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Rivista Frenis Zero

 

Oggi 11 febbraio 2009 si celebra in tutta Italia la giornata del Ricordo delle vittime istriane ed italiane delle persecuzioni ad opera del regime jugoslavo di Tito. Riportiamo una breve testimonianza storica tratta da un articolo de "Il Piccolo" di Trieste (del 12 maggio 2008).
 

    

   

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<<Uccisi dopo essere stati traditi dagli inglesi >>

 

Da «Slovenia 1945» anticipiamo l’introduzione di Marcus Ferrar, per gentile concessione della Leg.

 

di MARCUS FERRAR

 

<<Per trent’anni, il direttore di un istituto linguistico in Gran Bretagna aveva represso il ricordo dei terribili eventi di cui era stato testimone quando, alla fine della seconda guerra mondiale, svolgeva servizio di volontariato. Poi, a metà degli anni Settanta, uno studente varcò la soglia del suo ufficio e cambiò la sua vita per sempre. Si trattava di una domanda innocente relativa ad un permesso di lavoro. John Corsellis guardò il passaporto e fu percorso da un brivido: davanti a lui c’era uno sloveno che viveva in Argentina. John sapeva perchè abitava lì. Lo sapeva sin troppo bene.

Nel 1945, John era stato testimone di un inganno che aveva causato la morte di dodicimila persone ed egli aveva svolto la propria parte nel salvarne altri seimila, ricoverate in un campo profughi. Gli sloveni erano cattolici fuggiti dal loro paese nel maggio 1945 dopo aver perso la guerra civile contro i partigiani comunisti. I britannici rimandarono indietro quelli in divisa ad essere uccisi dai partigiani, usando l’inganno per tradirli. Lo studente era uno dei sopravvissuti civili.

Discorrendo, lo studente gli chiese se avesse documenti o souvenir di quei giorni. John andò a casa, rovistò in soffitta e trovò uno scatolone contenente le lettere che aveva scritto all’epoca alla madre. Le lesse da cima a fondo e fu sommerso dai ricordi. Ormai quasi cinquantenne, era profondamente commosso da questo confronto con se stesso da giovane, testimone di un orrore che aveva sepolto nei recessi della mente. Ricopiò le lettere manoscritte con una macchina da scrivere e tenne una copia carbone per sé. Alcuni mesi dopo, la sua testimonianza fu pubblicata in un almanacco degli sloveni emigrati in Argentina.

Un anno dopo, John era seduto sulla collina che sovrasta Tintern Abbey nel Galles, assieme ad uno dei più illustri psichiatri britannici. Questi non era inglese di nascita: anch’egli era uno di quei sopravvissuti sloveni. Nel periodo in cui John, come operatore di un’organizzazione umanitaria, si occupava degli sloveni nei campi austriaci, Joze Jancar era stato uno dei suoi collaboratori più stretti. Con sensibilità accompagnò John attraverso le forti emozioni che provava da quando aveva trascritto le lettere.

«Devi scriverne», disse Joze «Permettimi di mostrare le lettere alla madrina di mia figlia». Quella persona era Iris Murdoch, l’insigne scrittrice. Anche lei era a conoscenza della vicenda. Anche lei si era occupata degli sloveni nei campi austriaci ed aveva aiutato Joze ed altri ad ottenere un’istruzione universitaria.

«Affascinante... estremamente interessante e commovente... un testo splendido», scrisse di rimando Donna Iris. Lo spronò a scrivere il libro, ma disse che aveva bisogno di una quantità maggiore di materiale. Il problema era: come ottenerlo? A quel punto John si rese conto che questo libro sarebbe stato la missione della sua vita. Alcuni finanziamenti da parte di fondazioni quacchere gli permisero di ridurre della metà il suo lavoro stipendiato e di fare alcuni viaggi in Nord America per intervistare gli sloveni. Ma erano ancora molti i fili della vicenda da riannodare. Poi uno dei suoi ospiti accennò al fatto che a Buenos Aires un emigrato aveva appena pubblicato i suoi diari. Quello fu un importante passo in avanti.

Il diarista era France Pernisek, che descrisse l’esodo, i lutti ed i lunghi anni nei campi degli sloveni. Pernisek, tramite un suo amico che sarebbe venuto in Inghilterra, ne fece avere una copia a John per arricchire il suo libro.

Invano John tentò di applicare la sua conoscenza del serbo-croato al testo sloveno che aveva davanti. Non riusciva a venirne a capo. Chi poteva tradurlo?

Joze lo mise in guardia dalla candidata proposta, Suor Agnes Zuzek, una missionaria medica slovena a riposo che abitava in un convento nel sobborgo londinese di Ealing; aveva reputazione di personaggio difficile, ma John la trovò «dolce ed estremamente generosa». Ella tradusse a mano il lungo documento in inglese, inviandolo a puntate a mano a mano che procedeva nel lavoro. Non volle denaro. Così ora John aveva il testo in inglese, ma lo stile era decisamente sloveno. Si dotò di un computer e si mise a rielaborarlo in un inglese idiomatico.

Il diario era un gioiello. Era questa la testimonianza di prima mano che stava cercando. Si commosse nel vedersi citato come «il buon signor Corsellis». Molti altri riferimenti ai britannici erano aspri e pieni di risentimento. John si rese conto che il suo trauma stava riafforando, un trauma che aveva le sue radici in un senso di colpa per quanto avevano fatto i britannici. E come testimone britannico degli eventi, egli considerava suo dovere garantire che la verità su ciò che era accaduto venisse a conoscenza del pubblico>>.