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Psicoanalisi applicata alla Medicina, Pedagogia, Sociologia, Letteratura ed Arte

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     "DISCUSSIONI CONTROVERSE CONTEMPORANEE, INTERSOGGETTIVITà ED IL FUTURO DELLA PSICOANALISI"

 

 

 

 di Helmut Thomä

 

 

Helmut Thomä, psicoanalista e già presidente dell'Associazione psicoanalitca tedesca, ha diretto il Dipartimento di Psicoterapia dell'Università di Ulm e l'Istituto psicoanalitico della stessa città. Nato a Stoccarda, iniziò la sua carriera accademica nel 1950 alla Clinica Universitaria dei Disturbi Psicosomatici di Heidelberg come collaboratore di Alexander Mitscherlich e, in seguito, si è formato all'Università di Yale come anche a Londra con Michael Balint. Tra i suoi interessi, ricordiamo la psicosomatica e la ricerca in psichiatria. Tra le sue numerose pubblicazioni, ricordiamo il "Trattato di psicoterapia psicoanalitica", curato con Horst Kächele ed in Italia pubblicato da Bollati Boringhieri.

Questo articolo è stato originariamente presentato al Congresso dell'I.P.A. di Berlino nel luglio 2007. La traduzione in italiano è di Giuseppe Leo.

 


Nella foto: a sinistra Helmut Thomä e, a destra, Horst Kächele

            

 

 

  

 

Rivista "Frenis Zero" - ISSN: 2037-1853

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EDIZIONI FRENIS ZERO

 "Psicologia dell'antisemitismo" di Imre Hermann

Author:Imre Hermann

Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero 

ISBN: 978-88-903710-3-5

Anno/Year: 2011

Pages: 158

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"Id-entità mediterranee. Psicoanalisi e luoghi della memoria" a cura di Giuseppe Leo (editor)

Writings by: J. Altounian, S. Amati Sas, M. Avakian, W. Bohleber, M. Breccia, A. Coen, A. Cusin, G. Dana, J. Deutsch, S. Fizzarotti Selvaggi, Y. Gampel, H. Halberstadt-Freud, N. Janigro, R. Kaës, G. Leo, M. Maisetti, F. Mazzei, M. Ritter, C. Trono, S. Varvin e H.-J. Wirth

Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero

ISBN: 978-88-903710-2-8

Anno/Year: 2010

Pages: 520

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"Vite soffiate. I vinti della psicoanalisi" di Giuseppe Leo 

Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero

ISBN: 978-88-903710-0-4

Anno/Year: 2008

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"La Psicoanalisi e i suoi confini" edited by Giuseppe Leo

Writings by: J. Altounian, P. Fonagy, G.O. Gabbard, J.S. Grotstein, R.D. Hinshelwood, J.P. Jiménez, O.F. Kernberg, S. Resnik

Editore/Publisher: Astrolabio Ubaldini

ISBN: 978-88-340155-7-5

Anno/Year: 2009

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"La Psicoanalisi. Intrecci Paesaggi Confini" 

Edited by S. Fizzarotti Selvaggi, G.Leo.

Writings by: Salomon Resnik, Mauro Mancia, Andreas Giannakoulas, Mario Rossi Monti, Santa Fizzarotti Selvaggi, Giuseppe Leo.

Publisher: Schena Editore

ISBN 88-8229-567-2

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Nel corso dei primi anni ’40 le storiche “discussioni controverse” (King e Steiner, 1991) tenutesi a Londra erano in gran parte basate su un fondamento ideologico. Anna Freud, Melanie Klein ed i  loro  sostenitori pretendevano di rappresentare, ognuno per la propria parte, i veri eredi dell’opera di Freud. Fortunatamente,  le argomentazioni portarono ad un compromesso che non sfociò nell’esclusione di persone o gruppi dall’Associazione Psicoanalitica Internazionale (I.P.A.). Per la prima volta nella storia della psicoanalisi, modelli davvero differenti vennero accettati  nello stesso istituto di “training”.  Ci volle qualche decennio prima che la perdita di un terreno comune venisse ufficialmente riconosciuta (Wallerstein, 1988; 1990). La pubblicazione di Casement “Who owns psychoanalysis?”(2004) fa luce sul fatto che la psicoanalisi non appartenga alla sola I.P.A.. Le idee di Freud sono parte della storia  culturale. La crisi  attuale, differente per  sua natura da quelle precedenti, non ha solo  il suo versante oscuro. Prima o poi tutte le scuole di psicoterapia faranno ancora varie scoperte psicoanalitiche, sebbene ciò possa accadere senza un riconoscimento universale. Come sappiamo tutti,  le crisi sono potenzialmente foriere di nuove possibilità. Spero che il mio contributo convalidi questo punto.

Benché il pluralismo  sia ampiamente accettato oggigiorno, le vecchie controversie continuano nelle  discussioni  controverse contemporanee. Al contempo, siamo testimoni di come si sviluppino “le vere controversie” – una designazione introdotta da Bernardi (2002) ed Eizirik (2006). Esse  crescono sul terreno psicoanalitico in quanto scienza umana. Il nostro metodo si espone ad un’adeguata convalida empirica delle sue basi e ad un’indagine della sua efficacia ed  efficienza. Spero che i nostri sforzi porteranno  ad una psicoanalisi  comparativa, ossia  ad un confronto  dei processi psicoanalitici di differenti scuole rispetto ai loro esiti. In breve, abbiamo due differenti controversie. Da una parte un discorso scientifico, che modernizzerà la psicoanalisi e potenzialmente trasformerà la crisi attuale in una direzione positiva. L’altra linea di argomentazioni può essere caratterizzata come dogmatica ed anti-scientifica, come lo erano  le discussioni controverse storiche. Esse non si preoccupavano di una responsabilità molto basilare che tutti noi abbiamo. Sono d’accordo con le affermazioni di Renik: <<… molti analisti non considerano l’analisi clinica in primo luogo come una terapia, come io invece ritengo, e non utilizzano l’esito terapeutico come la primaria variabile dipendente da seguire quando si mettono alla prova le ipotesi psicoanalitiche. Essi concettualizzano gli obiettivi ‘analitici’ come distinti da quelli ‘terapeutici’>> (Renik, 1998, p.495). Il processo clinico e la ricerca sugli esiti, che è stata al centro del mio lavoro per 45 anni, si confronta con le stesse argomentazioni  avanzate nella discussione tra Wallerstein e Green, Kernberg e Perron, Fonagy e Perron. Spesso, la ricerca empirica viene identificata in modo errato col modello della scienza naturale della cosiddetta unità della scienza e con l’empirismo a-teoretico nonché con un comportamentismo oramai datato. Molti analisti sono in contrasto con ogni ricerca e respingono il ragionamento scientifico di qualsiasi tipo. Green (2004), ad esempio, afferma che la scienza della psicoanalisi non esiste, ma solo il “pensiero psicoanalitico”. Non è un vuoto truismo il fatto che tutti gli analisti pensino analiticamente? La sezione “Psychoanalysis at work” all’interno dell’”International Journal” è una prova di ciò. La leggo regolarmente. Talora capisco il pensiero che sta dietro le descrizioni delle vignette cliniche. In genere, però, resto perplesso. Senza informazioni aggiuntive sulle categorie ed i criteri, il campo è aperto alla fantasia dei lettori circa le fantasie controtransferali dell’analista che cura. Spesso si legge più sul controtransfert dell’analista che sulle associazioni del paziente. Il pensiero analitico non può restare in uno spazio astratto, per così dire liberamente fluttuante a mezz’aria, ma dev’essere ancorato a concetti, da mettere alla prova, correlati a fenomeni psicologici.

Molte scuole psicoanalitiche partecipano ad uno sviluppo di vecchia data che si focalizza sulla relazione reciproca dell’intrapsichico con l’intersoggettivo. L’intersoggettività era il paradigma latente di Freud  (Altmeyer e Thomä, 2006). Questo è in definitiva il punto di svolta da un punto di vista monadico verso una prospettiva di una rete di relazioni intersoggettive: lo scambio permanente tra mondo interno di pensieri e sentimenti e la realtà del nostro ambiente umano porta alla formazione di strutture psichiche individuali.  Sebbene  questa  sia una conoscenza psicoanalitica molto vecchia, le conseguenze  che ciò implica per la situazione psicoanalitica sono  di una qualità nuova. La rigida comprensione della neutralità, ad esempio,  ha avuto come  risultato un atteggiamento del tutto impersonale. Non è significativo che P. Heiman (1978) solo alla fine della sua vita abbia intitolato un suo articolo “On the necessity for the analyst to be natural with his patient”? Un auto-svelamento all’interno di un modello intersoggettivo  non ha nulla a che vedere con delle confessioni personali. La relazione terapeutica resta asimmetrica. Ma il paziente, naturalmente, sa che il suo analista è un essere umano  e quindi emozionalmente coinvolto.  È stato un passo essenziale nel mio sviluppo professionale verso una psicoanalisi relazionale quando ho scoperto la qualità terapeutica di un mitigato auto-svelamento,  come è stato presentato da Winnicott (1949). Nella mia esperienza, tutti i pazienti  si sentono sollevati e soddisfatti quando io ammetto le mie reazioni affettive. I pazienti comprendono che il mio ruolo professionale e la mia conoscenza determinano una sorta di distanza, che attenua le mie reazioni emotive. In generale,  il nostro ruolo professionale e il nostro patrimonio di conoscenze riducono gli eccessi  emotivi. In altre parole, la psicoanalisi  sarebbe davvero una “professione impossibile” (Freud, 1937c).

Una gran parte  dei nostri attuali problemi è dovuta  al fatto che Freud  ha inventato un metodo che serve due padroni: la qualità intersoggettiva dello scambio e l’oggettività. Egli era ben consapevole del fatto che non c’è alcuna osservazione che sia libera da  teoria  (Freud, 1915c). Era  davvero naturale per lui far affidamento sulle scienze naturali  del suo tempo nel descrivere i fenomeni psicologici. Essendo all’inizio un ricercatore sperimentale, egli cercò di trasformare la situazione analitica intersoggettiva in una “situazione socialmente nulla” quasi-sperimentale, come de  Swaan (1980, p.405) l’ha chiamata dopo circa un secolo.  Un insieme  di regole, spesso espresse in metafore impressionanti,  è servito a questo scopo. Egli espresse la sua preoccupazione che “la terapia … distruggerà la scienza” (1927, p.254). Freud credeva  che con l’aiuto di un insieme di regole  rigorose e non tendenziose del trattamento egli sarebbe riuscito  ad assicurarsi i migliori prerequisiti possibili per  le ricostruzioni eziologiche. Inoltre, egli pensava di aver creato  le  migliori condizioni terapeutiche possibili per svelare i ricordi precoci rimossi. Questa congiunzione è espressa  nella sua famosa asserzione dello “junktim”, tradotto da Strachey come il “legame inscindibile” (“inseparable bond”) tra  “Heilen” (cura) e “Forschen”(ricerca). Faccio una citazione dapprima in tedesco, poiché le parole più importanti vengono generalmente omesse: <<… die  Erkenntnis brachte den Erfolg, man konnte nicht behandeln, ohne etwas Neues zu erfahren, man gewann keine Aufklärung, ohne ihre wohltätige Wirkung zu erleben. Unser analytisches Verfahren ist das einzige, bei dem dies kostbare Zusammentreffen gewahrt bleibt>> (Freud, 1927a, p.293: corsivo aggiunto). In inglese: <<In psychoanalysis, there has existed from the very first an inseparable bond between cure and research. Knowledge brought therapeutic success. It was impossible to treat a patient without learning something new: it was impossible to gain fresh insight without perceiving its beneficent results (wohltätige Wirkung). Our

analytic procedure is the only one in which this precious conjunction is assured. This prospect of scientific gain has been the proudest and happiest feature of analytic work>> (Freud, 1927a, p.256, corsivo aggiunto). Lo ripeto: il legame inscindibile dipende dalla convalida  del risultato positivo. Il filosofo ed analista Hanly ha recentemente studiato questo punto (Hanly, 2006). Ma io pongo una questione: fino a qual punto  la presunta  assenza  di scopi  e la non tendenziosità corrisponda a risultati  positivi determinati dall’influenza dell’analista grazie al suo metodo personificato. C’è un profondo paradosso nell’opera di Freud.

Gli effetti negativi di questo paradosso non risolto sono enormi. Gli analisti, che si identificano col metodo privo di qualsiasi  scopo, si illudono e di conseguenza illudono in buona fede i loro pazienti. Molti analisti hanno trascurato questa distruttiva auto-illusione per molti decenni. Proprio l’analizzare era il nucleo della loro identità professionale. Ci volle il coraggio del precedente presidente dell’I.P.A., Joseph Sandler, e della co-autrice  Anna  U. Dreher per affermare in modo franco: <<… l’analisi  è una terapia oppure  è una procedura  scientifica che ha come scopo semplicemente di analizzare, ma  che può essere  terapeutica in modo accessorio? La risposta a questa domanda ha profonde implicazioni per il futuro della psicoanalisi. Il nostro punto di vista, su ciò che ci è sembrato sempre più convincente durante la scrittura di questo libro, è che coloro che credono che lo scopo del metodo psicoanalitico non sia altro che analizzare, si stanno ingannando, e che tutti gli analisti sono influenzati nel loro lavoro da scopi terapeutici, che lo sappiano oppure no. Si vedrà che consideriamo come naif il punto di vista frequentemente  udito secondo cui in quanto analisti non abbiamo altro scopo nel nostro lavoro coi nostri pazienti se non quello di analizzare. Questa  visione implica che l’analista sia capace di liberarsi completamente di qualsiasi scopo terapeutico  nei riguardi del paziente, mantenendo unicamente l’obiettivo di perseguire un’analisi “incontaminata”>> (Sandler e Dreher, 1996, pp.1-2). Quando  neghiamo  che noi influenziamo i nostri pazienti mediante interpretazioni ed altri mezzi, neghiamo l’ovvio. Inoltre,  se cerchiamo di evitare suggerimenti, essi rientrano dalla porta di servizio. Possiamo addirittura dire tranquillamente con Strenger: <<Invece di eliminare le manipolazioni, si apre  la porta a manipolazioni nascoste>> (Strenger, 1995, p. 106). È questo il motivo per cui Strenger  ritiene di seppellire il mito della purezza delle nostre interpretazioni ed il motivo per cui egli sostiene  la nozione  che dobbiamo  pienamente riconoscere la “contaminazione” intersoggettiva del fenomeno clinico. La ricerca  sull’interazione psicoanalitica parte dalle  discussioni cliniche che distinguono tra varie forme di suggestione, ossia da una sorta  di decontaminazione.

Il motto del “solo analizzare” implica il mito dell’assenza di scopi. Secondo  le ricerche di Bott Spillius (1997), quasi tutti  i kleiniani contemporanei (con l’eccezione di Steiner) non perseguono alcun obiettivo. È questo un anti-movimento diretto contro una psicoanalisi che  mantiene la sua funzione di illuminazione nei tempi moderni. Questa funzione è di stimolo al progresso scientifico in un dialogo critico ed interdisciplinare. Al contempo, c’è una crescente insicurezza ed una profonda preoccupazione circa la perdita della preziosa saggezza accumulata in un secolo da parte di professionisti creativi. C’è una forte tendenza molto conservativa, chiamata fondamentalismo psicoanalitico, che è diretta contro l’intersoggettività. Siamo testimoni di un “revival” della pratica di bandire nuovi sviluppi considerandoli delle deviazioni dalla “vera” psicoanalisi. Hanna Segal  (2006), ad esempio, accusa addirittura  il “British Middle Group”, attualmente chiamato gruppo degli “Indipendenti”, di aver cessato  di investigare la verità psicoanalitica. <<In ulteriori sviluppi, il “Middle Group”, che ha cambiato il suo nome in “Indipendenti”, ha anche stabilito un nuovo  modello della mente, derivato da Ferenczi e sviluppato da Balint, Winnicott e, in seguito negli Stati Uniti, da Kohut. La  differenza fondamentale tra questo modello e quelli di Freud, della Klein e dei loro seguaci non risiede nel fatto che esso abbia preso in considerazione nuove evidenze cliniche, ma piuttosto nel tipo di usi che esso ha fatto delle evidenze cliniche già esistenti. È  emerso  che una nuova preoccupazione che si  focalizza su varie nozioni della cura e del cambiamento che non facciano affidamento sul raggiungimento della verità e che considerino le influenze personali dell’analista – ad esempio, il suo fornire sostegno, consigli e conforto – sia parte integrante del processo analitico. In questo approccio i cambiamenti nella tecnica erano di un tipo che lo rendeva essenzialmente non analitico. Essi andavano contro lo sforzo psicoanalitico di determinare il cambiamento attraverso la ricerca della verità. Poiché l’analista  assume attivamente il ruolo genitoriale, egli invita il paziente a vivere in una bugia. Questo a sua volta promuove un funzionamento concreto anziché una simbolizzazione ed una crescita psichica>> (Segal, 2006, pp. 288-289). Hanna Segal definisce questi cambiamenti nella tecnica, che  derivano dalla natura intersoggettiva dell’incontro analitico e che prendono in considerazione la soggettività dell’analista,  come “essenzialmente non analitici”. È implicito che il principio kleiniano del “solo analizzare” – un auto-inganno secondo Sandler e  Dreher – non serva solo alla ricerca della verità, ma soddisfi l’asserzione da parte di Freud dello “junktim”. Questa è solo un’affermazione apodittica senza  alcuna prova.

Il processo terapeutico dipende per lo più dal contributo dell’analista. Michael Balint  sottolineava questo punto di vista ampiamente condiviso. Io ho trasformato la sua idea in uno schema di “resoconto dei casi”(“case-reporting”). In questo processo, sono stato notevolmente influenzato dall’articolo di Susan Isaacs  (1939) “Criteria for Interpretation” e dalle discussioni col filosofo dalla formazione kleiniana John Wisdom (1956, 1957). Tra il 1963 ed il 1967, lo schema “case report” è stato usato per la descrizione dei processi psicoanalitici all’Istituto Psicoanalitico di Heidelberg  e Francoforte (Thomä / Houben 1967, Thomä 1967). Durante quegli anni sono cresciuto  all’interno di una psicoanalisi intersoggettiva. Dal 1976, le supervisioni da parte di Merton Gill hanno contribuito allo sviluppo del mio pensiero psicoanalitico (Gill, Rotmann und Thomä 1999). Lo sviluppo del mio atteggiamento e del mio pensiero psicoanalitico è tracciato  nei  18 resoconti di trattamenti che finalmente soddisfacevano  i requisiti  di Spence (1986) per tali lavori. A. E. Meyer (1994) ha preferito chiamare questi lavori non “resoconti terapeutici”(“treatment reports”), ma “resoconti di interazioni”(“interaction reports”). Nella versione inglese del terzo volume del trattato del gruppo di Ulm sulla terapia psicoanalitica  (Kächele/Schachter/Thomä 2007), dimostriamo i criteri per una psicoanalisi comparativa.

Il contributo di Isaacs è andato ben oltre quello di stabilire i criteri per l’interpretazione. Secondo  lei, tutti gli psicoanalisti pensano  a connessioni causali anche quando interpretano. Essi vengono fuori con considerazioni diagnostiche da confermare, che in seguito portano  a presupposti prognostici all’interno della cornice di probabilità statistiche. Fonagy condivide questa posizione (2001) nella “Open Door Review”. La  mancanza  di attenzione nei confronti dell’articolo di Isaacs da parte dei kleiniani sta a dimostrare il loro atteggiamento scientifico. Tale articolo non viene citato né  nel “Dizionario del pensiero kleiniano”  di Hinshelwood né  nella pubblicazione  in due volumi  “Melanie  Klein  today” di Bott  Spillius[1]. L’affermazione apodittica completamente priva di fondamento  di Hanna Segal segue  lo stile delle discussioni controverse storiche.  Essa non solo esclude gli Indipendenti inglesi, ma anche migliaia di analisti considerati come “essenzialmente non analitici”. È degno di nota che la maggioranza dei freudiani contemporanei  si sono liberati del passato. Io mi prendo la libertà di interpretare ciò che sono le vere  controversie in riferimento a Freud: questi raggiunge un’incoraggiante conclusione nella sua riflessione sulla transitorietà della bellezza, dell’arte e del progresso intellettuale. Freud afferma che il lutto si esaurisce ad un certo punto e la perdita viene accettata. I giovani allora <<sostituiscono gli oggetti perduti con altri nuovi, ugualmente o ancora più preziosi>> (Freud, 1916°, p.307).  La maggior parte dei freudiani contemporanei riconosce che la loro funzione terapeutica dipende dall’essere un nuovo oggetto  nel senso dell’articolo pionieristico di Hans Loewald (1960). La funzione terapeutica del nuovo oggetto risiede nel fatto che esso differisce da quello vecchio, che naturalmente era un soggetto. Somiglianza e differenza sono categorie essenziali nella vita umana. Le ripetizioni appaiono solo contestualizzate e perciò in una forma parziale. Questo è il motivo per cui Merton Gill enfatizza la plausibilità della percezione del paziente  nel transfert in opposizione alla sua distorsione. Sul percorso verso una psicoanalisi intersoggettiva Merton Gill ha riabilitato il riconoscimento delle percezioni del paziente nel transfert.

Da mistico, Bion  è il kleiniano più influente del nostro tempo. C’è qualcosa di tragico in ciò, poiché egli stesso descrisse la differenza tra un vero mistico ed i suoi seguaci. Egli restò uno studente di Melanie Klein e raccomandava la sua tecnica solo a quegli analisti <<la cui analisi  fosse stata portata avanti abbastanza a lungo per riconoscere le posizioni schizo-paranoide e depressiva>>(Bion, 1970, p.47). Dall’altra parte,  il suo misticismo è un fatto serio e, contrariamente a molte opinioni, le sue parole devono essere prese alla lettera e non in senso figurativo. Cito le sue affermazioni famose: <<Il primo punto per l’analista è quello di imporsi una disciplina positiva per evitare la memoria  ed il desiderio. Non voglio dire che ‘dimenticare’ sia abbastanza: ciò che si richiede è un atto positivo di astenersi dalla memoria e dal desiderio. Ci si può chiedere quale stato della mente venga accolto  se i desideri ed i ricordi non ci sono.  Un termine che esprimerebbe approssimativamente ciò che devo esprimere è ‘fede’ – fede che ci sia una realtà ed una verità ultima – l’ignoto, l’inconoscibile, ‘l’infinito senza forma’>>(Bion, 1970, p.31). E dal suo libro “Attenzione e interpretazione”: <<Ciò che si deve cercare  è un’attività che sia sia il recupero di dio (la Madre) sia l’evoluzione di dio (l’informe, infinito, ineffabile, il non-esistente), che si può trovare solo nello stato in cui NON c’è memoria, desiderio, comprensione>>(Bion, 1970, p.129). Bion sembra essere orgoglioso di ammettere di non  sapere nulla sui suoi famosi concetti. Ad esempio, dice sugli elementi alfa e beta: <<… Penso che ci sia molto da dire per considerare ciò che ho precedentemente  chiamato gli elementi alfa e beta, ma  questi  non sono psicologici, poiché li considero qualcosa che non conosco  e  non conoscerò mai; sto presupponendo  qualche sorta  di controparte fisica.  Ma quando ciò diventa conscio,  allora penso che diventi un qualcosa di fantasioso, un costrutto teorico – immaginazione speculativa, ragione speculativa>> (Bion, 2005, p.21).  Le metafore molto elusive di Bion sono responsabili  del caos teorico. Abbastanza curiosamente, la loro elusività ha una qualità segreta e facilita  come un intermediario il sentimento  di essere un vero analista. Appartenere  ad un gruppo che ha accesso all’inconscio più profondo fornisce  una sicurezza salda. Inoltre, lo spazio infinito è aperto per ogni genere di interpretazioni soggettive. Ancora, tutti noi vogliamo essere ben contenuti. Bion ha creato molte delle metafore di successo per la nostra professione.

La nuova edizione contemporanea delle storiche discussioni controverse segue le tradizionali lotte per un’identità psicoanalitica rigorosa. Invece  di una continua ripetizione della nostra lotta, basata sull’ideologia, per la “verità”  psicoanalitica o un nuovo “Schibboleth”, invoco  una moderna psicoanalisi che si sforzi di risolvere le sue controversie  ad un livello scientifico. La speranza è più che giustificata: da qualche decennio, riforme centrate sulla competenza, che implichi un atteggiamento critico, sono in atto. Considero il congresso dell’I.P.A. di Berlino  come un momento storico per ciò che sembra essere proprio un motivo minore. Comunque, il programma è in qualche modo differente. Ci si aspetta che <<il metodo di discussione comprenda un certo grado di formalità e di focalizzazione… il gruppo cercherà di guardare ad ogni ‘intervento’ che il presentatore abbia fatto in profondità, per cercare di determinare cosa gli sembri che abbia inteso ottenere e quali idee implicite ed esplicite sul lavoro analitico restino dietro… lo scopo è di considerare differenti elementi dell’approccio dell’analista e di creare un quadro complessivo di come un analista lavori sulla base di queste componenti>>. Questo è il programma del congresso di Berlino, che rende possibili la psicoanalisi comparativa e le controversie vere.

 

 


 

[1] Non annovero il riferimento a Riesenberg Malcolms perché è ingannevole.

 

 

 

 
 
 
 
   

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Responsabile Editoriale : Giuseppe Leo

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