<<Uccisi dopo essere stati traditi dagli
inglesi >>
Da «Slovenia 1945» anticipiamo
l’introduzione di Marcus Ferrar, per gentile concessione della Leg.
di MARCUS FERRAR
<<Per trent’anni, il direttore di un
istituto linguistico in Gran Bretagna aveva represso il ricordo dei
terribili eventi di cui era stato testimone quando, alla fine della
seconda guerra mondiale, svolgeva servizio di volontariato. Poi, a metà
degli anni Settanta, uno studente varcò la soglia del suo ufficio e
cambiò la sua vita per sempre. Si trattava di una domanda innocente
relativa ad un permesso di lavoro. John Corsellis guardò il passaporto e
fu percorso da un brivido: davanti a lui c’era uno sloveno che viveva in
Argentina. John sapeva perchè abitava lì. Lo sapeva sin troppo bene.
Nel 1945, John era stato testimone di un
inganno che aveva causato la morte di dodicimila persone ed egli aveva
svolto la propria parte nel salvarne altri seimila, ricoverate in un
campo profughi. Gli sloveni erano cattolici fuggiti dal loro paese nel
maggio 1945 dopo aver perso la guerra civile contro i partigiani
comunisti. I britannici rimandarono indietro quelli in divisa ad essere
uccisi dai partigiani, usando l’inganno per tradirli. Lo studente era
uno dei sopravvissuti civili.
Discorrendo, lo studente gli chiese se
avesse documenti o souvenir di quei giorni. John andò a casa, rovistò in
soffitta e trovò uno scatolone contenente le lettere che aveva scritto
all’epoca alla madre. Le lesse da cima a fondo e fu sommerso dai
ricordi. Ormai quasi cinquantenne, era profondamente commosso da questo
confronto con se stesso da giovane, testimone di un orrore che aveva
sepolto nei recessi della mente. Ricopiò le lettere manoscritte con una
macchina da scrivere e tenne una copia carbone per sé. Alcuni mesi dopo,
la sua testimonianza fu pubblicata in un almanacco degli sloveni
emigrati in Argentina.
Un anno dopo, John era seduto sulla
collina che sovrasta Tintern Abbey nel Galles, assieme ad uno dei più
illustri psichiatri britannici. Questi non era inglese di nascita:
anch’egli era uno di quei sopravvissuti sloveni. Nel periodo in cui John,
come operatore di un’organizzazione umanitaria, si occupava degli
sloveni nei campi austriaci, Joze Jancar era stato uno dei suoi
collaboratori più stretti. Con sensibilità accompagnò John attraverso le
forti emozioni che provava da quando aveva trascritto le lettere.
«Devi scriverne», disse Joze
«Permettimi di mostrare le lettere alla madrina di mia figlia». Quella
persona era Iris Murdoch, l’insigne scrittrice. Anche lei era a
conoscenza della vicenda. Anche lei si era occupata degli sloveni nei
campi austriaci ed aveva aiutato Joze ed altri ad ottenere
un’istruzione universitaria.
«Affascinante... estremamente
interessante e commovente... un testo splendido», scrisse di rimando
Donna Iris. Lo spronò a scrivere il libro, ma disse che aveva bisogno
di una quantità maggiore di materiale. Il problema era: come ottenerlo? A quel punto John
si rese conto che questo libro sarebbe stato la missione della sua vita.
Alcuni finanziamenti da parte di fondazioni
quacchere gli permisero di ridurre della metà il suo lavoro stipendiato
e di fare alcuni viaggi in Nord America per intervistare gli sloveni. Ma
erano ancora molti i fili della vicenda da riannodare. Poi uno dei suoi
ospiti accennò al fatto che a Buenos Aires un emigrato aveva appena
pubblicato i suoi diari. Quello fu un importante passo in avanti.
Il diarista era France Pernisek, che
descrisse l’esodo, i lutti ed i lunghi anni nei campi degli sloveni.
Pernisek, tramite un suo amico che sarebbe venuto in Inghilterra, ne
fece avere una copia a John per arricchire il suo libro.
Invano John tentò di applicare la sua
conoscenza del serbo-croato al testo sloveno che aveva davanti. Non
riusciva a venirne a capo. Chi poteva tradurlo?
Joze lo mise in guardia dalla candidata
proposta, Suor Agnes Zuzek, una missionaria medica slovena a riposo che
abitava in un convento nel sobborgo londinese di Ealing; aveva
reputazione di personaggio difficile, ma John la trovò «dolce ed
estremamente generosa». Ella tradusse a mano il lungo documento in
inglese, inviandolo a puntate a mano a mano che procedeva nel lavoro.
Non volle denaro. Così ora John aveva il testo in inglese, ma lo stile
era decisamente sloveno. Si dotò di un computer e si mise a rielaborarlo
in un inglese idiomatico.
Il diario era un gioiello. Era questa la
testimonianza di prima mano che stava cercando. Si commosse nel vedersi
citato come «il buon signor Corsellis». Molti altri riferimenti ai
britannici erano aspri e pieni di risentimento. John si rese conto che
il suo trauma stava riafforando, un trauma che aveva le sue radici in un
senso di colpa per quanto avevano fatto i britannici. E come testimone
britannico degli eventi, egli considerava suo dovere garantire che la
verità su ciò che era accaduto venisse a conoscenza del pubblico>>.
|