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"BIOETICA. Tra radici psicobiologiche private, declinazioni ideologiche, principi giuridici"(a cura di Franca Beatrice e Mariella Cesana).

Numero monografico (vol. XXII, n.1/2008) della Rivista Italiana di Gruppoanalisi (Franco Angeli)

 

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F. Beatrice, M. Cesana (a cura di) "Bioetica. Tra radici psicobiologiche private, declinazioni ideologiche, principi giuridici", Rivista Italiana di Gruppoanalisi, vol. XXII, n.1/2008, Franco Angeli, Milano, 2008, pagg. 288, ISSN 1972-4888, € 27,00.
 

    

   

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   E' di ieri la notizia della morte di Eluana Englaro. Il numero monografico dedicato ai temi della Bioetica dalla Rivista Italiana di Gruppoanalisi non poteva essere di maggiore attualità, raccogliendo al suo interno, oltre all'introduzione di una delle curatrici (Franca Beatrice), alcuni contributi di illustri giuristi che hanno partecipato al dibattito organizzato dall'Università di Milano e di Pavia a Milano (il 16 febbraio 2007) dal titolo "I giudici. I casi Welby ed Englaro. La libertà di disporre di sé", ma anche di contributi di illustri psicoanalisti e clinici che hanno scritto espressamente per questo numero della rivista.

Nella sua introduzione la curatrice Franca Beatrice sottolinea come il lavoro degli psicoanalisti si possa porre di fronte alla complessità delle questioni bioetiche, attrezzandosi di una <<costante tensione a un'etica delle relazioni che prescinda da qualsivoglia verità pre-costituita, da definizioni o scelte valoriali unicamente teoriche>>. Il rapporto con il paziente porta il clinico all'accoglimento della sua <<polisemia emotiva e simbolica>> che deve tenersi alla larga, il più possibile,  da preclusioni di natura ideologica o religiosa. La curatrice sottolinea anche la "scandalosità" di casi come quelli di Welby che espongono <<a grave rischio la nostra struttura difensiva>>, ponendo qualsiasi clinico di fronte a dilemmi quali: <<la sopravvivenza in cui sono imprigionati è diventata solo un prolungamento della morte certa e non un prolungare la vita e la speranza?>> O anche: <<Che fare con chi ci chiede l'atto di generosità di lasciare da parte il nostro bisogno di non saperne nulla o di lavarcene le mani delegando ad altri?>>

E così conclude: <<Se condividiamo l'idea del diritto a "esserci" che si deve a ciascuno, da non confondersi con il "diritto di morire" dato che il morire prima o poi è un ineludibile passo, non troveremo alcuna differenza fra chi evoca la sacralità della vita (e quindi il veto all'uomo di disporre pienamente della propria vita psico-fisica in quanto essa apparterrebbe a Dio) e chi percepisce come valori irrinunciabili l'autonomia delle scelte personali e la libertà di disporre di sé: a entrambi potremmo riservare lo stesso affettuoso accompagnamento alla morte nel rispetto (dal latino respectare: guardare indietro) della loro (nostra?) esistenza>>.

E' al tema dell'"esserci" (in senso heideggeriano) correlato al libero arbitrio che è dedicato l'articolo di Diego Napolitani dal titolo "Sia fatta la volontà di...". Bioetica fa riferimento all'ethos, che etimologicamente rimanda alla "dimora": quindi, ogni scelta etica è espressione dell'ordine su cui si fonda la dimora dell'uomo. Questa in origine è costituita dalla famiglia, con i suoi valori, i suoi affetti e <<il suo fattuale potere intenzionale nei confronti del figlio dal momento della sua nascita>>. Napolitani adotta la metafora dell'albero della conoscenza per cui ogni processo cognitivo ha le sue radici in una specifica zolla di terra che informa la crescita dell'intero organismo nutrendolo grazie ai propri succhi.  Nell'infanzia dell'uomo la cognizione in origine è coscienza, cum-scire, del tutto inscindibile dalla struttura cognitiva e comportamentale della sua dimora. Lo sviluppo della cognitività porta l'uomo ad una auto-riflessione sui propri fondamenti etici che nel corso della vita, possono incontrare autonomi e svariati processi di ri-organizzazione in modo tale che il soggetto possa manifestare la propria volontà in maniera autonoma. In particolari condizioni critiche, però, l'individuo, sperimentando come precaria questa coscienza più evoluta (la dimora), può far ritorno a quell'indiscutibile (perché a-dialogica) coscienza originaria. Il rapporto tra coscienza, <<come nucleo originario e nei suoi sviluppi nel complesso tessuto di un'esistenza, e costruzioni razionali pur se parossisticamente impregnate delle esperienze vissute originarie>> viene analizzato alla fine dell'articolo da Napolitani nella forma del delirio di Daniel Paul Schreber.

In conclusione del suo articolo Napolitani sottolinea una distinzione tra spirito laico e spirito religioso, stabilendo dei paralleli stimolanti ma discutibili con le tematiche deliranti del caso Schreber.

I giuristi che hanno firmato i loro contributi nel numero della rivista hanno tutti partecipato al già citato dibattito del 2007 a Milano. Essi sono: Juan Patrone (Consigliere della Corte Suprema di Cassazione di Roma), Roberta Dameno (Ricercatrice dell'Università Bicocca di Milano), Amedeo Santosuosso (Magistrato della Corte d'Appello di Milano), Stefano Rodotà (Professore di Diritto Civile all'Università "La Sapienza" di Roma). A quel dibattito partecipò anche Umberto Veronesi il cui intervento è riportato nel volume, in cui è riportata anche una risposta di Giuseppe Bresciani. In questo sono compresi anche gli interventi di Demetrio Neri (membro del Comitato Nazionale per la Bioetica) dal titolo "Dignità della persona ed eutanasia: le ragioni del sì", di Ermanno Genre (Professore di Teologia Pratica alla Facoltà Valdese di Teologia di Roma) dal titolo "Domanda di eutanasia e accompagnamento pastorale in oncologia", di Marco Maiga (Giudice del Tribunale di Milano) dal titolo "Giudici, eutanasia, regole", di Luigi Valera (psicoterapeuta VIDAS) dal titolo "Decisioni di fine vita" e di Mario Renato Rossi (oncoematologo dell'Ospedale S. Gerardo di Monza) dal titolo "Orfani di pietà".

Tra i contributi scritti espressamente per questo numero della rivista, riguardanti le questioni bioetiche, troviamo quelli di Anna Maria Alfé ("Eutanasia: rappresentazioni e pratiche della morte"), di Sergio Benvenuto ("L'altro non ti parla"), di Marina Ricci ("Potere nel corpo, corpo del potere"),  ed infine un altro contributo di Diego Napolitani dal titolo "Requiescant in pace".

Naturalmente sorvolerò sugli altri contributi che, pur contenuti nella rivista, non sono attinenti col tema della bioetica, e per motivi di competenza professionale non posso commentare quelli degli illustri giuristi. Perciò mi limiterò a trattare, anzi a tratteggiare brevissimamente, i temi degli  articoli sopra menzionati.

Anna Maria Alfé ripercorre il dibattito culturale che nel corso del '900 ha visto impegnati sui temi delle rappresentazioni collettive e delle pratiche della morte sociologi come Gorer, storici come Ariés, antropologi come Bastide, con un taglio più di excursus filosofico che centrato sul ruolo della psicoanalisi e degli psicoanalisti in un tale dibattito (appena richiamato è il contributo di Kaes).

Sergio Benvenuto parte nel suo articolo "L'altro non ti parla" dall'analisi di due films usciti nel 2002: "Iris" dell'inglese Richard Eyre e "Hable con ella" ("Parla con lei") di Almodovar. "Iris" è la versione cinematografica del libro autobiografico di John Bayley, marito della scrittrice e filosofa Iris Murdoch, e illustre paziente affetta da demenza di Alzheimer. In "Parla con lei" è la protagonista femminile  che si sveglia dal coma in stato di gravidanza: è stato l'infermiere che la accudiva ad averla ingravidata. Benvenuto analizza i parallelismi e le simmetrie tematiche tra i due films per poi effettuare una vera e propria "svolta" tematica delineando alcuni dibattiti filosofici riguardanti le filosofie del linguaggio nonché certi approcci ai temi dell'ontologia che servono da introduzione a dei paragrafi in cui i concetti di realismo e di minimalismo etico  vengono ad essere messi in discussione traendo spunto dalle sollecitazioni dei due films già menzionati. In breve, i temi trattati dai due films vengono interpretati come sintomi di una mutazione culturale che investe la civiltà occidentale, la quale non è solamente di natura filosofica, ma anche etica e culturale. Si tratta del superamento di quello che Benvenuto definisce il "logocentrismo" occidentale, il quale sia nella filosofia analitica  che in quella "continentale" (fenomenologia, esistenzialismo, ermeneutica, poststrutturalismo) aveva trionfato in Occidente. Questo superamento viene colto da Benvenuto in filosofi come Derrida e Agamben nei quali si metterebbe in evidenza una nuova attenzione per l'"animale" e quindi anche per ciò che nell'uomo è animale. Ma, prendendo spunto dai temi dei due films (l'amore per chi è in coma profondo o per chi è affetto da Alzheimer), Benvenuto riesce a ridefinire questa nuova attenzione come rivolta al "corpo senza mente", da cui potrebbe emergere una nuova "caritas" per l'essere umano considerato come, prima di tutto, un essere vivente.

Marina Ricci nell'articolo "Potere nel corpo, corpo del potere" prende spunto dalla dimensione del "biopotere" contenuta nell'opera di Michel Foucault per passare ad una disamina del libro di Agamben "Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita". Se "Homo sacer" nel diritto romano definisce la condizione di un uomo che può essere ucciso da chiunque senza che questi comporti alcuna condanna per omicidio, ma che al contempo è insacrificabile, essa <<si colloca così al di fuori del diritto umano e divino>>. Agamben applica all'attualità più immediata le sue riflessioni quando scrive: <<Se oggi non vi è più una figura predeterminabile dell'uomo sacro, è forse, perché siamo tutti virtualmente homines sacri>> dato che questa figura è <<inclusa nell'ordinamento unicamente nella forma della sua esclusione (cioè nella sua assoluta uccidibilità)>> (citazione di Agamben). Se ciò che è bandito, "sottoposto al bando", <<è la vita uccidibile e insacrificabile dell'homo sacer nel suo essere nuda vita>> afferma la Ricci <<la "sacralità" della vita, che si offre oggi come valore certo e supremo, sembra avere origine proprio dall'assoggettamento della vita a un potere di morte>>. L'autrice accoglie, in conclusione del suo articolo, una concezione dell'uomo e del sé che salvaguardi la sua multiformità ed il suo divenire, <<un'interezza dalla quale non è possibile isolare il corpo come supporto di un ideale eugenetico o biologico, come oggetto di sfide di onnipotenza o come veicolo dello spirito>>.  L'esistenza umana, secondo la Ricci, <<non può essere dominata da un'etica della sopravvivenza basata su biologie e fisiologie del corpo ma, come direbbe Foucault, tesa verso quell'arte del vivere che non rifugge le trasformazioni della creatività e, lungi dallo scindere i vari aspetti dell'umano, permette invece la realizzazione del suo divenire in un'unità che può essere tale solo se si dispone ad accogliere le infinite unicità del proprio essere multiforme>>.

In "Requiescant in pace" Diego Napolitani pone a confronto due celebri opere letterarie, "La morte di Ivan Ilic" di Tolstoj e la storia di Simon de Canterville di Oscar Wilde come pretesto per parlare del concetto di "fantasma" e di come esso differisca nell'accezione psicoanalitica rispetto al significato che il termine ha nel linguaggio comune. Sia Ilic che Canterville sono accomunati dalla necessità di apparire, di essere delle apparenze per gli altri con cui intrattengono delle relazioni puramente virtuali. <<I fantasmi che abbiamo incontrato nei due racconti>> scrive Napolitani <<sono ben lontani dal concetto di fantasma che la tradizione psicoanalitica ci consegna>>. Ma Napolitani sottolinea una svolta che si compie, secondo lui, nell'opera di Freud, un'ipotesi scandalosa che egli formula in "Costruzioni nell'analisi"(1937): <<Le formazioni deliranti del malato mi sembrano l'equivalente delle costruzioni che noi erigiamo durante i trattamenti analitici, tentativi di chiarificazione e di guarigione che invero, date le condizioni della psicosi, non possono portare ad altro che a sostituire la parte di realtà che attualmente si rinnega con un'altra parte di realtà che in un passato lontanissimo è stata parimenti rinnegata>> (Freud, 1937). Napolitani coglie delle analogie tra questa "metamorfosi" di Freud alla fine della sua vita e le vicende <<conclusive delle esistenze "dimorate" di Ivan e di Simon. (...) Il fantasma freudiano ha continuato a infestare la dimora psicoanalitica costringendone le pratiche in liturgie insensibili alla "rivoluzione scientifica" che ha nel frattempo agitato le acque del pensiero filosofico e scientifico di ogni altra disciplina>>. L'interpretazione dell'analista viene quindi ri-definita da questa svolta dell'ultimo Freud: <<tutte le località hanno le loro mappe, tutte le strade i loro semafori, ma ridursi ad apprenderli o insegnarli porta nel migliore dei casi a confermarci nei nostri saperi, oppure a imbatterci nei fantasmi già tutti noti nelle loro apparizioni/apparenze ai quali applichiamo i nostri inutili esorcismi secondo le liturgie del "setting">>. In conclusione per Napolitani la proposta fenomenologica dell'epoché sembra quella più appropriata per uscire da questa impasse ermeneutica.

 

Come mia opinione del tutto personale sul libro posso dire che i contributi riguardanti la bioetica risultano mediamente di un livello molto alto, anche se bisogna ammettere una certa eterogeneità nell'impianto editoriale generale. Se gli interventi al dibattito del 2007 a Milano costituiscono una sezione autonoma che dà al lettore l'opportunità di poter confrontare le proprie opinioni con alcuni dei maggiori esperti, prevalentemente di ambito giuridico, sulle questioni bioetiche, bisogna pur dire che tra gli altri contributi, alcuni  di notevolissimo livello per la perizia con cui vengono esaminate le questioni filosofiche correlate, non si registrano contributi  concernenti questioni bioetiche più strettamente attinenti alla pratica psichiatrica, psicoterapeutica o psicoanalitica. Trattandosi di un numero di una rivista di gruppoanalisi ci si sarebbe atteso almeno un articolo che affrontasse temi come ad es. il diritto dei pazienti psichiatrici a rifiutare i trattamenti, oppure anche quello dell'atteggiamento etico del medico nei confronti della persona (non sempre "paziente") di fronte ad una espressa volontà di commettere il suicidio.

E' tuttavia apprezzabile che, con questo numero monografico, la Rivista Italiana di Gruppoanalisi inauguri questa nuova linea editoriale che conferisce ad essa una struttura monotematica come se si  trattasse di veri e propri libri, curati da uno o più soci della Società Gruppoanalitica Italiana (SGAI) i quali verranno ad ampliare l'orizzonte culturale della gruppoanalisi in Italia. I prossimi numeri della Rivista verranno pertanto dedicati a temi altrettanto attuali e dibattuti come la "Multiculturalità" e "Gruppoanalisi e filosofia". Desidero formulare i miei auguri più sentiti alla Direzione scientifica ed alla Redazione per questa davvero apprezzabile iniziativa di questa prestigiosa rivista italiana.

Giuseppe Leo

 

                   
 

Note:

La presente recensione è stata scritta il 10 febbraio 2009.