"Nelle
radici della logoterapia le radici della speranza" è
il titolo del saggio scritto da Eugenio Fizzotti e Ignazio Punzi a
sintesi del pensiero di Viktor Frankl, che trovate interamente pubblicato
in questa pagina.
Ridare
dignità all'uomo
Riscoperta dell'inconscio
L'immagine
dell'uomo nel giovane Frankl
Il
rapporto terapeuta-paziente in una prospettiva di appello
ai valori
Dalla
neutralità al coinvolgimento responsabile
Esigenze
per un incontro autentico
Strategia
della speranza
Incontro
nell'amore
Rischi
dell'incontro
Atteggiamenti
per un'autentica apertura alla speranza
Riferimenti
bibliografici
Ridare dignità all'uomo
La
"fede incondizionata in un significato incondizionato" della vita
(Frankl 1998, p. 164) non ha certo reso Frankl simpatico nel mondo
degli psichiatri, troppo preoccupati a cogliere solo il legame tra
modalità di esistere e struttura neurologica, oppure in quello dei
sociologi, orientati a vedere unicamente i condizionamenti culturali,
familiari, politici, e non invece la radicale capacità - mai persa
- della singola persona a saper assumere con dignità e coraggio
un atteggiamento nei confronti dei condizionamenti, oppure ancora
in quello degli psicologi, capaci solo di vedere nei meandri della
psiche le pulsioni inconsce che agiscono da detonatore quando meno
ci si aspetti, abdicando quindi a qualsiasi possibilità di decisione
responsabile.
E fece scalpore, già nel 1945, il suo schierarsi
deciso e convinto contro il concetto di colpa collettiva. "Ricevetti
tirate di orecchi da parte di diverse organizzazioni" - ha ricordato
qualche anno fa, in indimenticabile incontro con oltre mille persone
nell'aula magna dell'Università salesiana di Roma -. "Ciononostante
continuai a parlare contro la colpa collettiva e lo feci anche davanti
a un generale che comandava le truppe francesi di occupazione, in
occasione di una conferenza che ero stato invitato a tenere nella
zona occupata dai francesi. Il giorno dopo venne a trovarmi un professore
universitario, a suo tempo ufficiale delle SS, e mi chiese con le
lacrime agli occhi dove trovassi il coraggio di schierarmi così
apertamente contro il giudizio generale. "Lei non può farlo - gli
risposi -, perché parlerebbe pro domo sua. Ma io, che sono stato
il detenuto n. 119.104 a Dachau, io sì che posso farlo. Anzi, devo
farlo. Mi tocca farlo: è un obbligo"" (Frankl 1993, p. 102).
E non diversamente si espresse nella grande
piazza antistante lo splendido palazzo municipale di Vienna 50 anni
dopo, dinanzi a migliaia di persone. Coerente con la sua professione
di fede nell'uomo, nella sua libertà, nella sua dignità e nella
sua assunzione di responsabilità, pronunciò con voce ferma il suo
rifiuto nei confronti di qualsiasi tentativo di minimizzazione e
di riduzione della persona umana e, contemporaneamente, la sua profonda
convinzione che, sempre e dappertutto, l'uomo è capace di trascendersi,
di guardare oltre i ristretti orizzonti del quotidiano, di attingere
alle profondità spirituali del proprio inconscio, non più, quindi,
unico ed inesorabile ricettacoli di istinti ed impulsi ciechi, privi
di qualsiasi spiraglio di autentica libertà, così come per decenni
ha insegnato la psicoanalisi (Frankl 1988).
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Riscoperta dell'incontro
"Se
non lo faccio io, chi lo farà? Se non lo faccio adesso, quando lo
farò? Se lo faccio solo per me stesso, chi sono io?". Queste tre
frasi del rabbino Hillel, vissuto verso la fine del I secolo a.C.,
ritornano come un ritornello nei testi di Frankl, per sottolineare
tre aspetti centrali del suo pensiero: a) l'unicità della persona,
al di là di qualsiasi tentativo di massificazione, b) l'unicità
del momento presente, al di là di qualsiasi rifugio nel mondo illusorio
dell'irresponsabilità e di un'eternità impersonale e priva di rapporti
con il quotidiano tragico, c) l'orientamento verso il mondo dei
valori e dei compiti, che ciascuno è chiamato a scoprire ed a realizzare
giorno per giorno, senza sperare tornaconti o ricompense. Il tutto
in un contesto di riscoperta dell'incontro, come luogo di fedeltà
all'essere, alla vita ed al rapporto, nella consapevolezza del facile
rischio della manipolazione e della spersonalizzazione.
Ed è questo, forse, uno dei contributi
più significativi di Frankl alla storia, e non solo della psicologia
e della psichiatria, dell'uomo di oggi e dell'uomo di sempre: ridare
all'incontro "un carattere esistenziale, un carattere cioè adeguato
all'essere umano" (Frankl 1977, p. 275). Il che vuol dire chiedersi
con sincerità: la persona che incontro è per me unica? ha per me
un nome? dietro il suo volto leggo una storia? partecipo della sua
storia e lei della mia? Oppure è un semplice burattino, un anonimo
personaggio funzionale alle mie attività e per me, perciò, avere
di fronte lei oppure un'altra in fondo non fa alcuna differenza?
In ultima analisi: è lei a rispondere ai miei desideri, ai miei
bisogni, oppure sono io che mi pongo in ascolto attento della sua
unica ed irripetibile esistenza? (Punzi 1994, p. 76).
L'incontro fra due persone uniche ed irripetibili - sottolinea Frankl
- è realmente autentico nella misura in cui coglie "la dimensione
immediatamente superiore, quella nella quale l'uomo viene trasceso
in direzione di un significato e in cui tutta l'esistenza è messa
a diretto confronto con il logos" (ibidem). Diversamente, un dialogo
e un incontro non aperti al senso, e quindi non basati su un'intersoggettività
autotrascendente, restano un dialogo ed un incontro senza logos,
una pura mistificazione chiusa nel ristretto orizzonte dell'immanenza,
alla ricerca solo delle radici, e per di più nell'unica direzione
dei bisogni da soddisfare, e non invece degli scopi oggettivi, carichi
di sfida e di provocazione, che hanno un carattere imperativo e
chiedono di essere realizzati.
Fin da giovane studente universitario,
Frankl ha manifestato quella profonda passione per l'uomo e per
la sua responsabile libertà che ha caratterizzato la sua ricca attività
di psichiatra, di scrittore, di conferenziere, di docente universitario.
L'impegno a servizio di ragazzi sbandati e privi di orientamento
fu da lui tradotto, nel lontano 1927, ad appena 22 anni, nell'attivazione
a Vienna dei Centri di consulenza psicopedagogica. E le modalità
esistenziali con le quali incontrò i numerosi giovani che chiedevano
aiuto testimoniano una ricchezza di umanità non comune, in grado
di cogliere gli appelli più intimi ad essere accolti, capiti, amati
e soprattutto nella consapevolezza che, sempre e dappertutto, l'uomo
non perde mai il senso della propria esistenza e tutto va fatto
per aiutarlo a riscoprire tale senso ed a tradurlo nei comportamenti
e nelle scelte di ogni giorno (Frankl 2000).
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L'immagine dell'uomo nel giovane Frankl
Ma
altri vantaggi derivarono a Frankl dall'intensa attività svolta
a favore dei giovani: riuscì a contattare molte personalità, anche
straniere, che si interessavano di psicologia e di psicoterapia
e, soprattutto, confermò alcune intuizioni che aveva avuto negli
anni precedenti. Egli, infatti, attingendo agli studi di medicina
e alle letture di filosofi quali Max Scheler, Karl Jaspers, Martin
Heidegger, Ludwig Binswanger e Martin Buber, giunse alla convinzione
che era indispensabile mettere l'accento sulla persona umana considerata
unica, originale, irripetibile, unità corporeo-psichico-spirituale,
orientata verso l'individuazione del significato della sua esistenza
e verso la realizzazione del compito personale ad essa legato. Inoltre,
nel rapporto tra terapeuta e paziente riteneva che dovesse essere
evitata qualsiasi schematizzazione, standardizza-zione o visione
deterministica dell'uomo e del disturbo psichico, mentre andavano
evidenziate la singolarità delle specifiche situazioni e la conseguente
individuazione di atteggiamenti di rispetto, di comprensione e di
profonda partecipazione ai problemi del paziente.
L'accento
sulla persona umana in una prospettiva globale, che abbraccia varie
dimensioni (biologica, psicologica, sociologica, spirituale-noetica),
caratterizza in forma molto chiara ed evidente gli scritti del giovane
Frankl. Pubblicando, nel 1925, nell'Internationale Zeitschrift für
Individualpsychologie un breve saggio sui rapporti tra psicoterapia,
valori e visione del mondo, egli così scriveva: "Urge fondare criticamente
il trattamento del nevrotico intellettualistico, come pure la psicoterapia
in generale. Occorre aver chiaro in mente che il principio della
psicoterapia è essenzialmente etico, nel senso che valuta, e che
ogni trattamento si prefigge l'obiettivo della guarigione, e dunque
ha in sé un valore vitale. Al contempo non va ignorato che il presupposto
della nostra valutazione può solo essere essenzialmente critico.
Infatti, i valori non si possono dimostrare a priori. Quello che
possiamo dimostrare - e dobbiamo dimostrarlo al nevrotico che filosofeggia
- è che tutto il suo disprezzo per la vita, per il mondo, per la
società è acritico e quindi "non valido". Egli non fa altro che
definire la vita priva di valore, in quanto non la considera valida
- ovvero la considera odiosa, triste, dolorosa, perché la valuta
negativamente - anche se in realtà non lo fa, ma crede di farlo,
come se la disprezzasse - per motivi che l'analisi poi delineerà"
(Frankl 1925, p. 251). E nelle ultime righe dell'articolo, commentando
la frase di Spinoza: "Beatitudo non est virtutis praemium, sed ipsa
virtus", egli aggiungeva: "Il nevrotico non può essere felice perché
non è affezionato alla vita, la disprezza, la scredita, la odia.
Compito dello psicoterapeuta allora è quello di restituirgli in
pienezza l'amore per la vita e per la comunità, e ciò attraverso
una discussione critica, in cui il senso della vita e il valore
della comunità risultano evidentemente non dimostrabili ma dati,
non perseguibili, ma già insiti nell'interesse personale; perché
la via che conduce alla felicità personale, alla soddisfazione,
alla "beatitudo", passa attraverso il senso di comunità, il coraggio
di vivere, la "virtus"" (ibidem, p. 252). Quando scriveva queste
frasi Frankl aveva appena 20 anni! Dall'autobiografia pubblicata
non molti anni fa, sappiamo che Frankl, negli anni di appartenenza
alla società adleriana di psicologia individuale, aveva abbozzato
un sistema di pensiero in cui approfondiva le basi filosofiche di
una psicoterapia che andasse al di là del riduzionismo freudiano
e ponesse al centro la capacità radicale dell'uomo di ricercare
valori e significati per la sua esistenza. Il testo, che doveva
essere pubblicato nel 1927 dalla casa editrice Hirzel, avrebbe portato
la prefazione di Oswald Schwarz in cui si diceva che il libro "avrebbe
offerto alla storia della psicoterapia un contributo paragonabile
a quello rappresentato dalla 'Critica della ragion pura' di Kant
per la storia della filosofia". È interessante notare che, dinanzi
a questo lusinghiero giudizio, lo stesso Frankl restò talmente sconcertato
da sentire il bisogno di aggiungere in forma di commento: "E ne
era davvero convinto" (Frankl 1997, p. 40).
La spaccatura con Adler e la fuoriuscita,
assieme a Rudolf Allers e ad Oswald Schwarz, dalla Società di Psicologia
Individuale impedirono la pubblicazione del manoscritto. Le idee
principali in esso contenute furono però approfondite e verificate
negli anni seguenti e trovarono una loro adeguata espressione in
due saggi che apparvero nel 1938 e nel 1939. Nel primo, dal titolo
Zur geistigen Problematik der Psychotherapie, il giovane Frankl
delinea il punto di partenza della sua ricerca, e cioè la revisione
delle posizioni della psicoanalisi freudiana e della psicologia
individuale adleriana da una triplice prospettiva: considerare l'uomo
anche dal punto di vista spirituale-noetico, superando i limiti
dello psicologismo (parlerà appunto, in seguito, di psicologia dell'altezza,
in contrapposizione a psicologia del profondo);
individuare le categorie di valori che risultano fondamentali per
la ricerca e la realizzazione del senso della vita;
prospettare la positività del dolore e la possibilità di poter prendere
sempre un atteggiamento, anche nelle situazioni-limite. E
sappiamo benissimo come questi tre nuclei sono stati oggetto di
ulteriore ripensamento e approfondimento nelle numerosissime opere
pubblicate da Frankl dal dopoguerra in poi. Il punto di partenza
fu chiaramente la convinzione che "essere-io vuol dire essere-cosciente
ed essere-responsabile" (Frankl 1938, p. 34). Di conseguenza "la
psicoanalisi e la psicologia individuale prendono in considerazione,
ognuna nel proprio campo visivo, un aspetto dell'esistenza umana,
da cui estrapolare un'interpretazione dell'affezione nevrotica.
Questo, non di meno, spiega allo stesso tempo che entrambi i sistemi
non sono stati elaborati casualmente, ma che, con una corrispondenza
scientifico-teoretica, partono da una necessità ontologica e, sotto
quest'aspetto, la loro unilateralità e la loro antiteticità rappresentano
degli effettivi completamenti" (ibidem). E analizzando più a fondo
i presupposti antropologici, gli obiettivi e la prassi terapeutica
delle due scuole, Frankl ribadiva quanto già negli anni precedenti
- e in contesti non ancora specificatamente clinici - aveva intuito:
l'esigenza, cioè, di considerare la persona capace di andare oltre
il piano puramente psichico, intrapsichico, ambientale e di orientarsi
verso la ricerca di valori e di significati. "Chiedendoci allora
- così egli scriveva - se, oltre l'adattamento e l'organizzazione,
non vi sia, per così dire, un'ulteriore dimensione in cui la persona
possa inoltrarsi se la si vuole guarire, oppure, qual sia l'ultima
categoria da includere nel nostro quadro della persona umana, se
si vuole rendere giustizia alla sua realtà psico-spirituale, giungiamo
all'idea della realizzazione, del compimento di un senso. Da notare,
in proposito, che la realizzazione dell'uomo va oltre la formazione
della sua vita, nel senso che, mentre la formazione è una realizzazione
estensiva, la ricerca con la conseguente realizzazione di un senso
rappresenta una grandezza vettoriale. La ricerca di senso ha un
orientamento, è rivolta verso quella possibilità di valore riservata
o, per meglio dire, assegnata a ogni singola persona umana e che
deve essere realizzata; è diretta verso quei valori che ogni singolo
uomo ha da realizzare nell'unicità della propria esistenza e nella
singolarità del proprio spazio vitale" (ibidem, p. 35).
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Il rapporto terapeuta-paziente in una prospettiva di appello ai
valori
In
un contesto antropologico ciò significava porre le basi per una
visione dell'uomo che, superate le ristrettezze dello psicologismo
e del riduttivismo, accettasse a pieno titolo la dimensione spirituale-noetica.
In riferimento invece al rapporto terapeuta-paziente, ciò rappresentava
un ribaltamento dell'idea che la guarigione fosse di esclusiva spettanza
del terapeuta, nel senso che toccasse a lui dare la 'vera' interpretazione
eziologica del disturbo e, di conseguenza, fornire le 'vere' indicazioni
di trattamento, lasciando al paziente un puro e semplice adeguamento
passivo. Invece, "non appena, nell'ambito dell'analisi esistenziale
e grazie all'intervento dello psicoterapeuta, il paziente diventa
cosciente della sua essenziale responsabilità, dovrà cercare di
rispondere alle seguenti domande fondamentali: 1) davanti a chi
si sente responsabile? (se, per esempio, davanti alla propria coscienza
o davanti a Dio) e 2) di che cosa si sente responsabile, cioè a
quali valori concreti si dedica, in quale direzione trova il senso
della propria vita e quali compiti lo impegnano?" (ibidem, p. 38).
Riprendendo ed approfondendo alcune di queste idee, Frankl pubblicò
nel 1939 un articolo dal titolo: Philosophie und Psychotherapie.
Zur Grundlegung einer Existenzanalyse, in cui sottolineava ancora
una volta i limiti del riduzionismo psicologico, grazie al quale
"l'immagine della persona che viene delineata a livello di proiezione
psicologica è, dunque, parziale" (Frankl 1939, p. 708). E facendo
esplicito riferimento alla psicoanalisi, egli ricordava che in essa
"non viene abbracciata la totalità della persona […] in quanto della
triade Eros-Logos-Ethos viene preso in considerazione solo il primo
elemento, con la conseguente distruzione della triplicità dell'antropologia
filosofica" (ibidem). Al contrario, la psicoterapia "deve considerare
proprio la totalità dell'essere umano. La visione della persona
come unità corporeo-psichico-spirituale deve essere tenuta presente
anche dal punto di vista della persona psichicamente malata, per
poter così - e solo così - soddisfare in una certa maniera le esigenze
della critica della conoscenza" (ibidem).
Accettare l'uomo come totalità vuol
dire, per il giovane Frankl, riconoscere a pieno diritto il confronto
tra terapeuta e paziente sulle questioni radicali della vita, nella
prospettiva quindi di una Weltanschauung che ponga in primo piano
la ricerca di risposte significative e non le dinamiche intrapsichiche
di complessi o di sentimenti di inferiorità. "2 x 2 = 4 anche se
è un paralitico ad affermarlo! Senza dubbio non ci accorgiamo di
un errore di calcolo in quanto psichiatri, ma solo rifacendo le
operazioni matematiche. Quindi, anche il medico deve sforzarsi di
rendere ragione al paziente filosofo e non deve permettersi di fuggire
dinanzi a delle argomentazioni con un comodo Metabasiz ez allo genoz
invece di confutarle oggettivamente, soffermandosi a livello di
contrapposizione teorica" (ibidem).
Ed è interessante rilevare che nel
già citato articolo Psychotherapie und Weltanschauung. Zur grundsätzlichen
Kritik ihrer Beziehungen, del 1925, egli aveva affermato che "in
tali circostanze è compito della terapia rimuovere la sovrastruttura
logica della visione dell'uomo e del mondo insieme con l'infrastruttura
affettiva della nevrosi: diversamente l'ideologia affettiva perdurante
offre facile terreno per un rinnovato riprodursi della nevrosi.
Nel contempo non dobbiamo però dimenticare che in determinate circostanze
sarà necessario prima di tutto aggredire la sovrastruttura, togliendo
alla nevrosi il suo sostegno astratto e le sue fissazioni, così
da eliminarla più facilmente. Ciò sarà importante per quegli individui
particolarmente inclini ad argomentazioni concettualmente contorte
circa il proprio programma di vita, ma che possono essere annoverati
da un punto di vista intellettuale fra i migliori della società.
Nei loro confronti - proseguiva il
ventenne Frankl - dovremo dunque agire con controargomentazioni
filosofiche, poiché ogni altro argomento risulta inconsistente.
Non si può infatti aiutare un pessimista, molto intelligente e consapevole,
consigliandogli di nutrirsi bene e di fare dello sport, poiché tali
argomenti, come del resto tutto ciò che riguarda la salute, non
toccano la sua filosofia" (Frankl 1925, p. 250).
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AI TITOLI
Dalla
neutralità al coinvolgimento responsabile
Emerge
a questo punto un problema nodale, ed è quello della neutralità
all'interno di un rapporto terapeutico. Da una parte, infatti, appare
sufficientemente chiaro che il terapeuta ha il potere di influenzare
la visione della vita e del mondo del paziente. Dall'altro è altrettanto
ovvio che il paziente ha il diritto di veder rispettate, e non svalutate,
le sue convinzioni, e soprattutto di essere aiutato ad operare con
libertà e responsabilità. "Ci troviamo, dunque, di fronte al dilemma:
da una parte, la necessità e la presupposizione di valori, dall'altra,
l'impossibilità morale di un'imposizione. E ritengo che sia possibile
una soluzione, ma solo una determinata soluzione! Infatti, esiste
un valore etico formale che costituisce la condizione indispensabile
di ogni altra valutazione, senza per questo determinare alcuna gerarchia:
la responsabilità! Essa rappresenta quel valore limite di neutralità
etica verso cui la stessa psicoterapia, in quanto procedimento che
esprime una valutazione implicita o esplicita, può e deve inoltrarsi.
Il paziente che nel trattamento psicoterapeutico e attraverso di
esso giunge ad una profonda consapevolezza della propria responsabilità,
come caratteristica essenziale della propria esistenza, perviene
automaticamente a delle valutazioni che sono in consonanza con se
stesso, con la sua personalità unica e con il suo proprio irripetibile
destino.
La responsabilità costituisce in un
certo senso il lato soggettivo, mentre sul lato oggettivo si trovano
i valori: la loro scelta e il loro riconoscimento avvengono senza
alcuna imposizione da parte del medico" (Frankl 1939, pp. 708-709).
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Esigenze
per un incontro autentico
Quali
esigenze allora occorre che stiano alla base di un autentico e responsabile
incontro, così da aiutare la piena maturazione di motivazioni autentiche?
Eccone brevemente alcune.
a) Uscire dall'anonimato costruendo
un'identità forte, grazie alla quale agire con responsabilità e
con entusiasmo, senza mezze misure, senza nascondigli, senza maschere
sul volto. Uscire dall'anonimato vuol dire conquistare un modo di
pensare, un modo di rapportarsi agli altri, uno stile di vita, un
cuore che pulsa con chi soffre e che sa prendere posizione anche
nei riguardi di strutture eccessivamente monolitiche, incapaci di
flessibilità e orientate solo all'osservanza di norme di comportamento
fredde e impersonali. Uscire dall'anonimato vuol dire essere creativi
nelle iniziative, partecipare attivamente alle gioie e ai dolori,
saper chiamare per nome qualunque persona, sia essa malata o anziana
o handicappata o di colore o analfabeta.
b) Partecipare attivamente sia nel
senso che ogni gesto, per quanto piccolo e nascosto, contribuisce
alla trasformazione del mondo, così come ogni goccia d'acqua va
ad alimentare in un modo o nell'altro il grande oceano, e sia nel
senso che è importante non stare alla finestra a guardare ciò che
altri, magari per interessi privati, decidono sulla pelle degli
altri. La partecipazione esige un impegno sociale concreto, fatto
di scelte coraggiose, talvolta controcorrente, capaci di mettere
sempre in evidenza le esigenze e i diritti delle minoranze, dei
poveri, degli ultimi, degli esclusi, degli emarginati.
c) Sentirsi parte a un gruppo: questo
non solo rappresenta la soluzione alla solitudine che sempre più
spesso avvolge l'uomo e gli impedisce di essere sereno (saremmo
nella prospettiva dei "bisogni"), ma costituisce il luogo in cui
incontrare altri soggetti unici e singolari, anch'essi in cammino,
anch'essi orientati verso uno scopo, anch'essi animati da una profonda
volontà di significato. Appartenenza, allora, vuol dire accettazione
della diversità, comprensione dei limiti, riconciliazione con se
stessi (perché magari sono emerse motivazioni erronee alla base
della propria scelta di vita) e riconciliazione con gli altri (perché
anch'essi possono aver operato delle scelte solo come fuga o come
ripiego). Appartenenza significa operare il passaggio da un sistema
motivazionale insufficiente e magari riduttivo, di basso cabotaggio,
a un sistema motivazionale aperto, di ampio respiro, capace di abbracciare
l'altro nella sua povertà e nella sua pochezza, dimostrandogli calore,
supporto, amicizia, fraternità, solidarietà, consolazione, vicinanza.
d) Scegliere una guida spirituale
che non si sostituisca alle proprie personali decisioni e non si
faccia garante indiscriminato di eventuali fallimenti, togliendo
la responsabilità e la libertà, ma cammini accanto suscitando domande
e risposte, sostenendo nelle difficoltà e rallegrandosi nelle gioie,
favorendo l'impegno e aspettando con pazienza quando il passo si
fa un po' più lento. Una guida spirituale, ovviamente, non comporta
un atteggiamento di devozione quasi isterica, una sottomissione
impersonale e anonima, un continuo processare intenzioni e comportamenti.
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AI TITOLI
Strategia
della speranza
C'è
una domanda che sorge all'alba dell'umanità e che accompagna la
sua storia in maniera continua e penetrante e che è rivolta ad ogni
uomo, in qualsiasi tempo, in qualsiasi luogo, in qualsiasi situazione:
"Dove sei? Dove ti trovi in questo momento?". È la domanda rivolta
da Dio al primo uomo che si nascose dopo essersi accorto drammaticamente
della sua finitudine, del suo limite, potremmo dire, della sua morte:
"Dove sei? Sei in cammino? Se sì, a quale punto sei? E in quale
direzione stai andando?".
Quando ci viene rivolta questa domanda?
Essa concretamente si leva ogni volta che un uomo si incontra con
un altro uomo. È l'altro, infatti, che stimola la domanda. Non siamo
noi a porla, è l'altro, con la sua stessa esistenza, che chiede:
"Dove sei?".
L'incontro con la persona sofferente, con l'anziano, con il malato
terminale ci offre certamente l'interrogativo: "Mi aiuti? Ho bisogno
di te!". Ma ad un livello più profondo, più intimo, chiede a ciascuno:
"Tu, dove sei? Cosa vuoi fare della tua vita? In quale direzione
stai andando?".
Il meccanismo della compassione, del cum
patire, scardina in tal modo il nascondimento, la chiusura in sé,
fa uscire dal guscio in cui ci si è rintanati, apre uno spiraglio
al qualcosa, al qualcuno che ci cerca, apre la possibilità dell'incontro,
dell'accoglienza.
Cogliendo la domanda che l'altro mi pone, per il semplice fatto
che egli esiste, che io lo vedo e lo incontro, la mia vita diventa
cammino e si trasforma in strategia di speranza, poiché la sua forza
riposa nel coraggio di amare.
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AI TITOLI
Incontro
nell'amore
Frankl
afferma che chi vive un rapporto d'amore scorge, anzi anticipa a
se stesso qualità nascoste della persona amata che chiedono di essere
realizzate. "L'amore scorge e schiude [...] le possibilità di valore
nel tu amato. Anche l'amore, nel suo penetrante sguardo spirituale,
anticipa qualcosa: si tratta delle possibilità personali, non ancora
realizzate, che la persona amata, nella sua concretezza, ancora
nasconde in sé" (Frankl 1990, p. 39).
Le situazioni più scabrose, le più
laceranti, quelle che sembrano aver tolto ogni traccia di umanità,
chiedono di essere annientate da un gesto assolutamente gratuito,
un atto d'amore che solo può intuire possibilità e dignità apparentemente
scomparse.
Ogni atto d'amore non può che essere un dono, ma ogni dono sollecita
una risposta. Ogni atto d'amore, quando è veramente tale, dischiude
delle possibilità, è sorgente di creazione, migliora. Ogni atto
d'amore, quando si trasforma in un incontro sincero e gratuito con
l'altro, fa schiudere il cammino della speranza ed è capace di andare
al di là della pura e semplice soddisfazione dei bisogni. Ogni atto
d'amore, infatti, salvaguarda la singola persona con il suo ricco
mondo interiore, con le sue appartenenze, con le sue tensioni e
le sue inclinazioni. "Si accetta solo chi si conosce. Ma si conosce
solo nell'amore", scrive Romano Guardini (1992, p. 30). E quindi
nella relazione.
Qualunque tentativo di ridurre l'uomo, ciascun uomo, ad un insieme
di bisogni, o di considerarlo ciò che non è, nella sua unicità e
irripetibilità, è fargli e farci violenza. Ma nella violenza non
c'è conoscenza, né speranza.
"Conoscenza e speranza vera è darsi
la possibilità di chiamare l'altro per nome. È costruire luoghi
di autentica umanità. È avere il coraggio di programmare la propria
azione, la propria struttura e la propria stessa esistenza in modo
tale che lo spazio e il tempo siano assoggettati. È realizzare una
struttura in cui si può spezzare il vincolo del "fare" per garantire
e proteggere i momenti di crescita" (Punzi 1994, p. 71).
La confusione, la corsa, l'ansia di produrre sono il presupposto
della Babele: l'illusione, cioè, di giungere al massimo visibile,
ma l'impossibilità tragica di non poter ascoltare chi ci è affianco
e costruisce con noi.
L'uomo che noi incontriamo, l'uomo
ferito, l'uomo che vive nella notte, ha davanti due possibilità:
rigettare se stesso, oppure accettare se stesso. E noi sappiamo
che si accetta solo chi ha sperimentato l'amore, la vera accoglienza,
la solidarietà. È questa la condizione che conduce l'uomo a prendere
posizione rispetto al proprio presente e al proprio passato. È la
realizzazione di quelli che Frankl chiama "valori di atteggiamento"
(Frankl 1977, p. 85).
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AI TITOLI
Rischi
dell'incontro
Ogni
incontro, però, non è solo un luogo di fedeltà all'essere, alla
vita e al rapporto, nella misura in cui l'orizzonte è l'autotrascendenza.
Ogni incontro porta con sé anche dei rischi. Frankl, riferendosi
all'azione terapeutica, ne indica due: la cosificazione dell'uomo
e la sua manipolazione (Frankl 1977, pp. 273-276).
La cosificazione ha luogo quando il
processo di soddisfazione dei propri bisogni occupa la quasi totalità
dello spazio e del tempo, invece di essere l'occasione per la manifestazione
e la comprensione dell'uomo nella sua totalità.
La manipolazione si verifica allorché
ognuno propone le proprie esperienze, i propri schemi ed i propri
valori culturali, inglobando o ridimensionando ciò che è proprio
della persona che incontra. "Sono capace di prevenire e di soddisfare
tutti i tuoi desideri", sembrerebbe quasi che egli dica. Il passo
verso il delirio di onnipotenza è, a questo punto, breve.
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AI TITOLI
Atteggiamenti
per un'autentica apertura alla speranza
Quali
atteggiamenti assumere per realizzare degli incontri aperti alla
speranza?
A livello generale si può dire che
sono necessari l'ottimismo verso tutte le manifestazioni della vita
e della realtà, la fiducia nella dimensione spirituale, nella capacità
di decidere e nella possibilità di significato sempre, comunque
e dovunque, il senso della propria responsabilità.
A livello più specifico, occorre alimentare
dentro di sé l'accoglienza dell'altro come persona, senza nascondersi
né difendersi dietro il proprio ruolo e quindi senza trattare l'altro
come un caso, ma riconoscendogli piena fiducia e totale dignità,
qualunque sia il suo stato, anche se è un barbone che non si lava
da anni, che puzza.
Occorre poi ascoltare l'altro e comprenderlo,
così come accettarlo nella sua globalità, come è in realtà e non
come vorrei che fosse. Ed infine consentirgli di esprimersi liberamente
e di prendere decisioni con responsabilità personale, in modo da
percepire nella maniera più ampia possibile il proprio orizzonte
intenzionale, e così trovare strade alternative, dilatando spazi
e dimensioni della vita.
Il rapporto, allora, prima ancora
che essere e delinearsi nella sua dimensione psicologica e sociale,
rappresenta lo svolgersi di un incontro tra due persone che hanno
pari dignità. E su questo piano, prima ancora di tutte le parole,
di tutti i messaggi non verbali, di tutte le speranze e di tutti
i condizionamenti, si comunica esistenzialmente un'unica, grande
verità: "Tu per me esisti! E sono contento di condividere con te
il cammino faticoso e, talvolta, in apparenza fallimentare della
ricerca di senso". L'importante allora è camminare insieme, perché
solo un itinerario di solidarietà permette di scorgere le infinite
possibilità di significato racchiuse nella nostra esistenza. E ben
a ragione, perciò, lo psichiatra Karl Jaspers ebbe ad affermare
che "ciò che l'uomo è, lo è in virtù della cosa che egli riesce
a far sua" (cit. in Frankl, 1978, p. 181). Così come tornano di
profonda e fiduciosa attualità le parole di Kierkegaard, anch'esse
fatte proprie da Frankl: "Ahimè, la porta della felicità non si
apre verso l'interno così che a slancirsi contro di essa non serve
a nulla; ma essa si apre verso l'esterno e perciò non c'è nulla
da fare" (Kierkegaard 1972, p. 10).
Un giorno di tanti secoli fa, un rabbino,
appartenente a un movimento mistico ebraico, entrò nella sala in
cui alcuni studenti della legge stavano, di nascosto, giocando a
dama. Timorosi al suo apparire, i ragazzi misero subito da parte
la scacchiera con le pedine. Il rabbino se ne accorse e, invece
di rimproverarli, volle dare loro una lezione di vita, tratta proprio
dal gioco che stavano facendo. E chiese loro: "Sapete dirmi quali
sono le regole della dama?". I ragazzi restarono perplessi e non
sapevano che cosa rispondere. Al che egli soggiunse: "Ebbene, ve
le spiego io. Le regole del gioco della dama sono tre: 1) Fare un
passo per volta; 2) Si può andare solo avanti; 3) Una volta arrivati
in alto, si può andare dove si vuole".
L'augurio è che ognuno di noi, alimentando
e qualificando la propria concezione della vita con il contributo
della logoterapia di Frankl, sia capace di procedere per piccoli
passi, andando sempre avanti, mirando con costanza e con impegno
alla realizzazione di incontri unici e originali, capaci di inondare
la vita di senso e di speranza.
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Riferimenti
bibliografici
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Kritik ihrer Beziehunen, in "Internationale Zeitschrift für
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in "Zentralblatt für Psychotherapie und ihre Grenzgebiete", 10,
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einer Existenzanalyse, in "Schweizerische medizinische Wochenschrift",
69, pp. 707-709.
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Brescia.
FRANKL V.E. (1978), Teoria e terapia delle nevrosi, Morcelliana,
Brescia.
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1938, in "Bulletin der Gesellschaft für Logotherapie und Existenzanalyse",
5, n. 2, pp. 4-6.
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Morcelliana, Brescia.
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nella vita...". Teoria e pratica della logoterapia, LAS, Roma,
pp. 83-106.
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FRANKL V.E. (2000), Le radici della logoterapia. Scritti giovanili
1923-1942, a cura di FIZZOTTI E., LAS, Roma.
GUARDINI R. (1992), Accettare se stessi, Morcelliana, Brescia.
KIERKEGAARD S. (1972), Aut Aut - 1. Diapsalmata, in: ID.,
Opere, Sansoni, Firenze.
PUNZI I. (1994), L'incontro nel servizio: alla ricerca di un
perché. Vivere la speranza, in: FIZZOTTI E. - I. PUNZI, Solidarietà
come ricerca di senso, Salcom, Brezzo di Bedero, pp. 65-72.
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