei suoi riposi, all’ombra, Asile assisté a un dialogo muto. Ispirato
da una foglia che gli danzava tra i rami contorti, il patriarca si rivolgeva
però all’uomo. Diceva: “Uomo, se sei uomo di cabale, un uomo vero, non
essere come la foglia vagabonda, schiavo del vento, del male, in questa
nostra vita menzognera; sii albero, per quanto le tue foglie ricevano
nell’aria un segnale malvagio; non temere tempeste o avversità: espandi
verso il cielo fermi i tuoi rami”.
Alla lunga sequela di idee, Asile, che nell’albero si riconosceva, avrebbe
voluto sentir dire alla foglia: “Io sono quella foglia, e sono contenta
perché i venti mi fanno volare: non sono prigioniera, non mi trattiene
alcuno, attraverso a volo i monti e il mare. Giro il mondo, e non devo per
questo, pagare il pedaggio a nessun padrone: dunque io volo libera, leggera,
esempio dell’umanità dolente”.
Come di chi è avvezzo a ben altre battaglie, l’alberò le saettò attinente la
risposta:” Quando soffia il vento maestrale, non lo temo, ché ho forze nel
seno, né mi portano lontano le bufere autunnali; come un fanciullo
innocente, mi sento cittadino del luogo in cui sono nato; sempre fedele a
questa montagna, non come te, mal esiliata!”. E la foglia: ”Nessuno mi neghi
la libertà, né mi costringa alla dura prigionia; fluttuo libera nell’aria,
non ho gravità, felice della mia sorte; più non conosco fratello o padre,
sciolta da ogni tormento; ho pena di te, perché non voli leggero, tu,
schiavo di dure radici!”.
Asile raccoglieva in cuor suo l’altercare impercettibile, l’acerbo scontro
tra filosofie esistenziali. Immaginava la stoccata finale del vegliardo, che
venne:
” La libertà di cui parli, è come un lieve sospiro di vento: prima vieni
lanciata su una nube, subito dopo costretta al suolo; ti inganni, se resti
lassù, poiché ti aspetta un buio apposentu: non manca per alcuno, la dimora
finale, per tutte le creature sconfortate del mondo”. L’albero aveva vinto
la tenzone: una vittoria amara, però.
Quasi a conferma delle ultime congetture, un refolo più forte distaccò dal
suo mondo la foglia, scagliandola chissà dove.
***
Ma non era terminata la sentenziosità de su suerg’e Olisezzo; in vena di far
conoscere all’umano seduto alla sua ombra quanto saggio fosse, guardandosi
intorno e non scorgendo foglie da bersagliare, volse un’occhiata ai suoi
piedi e prese a dire.
Si rivolgeva a un giovane consimile; intendeva bene, il vecchio fumatore di
sigaro che, avendo rinunciato all’inveterata abitudine, si ficcava in bocca
piccole fronde di corbezzolo o cisto, sostitutive dell’amato gigarru.
Foriero di procelle, intanto, turbinava il libeccio. Con l’iracondia
immotivata di chi considera tutti gli esseri suoi avversari, gli scagliava
nugoli di polvere, piccole tormente di sterpi, insetti incolpevoli. Attorno,
una piccola sugherella, vergine ancora, protetta dal tronco gibboso e dalle
fronde vetuste. Ogni vento la scuoteva, all’apparenza benigno, ché si
infrangeva la veemenza distruttrice contro la mole del gigante addestrata ai
tornei coi vortici, alle folate crudeli. Il piccolo grigio tronco del
suergiolu, corrugato, diritto, si era avvalso del grande vicino. Era venuto
su felicemente: dando verdi foglie, ben distribuiti rami, aveva scelto di
esser custode, anche lui della valle. Perdurando la clemenza delle stagioni,
mai aveva accusato danni: accettava la sfida dell’intemperie che, per
riguardo verso i piccoli, non gli si scaraventava addosso con tutta la sua
irruenza.
Gigarru sentiva quell’albero dal color ferrigno, quel martire isolato sul
monte, un fratello. Come lui, nessuna cosa al mondo era più triste: lo
schiacciava tutto il dolore possibile. Anche la sua pelle era rugosa: ogni
ruga, una croce, ogni croce un lutto. Sentiva che la vita, forse per molti
benevolo insipiente scorrere di giorni, era per lui il cumulo di tanti,
assidui, piccoli mali. Sentiva questo, e guardava l’alberello innocente,
ascoltando quel che il decano gli diceva.
“Tu sei nato alla mia ombra e la tua, intorno a te, è circoscritta a un
palmo. Tu svetti, cercando l’aria, punti al cielo: respiri, ti espandi,
impercettibilmente, aggiungi ogni anno qualche piccola foglia; sei
impaziente di vivere, e non ti accorgi che la vita ti passa leggera come il
fiato della brezza di S’isteddu, ti sconvolge come la ventate de su ent’austesu,
ti martoria, strappandoti le foglie, ti vorrebbe piegare, gettare al suolo,
vorrebbe ucciderti. Sotto di me puoi sperare, puoi sognare, incurante delle
offese. Emetterai altri germogli, ogni anno aggiungendo un piccolo anello al
tuo tronco. Non si vedrà, però: la vita è così lenta, specie nel dolore.
Perché tu non lo avverti, ma questo impercettibile scorrere delle ore è
finalizzato a darti il colpo finale, più in là, quando meno te lo aspetti.
Offeso sei già oggi, o suergiolu che mi guardi e che ti vanti della mia
protezione.
A ben guardare, le ferite dell’albero arcaico erano gravi. Asile era stato
nella sua vita anche ogadore de ortigu; aveva decorticato migliaia di
piante, ovunque, nei salti, al caldo, al morso delle formiche rosse, alla
villosa urticante carezza della processionaria: intuiva l’esperienza, anche
dopo anni, della mano che aveva vibrato la scure per appropriarsi delle
valve preziose. Su suergiu vetusto aveva ben motivo di lamentarsi. Segni
tangibili, ferite intime, il suo sangue, messo a nudo dalla scure maldestra
e leggera del primo venuto. Asile accarezzava quelle vecchie ferite, non mai
rimarginate. Carezzava così anche il proprio cuore.
Volendo educare il proprio discepolo, l’albero antico si ritraeva: aggrumava
le fronde, permettendo alle ventate di scorrazzare liberamente. “Non mi
proteggi più?”, pareva dicesse su suergiolu. “Pian piano allenterò la mia
guardia, ti lascerò solo ogni giorno un istante più lungo, ti insegnerò come
resistere ai nemici, come affrontarli. Hai già subito duri assalti: io li ho
stemperati. Ma le mie fronde invecchiano, disseccano le mie radici, presto
non darò più ghiande. In tempi lontani, io ho visto di tutto: tutte le
bufere dell’inverno, tutte le vampe dell’inferno: ho visto uomini torvi
passare sotto di me: ho lasciato impinguare branchi di porci, di cinghiali.
Ho dato il nido a migliaia di uccelli, ombra e sicurezza a te. Ma presto,
quando unu ogadore che spero abile, per la prima volta ti domerà, non farò
in tempo a godere la lieta porpora della tua nobile corteccia. Vecchio,
vecchio di secoli, come avessi vissuto le ere dai primordi dell’umanità,
reclinerò il capo.
Asile annuì, riconoscendosi in quelle parole e ficcandosi in bocca un
piccolo asfodelo secco che tormentava da un’ora.
pubblicato nel
luglio 2002 dall’Unione Sarda
Testi:
Adelasia del Sinis
Ad servandam Naturam
Eremitanu
Dove Vanno le Nuvole
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