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Perché Bruno Contrada è colpevole

Poliziotto, uomo dei servizi segreti, già sospettato da Giovanni Falcone. Condannato a 10 anni di reclusione in primo grado, assolto con formula piena in appello. Con una sentenza sbagliata: ecco perché

di Giorgio Bongiovanni

Bruno Contrada

Tommaso Buscetta, Francesco Marino Mannoia, Giuseppe Marchese,
Gaspare Mutolo, Rosario Spatola


Carla Del Ponte

Giustizia è fatta. Bruno Contrada, l’ex numero tre del Sisde, ha infine avuto la sua assoluzione con formula piena dopo nove anni di corsi e ricorsi in tribunale, e udienze, e lunghe ore di deposizione per dimostrare la propria innocenza, e una condanna alle spalle: dieci anni da scontare in carcere per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Ora può finalmente attendere alla sua prossima mossa contro «gli uomini in divisa» che lo hanno accusato, contro il capo della polizia Gianni De Gennaro e contro la Direzione investigativa antimafia. «Per sgombrare il campo da ogni dubbio, ribadisco il mio attaccamento all'istituzione della polizia di Stato cui ho dedicato la mia carriera - ha dichiarato - 35 anni della mia vita. Il mio attaccamento non solo in astratto, ma anche agli uomini che la rappresentano al vertice». E da un certo punto di vista non mi sembra di potergli contestare questo sentimento, nonostante le mie personali investigazioni giornalistiche mi inducano a pensare che egli sia in realtà colpevole di associazione mafiosa e di collusione con la mafia. L'inconciliabilità delle due affermazioni è soltanto apparente e prima di continuare vorrei fosse chiaro che non provo alcun tipo di ostilità nei confronti della persona Contrada e che anzi il mio sentimento cristiano mi suggerisce di gioire al pensiero che un uomo possa porre fine alle proprie sofferenze fisiche e spirituali. Ma non mi sento certo di chiudere gli occhi di fronte alle istituzioni che egli, corrompendosi, ha servito e rappresentato, a quello stato che, dal periodo post-generale Mori - mi si conceda la definizione - ha voluto convivere con la mafia per ragioni politiche, strategiche e geografiche, e soprattutto per il patto di alleanza siglato tra Italia e Stati Uniti. Nella motivazione della sentenza che il 5 aprile del 1996 ha condannato l'ex dirigente del Sisde a dieci anni di carcere si legge che nell'agire come ha agito l'imputato non ha avuto fini personali e che pertanto non esisterebbe il movente della collusione con il potere mafioso. Una tale affermazione non può che indurre a riflettere, specie per il fatto che la scelta di convivenza dello stato con il potere mafioso non solo rappresenterebbe un movente ma equivarrebbe al riconoscimento dell'esistenza della corruzione all'interno di organi istituzionali, cosa che pare sia meglio nascondere. «Il processo Contrada - ci ha detto il giudice Antonio Ingroia - ha dimostrato, secondo l'impostazione dell'accusa, che non era un caso di infedeltà individuale, ma che si inseriva purtroppo in un sistema di connivenza tra Stato legale e Stato illegale» (Vedi ANTIMAFIA Duemila n. 3 giugno 2000). Ed è da qui che nasce il Contrada che ha dovuto tradire le istituzioni italiane, che ha dovuto soprassedere a determinate catture di latitanti, che ha dovuto depistare o comportarsi conformemente al cambiamento politico e militare di Cosa Nostra. E' qui che nasce il Contrada colluso con Stefano Bontate - e successivamente con i corleonesi - il Contrada strumento di quello stato che per ragioni politiche e strategiche favorisce il potere mafioso. E tutto questo non emerge soltanto, come gli adepti di Berlusconi hanno accusato, dalle dichiarazioni "calunniose ed estremiste" dei pentiti ma dai riscontri oggettivi presentati nella motivazione della sentenza di primo grado. I quali emergono sia dalle prove presentate dall'accusa - le deposizioni della vedova Cassarà e del giudice Carla Del Ponte o le intercettazioni telefoniche dei colloqui tra Contrada e Nino Salvo, solo per citare alcuni esempi - sia da quelle presentate dalla difesa le quali in più punti appaiono contraddittorie. Particolarmente significativa, inoltre, la testimonianza di un collega dell'imputato il quale rivela che lo stesso Contrada sosteneva l'impossibilità di opporsi al potere mafioso poiché quest'ultimo appoggiato direttamente dagli Stati Uniti. Vista in quest'ottica la difesa del prefetto Parisi (ormai defunto) a favore di Contrada appare piuttosto logica data la consapevolezza del capo della polizia che l'imputato si limitava ad eseguire degli ordini, nonostante tali ordini costituissero un reato contro l'opinione pubblica. Ora, comunque, non ci resta che aspettare la pubblicazione della sentenza di secondo grado per scoprire come il giudice Gioacchino Agnello, già indagato per mafia nel corso di un'inchiesta poi archiviata dal solito capo della procura di Caltanissetta, sia riuscito ad assolvere con formula piena un imputato in primo grado condannato a dieci anni di reclusione. Intanto, ancora una volta, il buon nome delle istituzioni è salvo.

La storia

Bruno Contrada, altissimo dirigente del Sisde, venne arrestato il 24 dicembre del 1992. Era forse il poliziotto più chiacchierato di Palermo quando le dichiarazioni dei pentiti Gaspare Mutolo, Tommaso Buscetta, Rosario Spatola e Giuseppe Marchese lo portarono nel carcere militare di Forte Boccea, a Roma, con un capo d'accusa, ad esser leggeri, disonorevole: concorso esterno in associazione mafiosa. Un passato non privo di ombre quello dell'ex funzionario di Polizia impegnato sul fronte della lotta alla mafia, ex capo della Squadra mobile ai tempi di Boris Giuliano, ex responsabile della sezione siciliana della Criminalpol, ex capo di gabinetto dell'Alto commissario antimafia De Francesco, sul cui conto "giravano voci" inquietanti: si diceva che avesse impedito l'arresto di Riina, che avesse protetto Oliviero Tognoli (un riciclatore di narcodollari fuggito in Svizzera), che avesse depistato le indagini sulla morte del presidente della Regione Piersanti Mattarella. Soltanto voci, fino a quella vigilia di Natale del 1992, in un'Italia ancora scossa dalle tremende esplosioni che avevano causato la morte dei giudici Falcone e Borsellino. «Non è un complotto ma una vendetta e per me parla la mia vita professionale», si sfogava in aula davanti al pubblico ministero Antonio Ingroia che non senza un filo di imbarazzo, come riportano i giornali dell'epoca, lo lasciò parlare spontaneamente, «state prendendo per buone le accuse degli uomini che io ho combattuto durante la mia carriera». Nessun complotto commentarono i giudici esibendo il fascicolo numero 6714/92: quattro volumi di duemila pagine contenenti sì le deposizioni dei collaboratori di giustizia ma anche i "riscontri esterni", tra i quali le intercettazioni telefoniche tra l'imputato e Salvo. Il procedimento, istruito dai Pm Antonio Ingroia e Alfredo Morvillo, si aprì il 12 aprile del 1994. Nel corso delle 168 udienze dibattimentali l'accusa chiamò a deporre ben dieci pentiti, oltre a quelli già citati Francesco Marino Mannoia, Salvatore Cancemi, Maurizio Pirrone, Pietro Scavuzzo, Gaetano Costa e Gioacchino Pennino, tutti concordi nel riferire che il soggetto in questione informava preventivamente i criminali dei blitz pianificati dalle forze dell'ordine; che non disdegnava regalie e prebende; che era a stretto contatto con uomini delle cosche più feroci della criminalità organizzata; che era massone di una loggia supersegreta. La carcerazione preventiva durò 31 mesi, Contrada lasciò il carcere di Corso Pisani a Palermo il 31 luglio 1995. Il 5 aprile del 1996 la sentenza: "La compiuta disamina dell'ampio materiale probatorio acquisito all'odierno procedimento, costituito da numerosissime testimonianze, dalle dichiarazioni rese da dieci collaboratori di giustizia, da una notevole quantità di documenti e dalle molteplici dichiarazioni rese dall'imputato (sia in sede di dichiarazioni spontanee che in sede di esame delle parti) afferente ad una contestazione che copre l'arco temporale di quasi un ventennio, ha consentito di evidenziare un quadro probatorio a carico dell'imputato fondato su fonti eterogenee, coerenti, assolutamente univoche e convergenti nell'acclararne la colpevolezza". La condanna era a dieci anni di reclusione. I legali di Contrada, gli avvocati Gioacchino Sbacchi e Piero Miglio, presentarono immediato ricorso e il processo di appello iniziò il 12 giugno del 1998. Durò ben tre anni nel corso dei quali fu registrata l'audizione ex novo di numerosi testimoni, tra i quali i collaboratori Angelo Siino, Giovanni Brusca e Francesco Onorato. «Possibile - chiese l'avv. Sbacchi in una delle ultime udienze - che sia una coincidenza che tutti questi galantuomini siano stati accusati dal criminale che hanno contribuito a far arrestare e condannare?» E riguardo alla latitanza del capomafia di Partanna Mondello Rosario Riccobono, che l'imputato avrebbe favorito il legale incalza: «Riccobono è stato latitante solo dal luglio del '75 all'aprile del '77, e poi a partire dall'aprile '80. Nel periodo in cui, dunque, secondo alcuni pentiti, Contrada lo avrebbe informato di operazioni di polizia nei suoi confronti non era neppure ricercato, se non per notificargli una banale misura di prevenzione». Un ultimo attacco alla tesi del porto d'armi di Stefano Bontate: «In questo processo noi alle parole abbiamo sempre contrapposto i documenti. E questi ci dicono che Bontate non aveva il porto d'armi, né quello di pistola né quello di fucile. Per quello di pistola ci da ragione pure la sentenza, che fa notare che Bontate aveva un'arma con la matricola abrasa. Ma la stessa sentenza non può dirci che è verosimile che avesse il porto d'armi per il fucile e che è dunque possibile che sia stato Contrada a darglielo solo perché, secondo prassi, la documentazione è andata al macero e non se ne trova traccia nel fascicolo "a seconda". Tutto questo è assurdo». Il 4 maggio 2001, nella sua ultima, addolorata deposizione spontanea, resa di fronte alla seconda sezione della corte d'appello presieduta da Gioacchino Agnello l'imputato si confessa: «Mi preoccupa che mi venga tolta l'unica cosa che mi è rimasta e a cui tengo di più. Il mio onore di uomo dello Stato». Alle 19 e 43 dello stesso giorno nell'aula del Pagliarelli, già teatro del proscioglimento di Giulio Andreotti (ricordiamo quest’ultimo è stato assolto, secondo l’art. 530/2 "per insufficienza di prove" a differenza di Contrada, che è stato assolto con formula piena, secondo l’art. 530, "perché il fatto non sussiste". Il presidente Agnello è ora chiamato a spiegare al popolo italiano la motivazione di questa scelta tramite sentenza), Bruno Contrada viene assolto con formula piena. In quelle quattro righe pronunciate dal presidente Agnello il riproporsi di un copione già visto, forse troppe volte, negli ultimi anni e poi uno scrosciare di applausi e tanta, tanta commozione. In una tenera immagine ormai consegnata alla storia l'avvocato Pietro Miglio abbraccia, in lacrime, il suo assistito. Ma tanta gioia in fondo è giustificata: non è da tutti riuscire a trasformare una sentenza a dieci anni di reclusione in una assoluzione con formula piena, soprattutto se si tiene conto che gli elementi presentati nel processo d'appello sono gli stessi che in primo grado avevano portato alla condanna. Magari anche con qualche testimone in più. Avevano quindi preso il proverbiale granchio Boris Giuliano, Beppe Montana, Ninni Cassarà, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino nel dubitare di lui, così come tutti quelli che lo accusavano di favoreggiamento mentre i suoi più cari colleghi cadevano sotto i colpi della lupara mafiosa. «Ho sempre avuto fiducia nei giudici. Ho detto giudici non magistrati - ha dichiarato Contrada al termine di un incubo durato nove anni - ed avevo la certezza, non solo la speranza, che mi avrebbero restituito l'onore. Per me e per i miei figli». E siccome all'origine del suo calvario non ci fu soltanto un errore giudiziario ma qualcosa che «va ben al di là» Contrada preannuncia la resa dei conti e attacca gli investigatori che hanno indagato su di lui, in particolar modo l'ex capo della Dia e attuale capo della Polizia: «Io non ho mai avuto rapporti buoni con Gianni De Gennaro. E quando i pentiti sono passati dall'Alto Commissariato alla Dia io sono stato massacrato». Chiede ai giudici di indagare sulle persone che in aula lo hanno accusato così come il Pm aveva fatto «per una trentina di testimoni a mio favore», tra i quali il prefetto De Francesco e il generale Mario Mori e risponde ai giornalisti. «E' tentato dall'avventura politica?», gli domanda Felice Cavallaro in un'intervista pubblicata sul Corriere della Sera. E un’ultima, piccola bugia: «Non ho mai indossato casacche politiche, né mi presterò ad alcuna strumentalizzazione». Oggi è candidato per un seggio all'Assemblea siciliana nelle file di An, "da indipendente".

La sentenza di condanna del processo di primo grado

Per comprendere in ordine a quali principi il presidente Ingargiola si è arrischiato a condannare Contrada non si può prescindere dall’esaminare preliminarmente la modalità di valutazione delle dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia e dai numerosi testimoni.
La corte ha ritenuto valide a tutti gli effetti le "chiamate plurime" di correità, vale a dire quelle dichiarazioni accusatorie provenienti da una pluralità di soggetti che laddove "siano convergenti verso lo stesso significato probatorio, ciascuna conferisce all’altra quell’apporto esterno di sinergia indiziaria, la quale partecipa alla verifica sull’attendibilità estrinseca della fonte di prova". In particolare per i collaboratori di giustizia la Suprema Corte, riferendosi a precedenti sentenze di Cassazione, ha ritenuto che "la eventuale sussistenza di «smagliature o discrasie», anche di un certo peso, rilevabili tanto all’interno di dette dichiarazioni quanto nel confronto tra esse, non implica, di per sé, il venir meno della loro sostanziale affidabilità quando, sulla base di adeguata motivazione, risulti dimostrata la complessiva convergenza di esse nei rispettivi nuclei fondamentali". Inoltre per quanto riguarda specificamente la valutazione della prova orale costituita da dichiarazioni di soggetti imputati o indagati per lo stesso reato o per reati connessi interprobatoriamente collegati, non sono assimilabili a pure e semplici dichiarazioni de relato quelle con le quali si riferisca in ordine a fatti o circostanze attinenti la vita e l’attività di un sodalizio criminoso dei quali il dichiarante sia venuto a conoscenza nella qualità di aderente, in posizione di vertice, al medesimo sodalizio, specie quando questo sia caratterizzato da un patrimonio conoscitivo derivante da un flusso circolare di informazioni dello stesso genere di quello che si produce, di regola, in ogni organismo associativo, relativamente ai fatti di interesse comune".

Le prove fornite dai collaboratori di giustizia

"Io ho il dott. Contrada, che mi avviserà se ci sono perquisizioni o ricerche di latitanti in questa zona, quindi qua potrai stare sicuro". E’ quanto Rosario Riccobono, boss di Partanna-Mondello avrebbe riferito, nei primi anni ’80, al collaboratore di giustizia Tommaso Buscetta. A rivelarlo è lo stesso Buscetta al processo di primo grado contro Bruno Contrada, nel corso del quale è stato chiamato a testimoniare insieme ad altri nove pentiti, tutti concordi nel riferire che l’imputato agevolava l’organizzazione criminale Cosa Nostra e che aveva intrattenuto rapporti con diversi mafiosi. Tra i quali spiccano Rosario Riccobono e Stefano Bontate chiamati in causa, oltre che da Buscetta, da Gaspare Mutolo, Francesco Marino Mannoia, Salvatore Cancemi, Rosario Spatola e Maurizio Pirrone. A proposito di Contrada Buscetta, come riportato in sentenza, parlò per la prima volta con il giudice Falcone già all’inizio della propria collaborazione, nel 1984, ma solo perché sollecitato dal magistrato che intendeva verbalizzare alcune informazioni emerse da un colloquio informale. All’epoca, infatti, il collaborante era mosso dalla convinzione che parlare dei rapporti dei quali era a conoscenza tra mondo politico, istituzionale e mafioso avrebbe portato ad una sua totale delegittimazione e quindi preferì non toccare l’argomento fino al 25/11/1992 quando, in seguito alle stragi nelle quali avevano trovato la morte i giudici Falcone e Borsellino, riteneva che l’Italia fosse più pronta a credere all’esistenza di tali legami. L’attendibilità di questa e delle altre dichiarazioni rese del Buscetta è più che provata negli atti del cosiddetto primo maxi processo oltre che dalla testimonianza resa in dibattimento dal giudice Antonino Caponnetto il quale conferma la riluttanza provata al tempo dal collaboratore a verbalizzare nomi di uomini della Questura di Palermo collusi con la mafia, nonchéquelli di politici o uomini delle istituzioni. Anche il pentito Rosario Spatola, rispetto all’epoca di inizio della sua collaborazione (19/9/’89) ha reso in ritardo le notizie riguardanti il Contrada (16/12/’92) anche se per motivazioni differenti rispetto al Buscetta. Egli, infatti, aveva deciso di ricorrere all’Autorità Giudiziaria perché temeva per la propria vita e ai primi di novembre del 1989 era stato portato a Roma dall’Alto Commissario, il dott. De Luca, che aveva espresso il desiderio di conoscerlo. Mentre si trovava nell’ufficio del De Luca alla presenza di alcuni funzionari tra i quali un certo Gianni (il 28/3/’95 il M.llo Ciavattini conferma di aver assistito lo Spatola nei suoi spostamenti nella zona di Roma e di essersi presentato con lo pseudonimo di Gianni) si incontrò con il dott. D’Antone che egli aveva saputo essere a disposizione di Cosa Nostra e molto legato al dott. Contrada. A causa di tale incontro, come riportato nella motivazione della sentenza, lo Spatola ha dichiarato che "non si era più sentito sicuro e aveva pensato che, trattandosi di personaggi èintoccabili’, sarebbe stato più opportuno non riferire, nell’immediato, le notizie che aveva appreso nel corso della sua militanza nei confronti di costoro per paura di crearsi un doppio fronte di nemici: da un lato la mafia, che aveva già decretato la sua condanna a morte, e dall’altro ègli intoccabili’ all’interno delle istituzioni collusi con la stessa organizzazione criminale". Le notizie riferite da Spatola circa la collusione tra il dott. D’Antone e Cosa Nostra trovano riscontro nelle dichiarazioni convergenti rese da Salvatore Cancemi e nelle deposizioni dei testi Laura Iacovoni, Saverio Montalbano, Margherita Pluchino, Raimondo Cerami, Donato Santi. Quest’ultimo rivela che l’operazione di Polizia denominata "Hotel Costa Verde" fallì perché il dott. D’Antone modificò le originarie modalità di intervento programmate dai dott.ri Cassarà e Montana. Le pesanti accuse mosse all’allora dirigente della Squadra Mobile di Palermo trovano conferma nelle dichiarazioni di un altro testimone, Raimondo Cerami, magistrato impegnato nelle indagini sugli omicidi del commissario Montana e del vice-questore Cassarà. La moglie di quest’ultimo, anch’essa chiamata a deporre, ha riferito delle serie diffidenze che il marito "dopo un primo periodo di permanenza a Palermo, aveva cominciato a nutrire sia nei confronti dell’odierno imputato che nei confronti del dott. D’Antone, che il marito definiva èuomo di Contrada’, ed al quale nascondeva nonostante fosse il suo dirigente le notizie in merito alle sue indagini, che conduceva segretamente e con l’ausilio di pochi fidati collaboratori soprattutto in materia di ricerca di latitanti". Simili le dichiarazioni di Margherita Pluchino, ispettore capo di Polizia dei dott.ri Cassarà e Montana nel periodo in cui questi furono rispettivamente dirigente e vicedirigente della V sezione Investigativa della Squadra Mobile. I due avevano "serie diffidenze" nei confronti sia di D’Antone che di Contrada in merito allo svolgimento del loro lavoro e in particolare nel campo della ricerca dei latitanti. Sempre di un’operazione fallita a causa dell’intervento del dott. D’Antone parla Saverio Montalbano. Ad andare a monte questa volta la cattura dei latitanti mafiosi Lorenzo e Gaetano Tinnirello e non fu un caso isolato, incalza Montalbano, poiché in quel periodo D’Antone "pur essendo dirigente della Criminalpol, spesso interveniva in materia di cattura di latitanti èscavalcando’ il dirigente della Squadra Mobile dott. Nicchi". (Tali informazioni dimostrano la genuinità di quanto raccontato dai collaboratori Mutolo, Mannoia, Buscetta, Marchese e Spatola). Il collaboratore Giuseppe Marchese, appartenente ad una famiglia storica di Cosa Nostra da generazioni affiliata alla potente "cosca di Corso dei Mille" (facente parte del mandamento di Ciaculli), dichiara che agli inizi del 1981, nella tenuta di Favarella di Michele Greco, frequentata da persone autorevoli poiché Greco Salvatore era iscritto alla massoneria - da ciò si evince, come ha riferito anche Spatola, come Cosa Nostra intendesse accrescere il proprio potere per mezzo della massoneria - lo zio Marchese Filippo, in seguito ad una riunione con Michele e Salvatore Greco "il senatore", e Pino Greco, gli aveva detto di avvisare Riina, all’epoca latitante, che il dott. Contrada aveva fatto sapere che forze di polizia avevano individuato la località in cui il latitante si trovava e si apprestavano a fare "qualche perquisizione". Senza chiedere alcuna spiegazione, sintomo che la fonte dalla quale proveniva l’informazione era pienamente affidabile, Riina aveva abbandonato l’abitazione e si era recato a San Giuseppe Jato. All’epoca il collaborante non sapeva chi fosse Contrada e lo comprese solo successivamente, in occasione di altre notizie fatte avere dallo stesso Contrada allo zio Marchese Filippo tramite i Greco, suoi referenti in seguito all’avvento dei corleonesi (secondo le dichiarazioni di Cancemi e dello stesso Marchese). Seppe anche che Greco detto "il senatore" aveva contatti con persone influenti ed era massone mentre nell’ambito del primo maxi processo Michele Greco, detto "il papa" era stato indicato come capo della commissione provinciale di Cosa Nostra. Ma il riscontro più significativo è sicuramente quello relativo ad una relazione di servizio risalente al 5.9.1981 allegata al rapporto firmato dal dott. D’Antone riguardante la scomparsa di Tagliavia Gioacchino un pregiudicato che si era sottratto al regime della sorveglianza speciale. Nel documento è riportato il testo della seguente telefonata anonima: "Senta, mi stia a sentire, per la scomparsa di Ginetto Tagliavia, il nipote di Pietro Tagliavia, quello che ha la pescheria a S. Erasmo, gli autori sono: Giuseppe Calamia, Filippo Marchese ed i fratelli Pietro e Carmelo Zanca". In aula il Contrada riferisce di non sapere nulla della telefonata che, essendo l’unico elemento investigativo emerso nelle indagini in oggetto ed essendo stato ritenuto particolarmente significativo ed attendibile dagli inquirenti dell’epoca doveva essergli sicuramente stato trasmesso. L’apparente incompatibilità delle informazioni riferite dal Marchese con l’attività d’indagine svolta dal Contrada nei confronti del gruppo Marchese viene spiegata nel seguente modo: poco prima del suo assassinio il dirigente della Squadra Mobile Boris Giuliano aveva colpito il punto più vitale dell’organizzazione, quello facente capo ai corleonesi in particolare per le indagini relative ad una rapina avvenuta nella sede della cassa di Risparmio di via Mariano Stabile, dove aveva trovato la morte il metronotte Sgroi, e che vedeva coinvolti i Greco e i Marchese. Nel corso di tali indagini era stato scoperto il covo di via Pecori Giraldi che aveva permesso l’individuazione di Leoluca Bagarella in collegamento con Marchese Antonino e Gioè Antonino, arrestati nell’ambito della stessa inchiesta, e con i fratelli Di Carlo sui quali avevano svolto indagini i carabinieri e in particolare il capitano Basile. Le loro ricerche erano giunte a "ulteriori risultati investigativi a carico del medesimo aggregato criminale già individuato dalla Squadra Mobile del dott. Giuliano". Le brillanti indagini condotte da Giuliano e Basile non potevano che portare ad un intervento del dott. Contrada che se si fosse astenuto dal farlo avrebbe destato sicuri sospetti.
Secondo quanto emerso dalle dichiarazioni dei collaboranti Francesco Marino Mannoia e Salvatore Cancemi, inoltre, tra il 1979 e il 1980 Contrada si sarebbe interessato per la patente di Stefano Bontate. Nel corso dell’udienza del 5.5.’95 il questore Epifanio, afferma che di norma in caso di soggetti indiziati mafiosi va valutata la possibilità di un abuso del documento abilitativo alla guida ma che nel caso specifico il problema non si era posto. La questura si era infatti limitata a verificare se la patente fosse "mezzo necessario" di lavoro. Il Bontate riuscì ad ottenerla (e successivamente a mantenerla a causa di una singolare inerzia degli uffici della Questura che in seguito ad un periodo di prova avrebbero dovuto procedere a nuove verifiche) in un periodo compatibile con la data in cui i due collaboratori di giustizia erano venuti a conoscenza del fatto "ed in un contesto in cui il dott. Contrada, dirigente della Criminalpol, era il funzionario di maggior rilievo all’interno della Questura, quel èpunto di riferimento’ da molti testi indicato ed i cui «consigli» e «suggerimenti» erano sempre ascoltati, il funzionario che più di ogni altro godeva la stima e la fiducia del Prefetto Di Giovanni e del Questore Epifanio". Stessa procedura per Giuseppe Greco di Ciaculli, per il quale la Questura aveva chiesto al Iê Distretto di Polizia se il soggetto avesse necessità del documento per svolgere la propria attività lavorativa. Anche in questo caso Cancemi e Mannoia rivelano un interessamento del dott. Contrada. Interessamento che si estenderebbe anche ai porti d’arma per Stefano Bontate, come rivelato da Cancemi e per i fratelli Caro, come rivelato da Rosario Spatola. Gaspare Mutolo della famiglia di Partanna-Mondello - il quale ha fornito le prime informazioni circa la presunta azione di avallo e di appoggio da parte del dott. Contrada a Cosa Nostra - rivela che il suo capo mandamento Saro Riccobono, conoscendo la sua passione per le auto di grossa cilindrata, gli aveva raccomandato, per qualsiasi eventuale problema con la Questura, di chiedere del dott. Contrada. Mutolo fa inoltre riferimento a Falcone e a Borsellino, ai quali aveva rilasciato le proprie dichiarazioni, sostenendo che entrambi i magistrati sapevano ed avevano espresso la propria mancanza di fiducia nei confronti dell’alto funzionario. Egli riferisce ancora che per ben tre volte Riccobono, grazie alle "soffiate" di Contrada, era riuscito ad evitare imminenti operazioni di polizia a suo danno e che i due si erano conosciuti tramite Bontate. L’incontro tra Contrada e Cassina sarebbe avvenuto all’interno della loggia massonica dell’ordine dei Cavalieri del Santo Sepolcro, mentre il sodalizio dell’imprenditore con Cosa Nostra sarebbe stato rafforzato dall’impiego di alcuni uomini d’onore presso le sue imprese, tra i quali Teresi, sottocapo di Santa Maria del Gesù, mandamento che faceva capo a Bontate.
Citiamo, infine, il contenuto delle deposizioni del pentito Pietro Scavuzzo della famiglia mafiosa di Vita, in provincia di Trapani. Nei primi mesi del 1991 lo Scavuzzo aveva prelevato un’anfora presso la casa del proprio capo mandamento Tamburello Salvatore la quale doveva essere esaminata da parte di un esperto giunto dalla Svizzera per valutare l’oggetto di proprietà di Francesco Messina Denaro. Insieme a Calogero Musso si era recato in auto presso il Motel Agip sulla circonvallazione di Palermo e li si era incontrato con Mazara Pietro (uomo di fiducia dello Scavuzzo non formalmente affiliato a Cosa Nostra) e il tecnico svizzero, entrambi a bordo di un’altra automobile. I quattro erano diretti in una palazzina situata nei pressi dell’Hotel "Delle Palme". Ad aspettarli una donna e un uomo, che successivamente il collaborante scoprì essere Contrada. L’uomo si appartò per parlare con Musso, che evidentemente conosceva da tempo, mentre l’esperto esaminava il reperto archeologico attribuendogli grande valore. Il Tamburello aveva in seguito rivelato allo Scavuzzo che l’anfora era stata donata da Francesco Messina Denaro al dott. Messineo, messo a conoscenza dell’oggetto dallo stesso Contrada. Quest’ultimo, concludendo è detentore di un’anfora antica, probabilmente di epoca romana.
A riprova di quanto dichiarato, tutti i collaboratori di giustizia chiamati a deporre hanno avuto modo di fornire innumerevoli riscontri di riferimento accolti in pienezza dalla Corte che nel testo della motivazione della sentenza di primo grado si è dilungata per spiegare dettagliatamente la attendibilità sia intrinseca che estrinseca delle testimonianze rese. In buona parte dei casi poi, contrariamente a quanto denunciato da Contrada, le dichiarazioni rilasciate dai pentiti non possono essere frutto di un sentimento di vendetta dal momento che il Contrada non si era occupato di loro in maniera specifica. Non risulta altresì corretta l’affermazione «state prendendo per buone le accuse degli uomini che io ho combattuto durante la mia carriera» poiché non solo dagli ambienti mafiosi giunge la conferma della collusione dell’imputato con Cosa Nostra.

Le prove fornite dai testimoni e le intercettazioni telefoniche

Abbiamo già avuto modo di riscontrare il sentimento di diffidenza che alcuni colleghi di Contrada avevano manifestato nei confronti dell’imputato. La moglie del dirigente della Squadra mobile di Palermo dott. Cassarà racconta di avere reiteratamente accolto gli sfoghi del marito circa la figura del Contrada e in ciò è stata avallata dai testi Vincenzo Immordino, ex questore di Palermo, Francesco Forleo, già segretario del sindacato di Polizia Silup a cui aveva aderito l’amico Cassarà e dott. Montalbano, dirigente della Squadra mobile di Trapani. Quest’ultimo, tra l’altro, riferisce che in epoca precedente il suo trasferimento a Palermo, in occasione di una perquisizione eseguita presso il "Circolo Scontrino - Loggia Iside 2", aveva avuto modo di rinvenire nel cassetto personale del Gran Maestro una copia della rivista "I Siciliani" del novembre 1985 in cui si diceva che il dott. Cassarà, prima di morire, stava svolgendo alcune indagini sui Cassina e sul predetto ordine cavalleresco, di cui faceva parte anche il dott. Contrada. Non appena giunto a Palermo venne poi a sapere dall’agente Natale Mondo (uomo fidato di Cassarà, anch’egli tragicamente assassinato) di "diffidenze molto serie" che sia il dott. Montana che il dott. Cassarà avevano sul conto dei dott.ri Contrada e D’Antone, versione confermata anche dalla dottoressa Margherita Pluchino anch’essa parte della squadra di Cassarà, Mondo e Antiochia, rimasto ucciso nell’agguato mafioso teso a Cassarà. Montalbano precisa inoltre che, riferendosi ai poliziotti sopracitati, "addirittura mi dicevano entrambi che ciò faceva sì che all’epoca i due funzionari, Cassarà e Montana, operassero anche loro in tema di ricerca latitanti sostanzialmente di nascosto, come poi, mio malgrado, mi trovai costretto a fare anch’io". Anche il consulente dell’Fbi e della Dea Charles Tripodi testimonia il dubbio nutrito, questa volta da Boris Giuliano, nei confronti del dott. Contrada. Tripodi, legato a Giuliano da un profondo rapporto di amicizia e di fiducia, svolgeva indagini sotto copertura quando il Giuliano gli suggerì di ritirarsi poiché una talpa interna aveva svelato la sua identità. Interessante la sua dichiarazione in merito al fatto che solo pochissimi funzionari erano al corrente dell’operazione e tra questi il dott. Contrada. Charles Tripodi ha inoltre testimoniato circa l’attendibilità di un incontro avvenuto tra il Giuliano e il Commissario liquidatore della Banca Privata Italiana di Michele Sindona avv. Ambrosoli, pochi giorni prima che questi fosse assassinato. Numerosi testimoni, tra i quali uno oculare e la moglie dello stesso Giuliano, hanno confermato la versione dell’incontro il quale si sarebbe verificato nell’ambito delle indagini circa il falso sequestro inscenato dal bancarottiere Michele Sindona fuggito dagli Stati Uniti perché accusato di bancarotta fraudolenta. Nel periodo in questione, accertato il collegamento del Sindona con ambienti malavitosi siciliani e massonici, si è verificata la presenza in Italia del mafioso italo-americano John Gambino, esponente di spicco della famiglia Gambino il cui padre Charles era indicato come uno dei capi di Cosa Nostra americana. Individuatolo a Palermo presso il Motel Agip il teste Antonio De Luca lo aveva fermato, interrogato e perquisito. DopodichÈ aveva rintracciato il Contrada chiedendogli di trovare un pretesto per poterlo arrestare ed evitare che si desse alla fuga. Contrada però rispose che il giudice istruttore Ferdinando Imposimato, titolare dell’inchiesta, non aveva elementi sufficienti per poterlo trarre in arresto, cosa che lo stesso Imposimato smentì categoricamente anche perché, come riferisce il Giudice Istruttore, "egli non avrebbe in alcun modo potuto dare disposizioni su tale materia che rientrava nella competenza del dott. Sica, pm titolare dell’azione penale nell’inchiesta in oggetto". La fuga del Gambino si rivelò decisiva ai fini dell’espatrio dello stesso Sindona il 13 ottobre 1979. Interessante a questo punto ricordare che al commissario capo di Pubblica Sicurezza Renato Gentile il dottor Contrada avrebbe detto che "determinati personaggi mafiosi hanno allacciamenti con l’America per cui noi, organi di polizia, non siamo che polvere di fronte a questa grande organizzazione mafiosa. Hai visto che fine ha fatto Giuliano?". Tale colloquio è stato riportato da Gentile, su suggerimento del suo superiore, il dott. Impallomeni, in una relazione stesa il 14/4/1980 nella quale il commissario capo scriveva che la sera del 12/4/1980 era stato fermato dal dott. Contrada il quale gli aveva fatto presente di aver avuto lamentele da parte dei capi-mafia circa la sua metodologia nel condurre le perquisizioni presso le abitazioni dei mafiosi. Pochi giorni prima, infatti, il commissario Gentile aveva eseguito un’operazione di quel tipo nell’abitazione di Salvatore Inzerillo e l’avvocato del boss mafioso Cristofaro Fileccia, aveva riferito a Contrada che il suo cliente lamentava un comportamento poco corretto con la moglie e le figlie da parte degli uomini della polizia. Aveva pertanto richiesto al suo legale di riferire le sue rimostranze direttamente al dott. Contrada, anche se non era lui il responsabile diretto dell’operazione avvenuta in quanto da alcuni mesi dirigeva la Criminalpol e non si occupava più della Squadra Mobile. Un’altra dichiarazione decisamente compromettente è quella rilasciata dall’imputato a Gilda Ziino, vedova dell’ingegnere Roberto Parisi, già presidente della società I.C.E.M. e della "Palermo Calcio" ucciso a colpi di pistola in un agguato di stampo mafioso. Il giorno dell’assassinio, la donna era rientrata da poco nella sua abitazione dall’ospedale dove non aveva ancora avuto modo di vedere la salma del marito. Il dott. Contrada si era presentato alla sua porta chiedendole un colloquio riservato e dopo essersi recati nello studio sito al piano inferiore le disse "con fermezza che qualunque cosa io potessi sapere che riguardava la morte di Roberto dovevo stare zitta, non parlarne con nessuno e ricordarmi che avevo una figlia piccolaÖ mi disse solo queste testuali parole". "Sorpresa e intimorita" la signora, una volta che il Contrada se ne fu andato, riferì dell’accaduto al suo avvocato prof. Alfredo Galasso il quale a sua volta ebbe modo di riferirlo al giudice istruttore Falcone con il quale poi ebbe un incontro in assoluta riservatezza un sabato pomeriggio all’interno del Palazzo di Giustizia. La domenica immediatamente successiva "il dott. Contrada ha suonato al campanello di casa mia, io ho aperto, l’ho fatto accomodare, naturalmente la mia emozione fu tale, mi sono seduta e mi ha chiesto subito, immediatamente, - signora lei ha avuto un incontro con il dottor Falcone?...Io negai". Allo stesso modo la signora Gilda Ziino informò immediatamente l’avvocato Galasso che non trovando il dottor Falcone, pregò il suo stretto collaboratore Ayala di farlo in sua vece. La tesi presentata dalla signora Ziino, è stata confermata da tutti i professionisti, mentre la difesa che pretendeva di ricondurre a semplici raccomandazioni le parole di Contrada e negava il secondo incontro è stata rigettata dalla Corte.
Passando ad altro argomento approfondiamo l’assunto dell’intercettazione telefonica tra l’imputato e Nino Salvo già precedentemente citato. In seguito all’avvenuta informazione attraverso notizie di stampa di essere stato indicato insieme al cugino Ignazio quale possibile mandante dell’omicidio Chinnici, Antonino Salvo si era voluto mettere immediatamente in contatto con il capitano dei Carabinieri Angiolo Pellegrini e con il dottor Contrada affinchÈ segnalasse al proprio superiore, dott. De Francesco, che egli si riteneva vittima di una congiura politica.
Precisando che il dottor Chinnici, prima di essere ucciso gli aveva personalmente comunicato che stava per emettere mandati di cattura nei confronti dei cugini Salvo, il funzionario Pellegrini, a conoscenza del procedimento penale aperto a carico di Salvo dal giudice Falcone non aveva ritenuto opportuno incontrarlo informando tempestivamente lo stesso Falcone. Solo in un secondo momento dopo le reiterate richieste del colonnello Frasca, suo superiore, aveva accettato l’incontro inviando pronta relazione al predetto giudice. Procedura non condivisa da Contrada che invece dopo aver parlato telefonicamente con il sospettato, dalla cui intercettazione la Corte ha evinto un rapporto di tipo piuttosto confidenziale, lo avrebbe incontrato senza nulla riferire al dottor Falcone che in un successivo momento avrebbe ironicamente dichiarato "ancora aspetto quella telefonata".

La fuga di Oliviero Tognoli

In ultimo, ma non per ordine di importanza, ripercorriamo in sintesi la vicenda, anche questa sopra citata, dell’agevolazione che il Contrada avrebbe dato alla fuga dall’Italia di Oliviero Tognoli, condannato per associazione a delinquere finalizzata al traffico internazionale di stupefacenti, aggravato per aver agito con la qualifica di capo ed in concorso con un numero di persone superiore a dieci, tra le quali numerosi esponenti di Cosa Nostra. Il 12 ottobre 1988 si costituì alle autorità elvetiche dove venne interrogato dalla dottoressa Carla Del Ponte e dai giudici italiani Giovanni Falcone e Giuseppe Ayala in ambito di una rogatoria internazionale inerente all’indagine "pizza connection". Circa la sua fuga dall’Italia, il collaboratore aveva dichiarato al Commissario Gioia di essere stato avvertito dell’ordine di cattura da un "suo pari grado" che il commissario ha dedotto essere un funzionario di polizia italiano. Immediatamente ne ha dato avviso alla dottoressa Del Ponte che a sua volta ha tempestivamente informato il giudice Falcone. Al termine di un interrogatorio svolto dalla dott.ssa Del Ponte, il dott. Falcone aveva riferito che il Tognoli, nel corso di un colloquio informale cui aveva assistito anche il magistrato elvetico, aveva ammesso che il funzionario di polizia che lo aveva informato era Bruno Contrada. Tognoli non aveva voluto mettere la dichiarazione a verbale, per tanto il giudice Falcone aveva pregato i colleghi svizzeri di convincerlo ad ufficializzare quanto detto nel corso delle successive escussioni. Nella sua deposizione al processo Contrada la Del Ponte ha dichiarato di non essere riuscita a convincere il collaboratore che non ha mai negato di aver assentito alla diretta domanda del giudice Falcone- "E’ Stato Contrada?" "Sì"- dialogo al quale aveva assistito la dottoressa in persona, ma si rifiutava di parlarne perché "manifestava questa grande paura, questo terrore. Mi diceva, Dott.ssa Del Ponte, lei non sa cosa vuol dire, perché sono potenti, questa mafia è potente". Solo successivamente il Tognoli aveva riferito di essere stato avvertito del mandato di cattura da un suo compagno di scuola, il De Paola e poi dal fratello che lo avrebbe chiamato all’hotel "Ponte" di Palermo in seguito alla perquisizione della casa di Brescia. I riscontri portati dalla difesa non solo non hanno convinto la giuria, ma si sono rivelati contraddittori in più punti. Le dichiarazioni della dottoressa del Ponte invece sono state riscontrate e confermate anche dalla deposizione del giudice Ayala. Da sottolineare che Falcone, memore di quanto detto da Mutolo, ha posto una domanda diretta a dimostrare che aveva una precisa idea su chi fosse stato l’informatore di Tognoli.
Queste, in sintesi, le prove inoppugnabili, contenute nelle circa 1750 pagine di motivazione della sentenza di primo grado, della colpevolezza del dott. Bruno Contrada. Per un comune cittadino la sentenza di appello avrebbe sicuramente confermato la condanna ma per i potenti e per i loro adepti e funzionari non funziona così. Qualcuno ha detto che spesso nel nostro Paese la giustizia è debole con i forti e forte con i deboli e, purtroppo, la realtà dei fatti dimostra tale affermazione.
La sentenza d’appello che assolve Contrada, sommata alle altre assoluzioni "eccellenti" (Musotto, Andreotti, Carnevale ecc.), rappresenta un segnale molto rassicurante per la "mafia invisibile". E infine non è da sottovalutare la notizia dell’ultima ora che riporta la condanna ad un anno di reclusione per falsa testimonianza della figlia del boss Riccobono che aveva ritrattato la sua prima dichiarazione in cui accusava Contrada di "andare a braccetto con il padre".

Ps: Ove non ci siano ulteriori indicazioni, le citazioni evidenziate e comprese tra virgolette sono tratte dal testo della motivazione della sentenza di primo grado.

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