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  NOSTALGIA, UTOPIA E MUSICA POP
il caso di Once upon a long ago
di M. Maurizi
RACCE AMNESTICHE
Viaggio in Messico

LINÀMI
Nostalgia, utopia, musica pop

IVACE INQUISIZIONE
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O EHIUOI
Ritrovamento e ricostruzione...
Inciviltà cattolica

 

Quando nel 1987 uscì il video di Once upon a long ago, Paul McCartney era reduce da una serie di episodi non propriamente brillanti della sua carriera. La collaborazione con Hamish Stuart per l'album Press era stata unanimemente considerata fallimentare e i tempi di successi come Mull of Kintyre o Ebony and Ivory sembravano lontani. Solo la passione per il video sembrava riservare qualche soddisfazione a Sir Paul McCartney, come in Pipes of Peace del 1984. Un successo peraltro oscurato dalla terribile debacle di Give my regards to broad street, il film scritto, diretto e interpretato dallo stesso McCartney che pose la pietra tombale definitiva sulle sue aspirazioni cinematografiche, aspirazioni che risalivano all'infatuazione per l'avanguardia durante gli anni 60, alla sua frequentazione con Antonioni e il surrealismo con cui i Beatles condirono dischi e video all'epoca di Magical Mistery Tour.

L'uscita del video e del singolo Once upon a long ago furono generalmente salutati con entusiasmo. O qualcosa di più. Il singolo accompagnava un semplice album di "greatest hits", intitolato All the best. L'aspetto commemorativo o autocelebrativo che il singolo sembrava sottolineare fin dal titolo, passarono immediatamente in secondo piano. Paragonato al delirio di onnipotenza che Micheal Jackson avrebbe riversato, in tempi più recenti, in History, l'album di Paul McCartney sembrava voler riproporre uno degli aspetti più evidenti e peculiari di tutta la sua produzione musicale: lo struggente desiderio di ciò che è andato perduto, la nostalgia dell'irrecuperabile.

Dai tempi di Penny Lane è diventato sempre più evidente quanto McCartney abbia più o meno segretamente coltivato questo sentimento, lo abbia sviscerato e travasato nelle sue canzoni continuamente. Una serie di immagini, idee e concetti ricorrenti fanno da sfondo ad una ricerca quasi ossessiva dell'origine, vissuta ora nella forma del ricordo infantile (Penny Lane) ora in quello dell'abbraccio con la natura (Mother Nature's son). Questa tendenza alla nostalgia rimane uno dei filoni preferiti della carriera di McCartney, accanto alle canzoni d'amore e a quelle poche, pochissime, dedicate a temi più "seri" o impegnati (le quali, sia detto tra parentesi, non vanno mai al di là della ingenua e rassicurante critica dell'uomo della strada). Si può dire senz'altro che i testi e le canzoni dedicati alla celebrazione della nostalgia siano le cose migliori che McCarteny abbia fatto, almeno per quanto riguarda la sua carriera da solista. Certo, a causa della predilezione per i giochi linguistici e il surrealismo kitsch di molti suoi testi, questo aspetto non è sempre facilmente identificabile. È vero che nei momenti in cui si lascia andare McCartney diventa più diretto, a volte fin troppo naïf, ma quello che vorremmo sottolineare qui è il fatto che anche laddove McCartney sembra apparentemente parlare d'altro non manca di inserire riferimenti al tema della Sensucht. McCartney esemplifica perfettamente uno degli aspetti principali dell'industria culturale: la sua ambigua relazione con l'ideologia, il fatto che essa si faccia tanto complice delle tendenze regressive delle masse quanto arrivi a dare voce alla loro sofferenza e deformazione interiore.

La musica attacca con un'alternanza di accordi di settima maggiore: Fa e Do. L'armonia dondola su questi accordi, rispettivamente sottodominante e tonica, creando un movimento minimo e circolare. Salendo sul quarto grado e poi ricadendo immediatamente sul primo, gli accordi sembrano quasi suggerire un respiro che si alza e si abbassa dolcemente. Non c'è alcun climax, né viene accennata alcuna direzione di marcia. I due accordi variano di poche note (do-mi-sol-si, fa-la-do-mi), col do che lega e accentra a sé il movimento accordale e il mi che funge ora da terza ora da sensibile. L'armonia è, quindi, pressoché immobile. Su di essa si impone il canto di McCartney costruito anch'esso attorno al do, su cui insiste ostinata la voce.

La melodia della strofa è costituita da due frasi musicali identiche (A1, A2), da un breve picco melodico (B) e una altrettanto breve chiusura (C). A1 è un carosello di appena tre note (do-re-mi), un gesto infantile, una melodia talmente elementare da mimare perfettamente le filastrocche dei bambini. Dopo aver saltellato sul do la voce di McCartney, snodandosi sull'accordo di Famaj7, corre via e come in un girotondo vi ritorna prontamente. Quindi la melodia si ripete identica (A2), ma questa volta l'armonia è cambiata in Domaj7, la voce ripropone la sua conta giocosa mentre il respiro accordale suggerisce un ritmo placido e ciclico. Nel mondo ingenuo e infantile di McCartney la Natura non può essere altro che questo placido e ciclico alternarsi di momenti, questa unità quieta, questo respiro sommesso. Il binomio Natura-infanzia, che costituisce il leitmotiv dell'intero brano e che diverrà esplicito nel ritornello è qui suggerito con mezzi esclusivamente musicali. Il vociare e lo schiamazzare dei bambini, incurante di quel ciclico ritmo della physis, ne è tuttavia parte integrante, irichiami ai giochi d'infanzia fanno da contrappunto all'invocazione alla natura per tutto il brano. Così, nella terza strofa, dove il gioco consiste nel far volare un palloncino, al nostro "blowing" la Natura risponde con un "windy day" (Blowing balloons on a windy day/ Desolate tunes with a lot to say/ Tell me darling, what have you seen?).

Il picco melodico in B è raggiunto facendo salire la voce al quinto grado superiore per ridiscendere su fa-mi-do e reintrodurre nuovamente l'accordo di Famaj7. La voce inciampa sul passaggio fa-mi, le cui note sorreggono la dissonanza costitutiva dell'accordo di settima maggiore (il I e VII grado), e questo fornisce il picco espressivo della strofa. Non a caso McCarteny fa cadere qui l'invocazione all'esterno, "Tell me Darling", unica lacerazione dell'andamento monologante e lirico che caratterizza tutto il resto del brano. Dopo questo breve picco, la melodia chiude (C) in modo un po' amorfo sul do appoggiandosi al sol, suggerendo una sorta di cadenza "melodica", l'unica possibile per un moto armonico circolare che non produce di per sé alcun accenno di fuga né, quindi, di vera e propria sosta.

Picking up scales and broken chords

Puppy dog tails in the House of Lords

Tell me darling, what can it mean?

Il testo inizia con un accenno autoreferenziale al tessuto musicale della strofa: le scale e gli accordi spezzati che abbiamo appena analizzato vengono richiamati esplicitamente. Accompagnati dall'oscuro riferimento alla Camera dei Lord la prima strofa conclude con l'invocazione al soggetto esterno chiedendo un aiuto a carpire il senso di ciò che si sta dicendo. I testi di McCartney sono spesso di difficile interpretazione; anzi, il più delle volte sembrano, soprattutto la tarda produzione dei Beatles e il periodo Wings, recalcitrare ad ogni lettura sensata, chiudendosi in un vortice di associazioni, allitterazioni e giochi di parole. Giocando col nonsense, McCartney ha sempre dato più importanza al valore sonoro delle parole che al loro significato. L'accento sul valore materico della lingua ha sempre fatto da sfondo al tentativo di forzare i limiti del linguaggio concettuale, di giungere ad una sfera espressiva oltre la cultura: dunque, verso la natura. McCarteny non è un intellettuale come Demetrio Stratos, la cui ricerca linguistica andava oltre la semplice dicotomia di natura e cultura e poneva in questione, marxianamente, la relazione che sempre determina il valore dell'una e dell'altra. McCartney si accontenta di quest'immagine stereotipata della natura e per lui la negazione della logicità, l'impenetrabilità di un costrutto linguistico trasforma ipso facto l'espressione in un simulacro del naturale, seppure ottenuto, negativamente, attraverso la soppressione del valore simbolico dei termini. Ma ora questo gioco sembra non bastare più. Quel "Tell me darling" è una richiesta di aiuto, un tentativo di spezzare l'autismo cui è condannata la lingua quando vuole accedere a sfere superiori, trascendere la propria quotidianità. Non si chiede più giocosamente "What's it all to you?" come in C Moon. L'autoironia di quel brano, in cui McCartney faceva il verso ai suoi esegeti - costretti a fronteggiare le oscurità macchinose di brani come Monkberry Monn Delight o Spirit of Ancient Egypt - è qui dissolta. La richiesta del senso si fa seria anche se non tragica.

Making up moons in a minor key

What have those tunes have to do with me

Tell me darling, where have you been?

Il mistero che colpisce l'io narrante e lo spinge a interrogarsi viene svelato da questa seconda strofa. La domanda che viene sollevata dal soggetto monologante del brano riguarda la sua stessa capacità di fare musica, di "costruire lune in chiave minore" (un riferimento alla Sonata n.2 op. 27 di Beethoven?). "Cosa hanno a che fare queste melodie con me?" si chiede McCartney, quelle melodie che più tardi definisce "Desolate tunes with a lot to say"; qui, il suo interrogativo coinvolge il senso stesso della musica, il suo potere ammaliatore, la sua riconosciuta capacità di far vibrare qualcosa di intimo nell'animo umano. La domanda sulla Natura viene traslitterata come domanda sulla Musica, quasi che fosse possibile tramite questa guadagnare una chiave di accesso privilegiata. Che la musica abbia a che fare in modo profondo con la Natura è un assunto che dalle geometrie pitagoriche agli aneliti romantici non è mai passato di moda. Che si tratti di chiare leggi matematiche o di oscuri moti inconsci, la musica sembra possedere un'affinità elettiva con la destinazione cosmica dell'essere umano. Ciò è dovuto alla sua fraintesa immediatezza. Considerata un linguaggio universale seppure privato di concetto, e probabilmente proprio in forza di questa sua peculiare mancanza, la musica possiede una capacità persuasiva che contraddice palesemente il suo mutismo concettuale. In ciò essa assomiglia indiscutibilmente alla natura cui si ascrive, in modo del tutto grossolano e oscuro, questo suo potere comunicativo. Ma questa immediatezza è del tutto illusoria. La musica può essere considerata sia ars aritmetica come voleva Leibniz, sia come espressione diretta della volontà di vivere, come in Schopenhauer. McCartney esplicita questo dualismo nella quarta strofa, dove vicino all'immagine lirica di un musicista che suona da solo le sue chitarre su un palco vuoto, affianca il riferimento alla necessità di organizzare il materiale musicale secondo strutture che sembrano non avere nulla a che fare con il valore emotivo della musica ("Playing guitars on an empty stage/ Counting the bars of an iron cage"). Le battute in cui essa è scritta e che occorre addirittura contare e catalogare razionalmente sono, per questa concezione romantica del fare musica solo una "gabbia". La musica sembra divincolarsi per spezzare questa gabbia di ferro e raggiungere la pura espressività. Tuttavia, entrambi questi momenti, quello logico e quello espressivo, le sono immanenti. La musica è sempre, ad ogni latitudine e tempo, l'una e l'altra cosa. E tuttavia per ogni latitudine e tempo la musica è iscritta in un sistema culturale che ne determina le modalità di costruzione logica e le valenze simboliche e, dunque, emotive che a quella corrispondono. La "serenità" del raga della sera non può essere senz'altro percepita dal borghese colto occidentale, così come per il musicista indostano la rigida distinzione fra modo maggiore e minore (e la consueta associazione di stati d'animo, rispettivamente "allegro" e "triste") non può che apparire grossolana e arbitraria. Così essa non appare certo a McCartney che anzi ne ha fatto un uso costante in tutta la sua produzione: da Things We Said Today a Fool On the Hill, da Love in Song a Somebody who cares. Il ritornello di Once Upon a Long Ago è, dunque, costruito su un passaggio dalla tonalità di do maggiore a quella di do minore. Il cambio di tonalità suggerisce insieme al testo anche un cambiamento emotivo. La voce solitaria dell'io narrante sembra chiudersi in sé, proiettarsi nel ricordo.

Once upon a long ago

Children searched for treasure

Nature's plan went hand in hand

With pleasure

Such pleasure

Il passaggio armonico che costituisce il ritornello, benché inatteso, non risulta violento all'orecchio. Ciò risulta particolarmente sorprendente se si pensa che non solo l'armonia ma persino l'andamento melodico si fanno più mobili e ricchi che nella strofa. Pure il ritornello sembra, proprio per questa sua diversità, integrarsi perfettamente col resto. La sequenza accordale mantiene nell'insieme una certa freschezza e spigliatezza, benché proceda stabilmente sui gradi fondamentali della scala: Dom-Sol-Dom-Labmaj7-Fam-Sol-Dom-Do11.

Ad uno sguardo generale la progressione sembra un unico viaggio che riconduce dal Do minore al Do maggiore, una discesa improvvisa nella malinconia e un pronto ritorno alle atmosfere rarefatte ma terse della strofa. L'uso della dominante maggiore assolve l'ambiguo compito di rafforzare da un lato il senso di desolante tristezza del Do minore e, dall'altro, di tenere aperta la porta alla risoluzione in maggiore, prontamente eseguita sulle parole "such pleasure". Eppure questa ambiguità e l'andamento altalenante di tutto il ritornello smentiscono questa prima lettura. Non si tratta solo di una discesa nel ricordo struggente e di un ritorno ad un presente sereno; il tema portante di tutto il brano è la nostalgia dove passato e presente si coappartengono. Ad un'analisi più attenta ciò diviene manifesto. La progressione è divisibile in tre momenti distinti corrispondenti alle frasi "Once upon a long ago children searched for treasure" (Dom-Sol-Dom-Labmaj7), "Nature's plain went hand in hand" (Fam-Sol), "With pleasure, such pleasure" (Dom-Do). I passaggi armonici Dom-Sol e Dom-Labmaj7 assolvono funzioni diverse, finanche contrapposte. L'alternanza Dom-Sol-Dom rafforza la tonalità appena stabilita con un canonico passaggio I-V-I. Subito dopo, il Labmaj7, un accordo più aperto e instabile, svela le possibilità nascoste della nuova tonalità, indicando possibili sviluppi e modulazioni, peraltro regolarmente contraddette. Le strutture armoniche della musica rock sono cieche, ovvero non sono costruite in modo del tutto intenzionale. Laddove la musica d'arte si muoveva in molteplici direzioni contemporaneamente (melodiche, armoniche, ritmiche, timbriche, architettoniche etc.) per la costruzione di un intero determinato attraverso i particolari, la musica leggera è costruita per sovrapposizione di momenti che non si integrano perfettamente col tutto. In genere la totalità del brano è determinata a priori da norme convenzionali (strofa, ritornello, assolo etc.) che a differenza di quelle in uso nella musica cosiddetta colta, non hanno la stessa elasticità, la stessa capacità di organizzare con libertà il materiale musicale. Lo stesso dicasi per i mezzi attraverso cui questo materiale viene, nel dettaglio, creato e arrangiato. Nel ritornello che stiamo analizzando, ad esempio, per introdurre l'accordo di VI bemolle si è dovuto ricorrere ad uno scivolamento del basso (do-sib-lab) per ingenerare un senso di moto che potesse giustificare l'andamento armonico e renderlo accettabile all'orecchio. Molte di queste sottigliezze non vengono più percepite come tali dall'orecchio medio in quanto sono in uso da quasi un secolo. Passano così per ovvi e scontati passaggi che, seppure erano in uso un tempo anche nella musica colta, non avrebbero avuto in sé alcun senso strutturale; nella musica colta quelle configurazioni ricevevano dall'insieme il proprio valore di posizione rispetto al tutto, assumendo un significato all'interno di una trama di particolari e perdendo in questo modo la propria aria stantia, il lezzo del "mestiere". Un compositore abile, in altri termini, era sempre capace di dare respiro agli usi che ereditava dalla tradizione in cui si iscriveva il suo operare. La musica leggera non conosce questa dialettica tra il tutto e le parti, si costruisce per sovrapposizione di dettagli; è vero che questi, in sé, possiedono una loro valenza logica ed emotiva, ma è anche vero che questo non permette di trasferire alla totalità del brano la stessa cogenza e lo stesso trasporto. Ogni scelta, ogni immagine, ogni gesto accenna verso una direzione che viene contraddetta dalle altre scelte, dalle altre immagini, dagli altri gesti. Questi particolari animano l'universale dell'opera privo di vita, attraversandolo con scosse elettriche: il tempo della musica leggera è un insensato delirium tremens. La caratteristica del rock quindi, ma è un carattere che appartiene di diritto al modus operandi di tutta l'industria culturale dal cinema alla televisione, è in genere quella di incatenare l'ascoltatore con i frammenti impazziti dell'arte ormai defunta, di sedurlo con un collage assurdo composto di frammenti di senso che i fruitori d'arte hanno definitivamente perduto; per quanto problematico, l'assunto secondo cui un tempo c'era un'affinità tra spettatore e opera d'arte che si è gradualmente dissolta, non va rifiutato del tutto. Il percorso che l'arte contemporanea ha seguito, fino in fondo, in direzione dell'incomunicabilità lo testimonia con troppa evidenza. Vero è che questo non avvalla nessuna laudatio temporis acti; nessun lamento reazionario contro la presunta decadenza dell'arte contemporanea è ancora lecito. Quel percorso di alienazione dal pubblico non solo è stato necessario ma era anche, senza dubbio, giusto. L'industria culturale si propone di cucire la ferita tra opera e spettatore, in questo risiedono il suo grande inganno e la sua importanza oggettiva. Un danno, perché i prodotti dell'industria danno ad intendere di aver sanato una ferita che non può essere sanata con mezzi esclusivamente artistici, una ferita che affonda la propria ragion d'essere in un disagio sociale che è reale e a cui l'arte del novecento ha risposto con la precisione di un sismografo. Ma la cultura di massa nello stesso momento in cui inganna i suoi fruitori, chiudendo loro occhi e orecchie con la sua assordante sarabanda, offre loro quel momento di immediatezza, di immedesimazione, di abbandono che è non tanto il correttivo quanto la cattiva coscienza dell'avanguardia chiusa nella sua autarchica purezza, colpevole di rigenerare il mondo nelle cantine e nei concorsi, senza sfiorarlo con un dito. Non soltanto la divisione del lavoro assegnando l'avanguardia ad un ramo specifico dell'industria, privandola di ogni potere critico nei confronti delle strutture che la ospitano e ne permettono la riproduzione, la trasforma, di fatto, in un distretto del mondo delle canzonette. È vero anche il contrario; poiché la canzone diviene il rifugio, meglio sarebbe dire: la prigione, dell'immediatezza perduta, essa assume di diritto il rango e il valore dell'arte d'avanguardia nel momento in cui questa ha perso ogni possibilità di trascendere il nostro orizzonte culturale. Il Labmaj7 del ritornello di Once Upon a Long Ago si impone, perciò, come un momento di respiro rispetto all'alternarsi di gradi fondamentali che lo precede (IV-I, I-V-I), come schiudimento di un orizzonte sonoro del tutto inedito. L'apertura che così si genera, che cade proprio sulla parola "treasure", è - come la caccia al tesoro dei bambini richiamati nel testo - solo un gioco, una scusa. Il tesoro che si cerca molto probabilmente non c'è, è un sogno; questo è il segreto della magia di ogni caccia al tesoro che non rinuncia al gioco infantile in nome del risultato garantito. È la passione dell'utopia, una ricerca che non sa se ciò che cerca esiste e che, pur tuttavia, non rinuncia alla ricerca. E la tristezza delle cacce al tesoro ufficiali, quelle dei "grandi", in cui il fatto che il tesoro sia garantito toglie gran parte del fascino alla ricerca dello stesso, è una sensazione assente da questo mondo infantile. Ma McCartney non sa rinunciare a chiamare la Natura per nome, inconsapevole del fatto che l'incanto che quel nome esercita si spezza nel momento in cui si pretende di possederlo. E così infrangendo i divieti che fanno dell'utopia (e la natura è l'immagine mitica che da Rousseau in poi riveste la richiesta dell'utopico) ciò che è massimamente intangibile, cade in balia delle ideologie reazionarie che fanno dell'arcaico, vagheggiato come originario, il segno del Vero e dell'Eterno. Quando il tempo del mito, "c'era una volta...", viene pensato come storico e non già come extrastorico, la regressione è inevitabile. L'antico riceve il segno della pienezza originaria e l'oggi il marchio infame della decadenza e della perversione. Il fascismo si alimenta di questa sensazione e di questa ricerca del tempo perduto. Il secondo momento del ritornello, quello in cui la Natura entra in scena chiamata per nome e non più solo tramite allusioni ed ellissi, è decisamente affermativo; la musica introduce i "piani della Natura" come su una marcia trionfale che verrà esplicitata dal tutti nei momenti strumentali che concludono il pezzo con tanto di brass sintetici e incedere marziale. Qui, tuttavia, il passaggio è ancora lirico, la voce scandisce le parole su intervalli di quarta, scendendo di un semitono dall'accordo di Fam a quello di Sol (mib-lab, re-sol). La chiusura, tra il tenero e il mesto, fa scivolare la melodia sulla terza della tonica in modo ancora minore e, infine, sulla nota fondamentale dove l'armonia si scioglie definitivamente in un solare Do maggiore. Dopo essersi arrestata brevemente con malinconica attesa sulle parole "with pleasure", il cambio di tonalità viene, dunque, introdotto mentre la voce scandisce "such pleasure". L'effetto della risoluzione, complice anche il testo, è quello di un mistico e trasognato risveglio e benché non sia affatto risolutivo da un punto di vista armonico e strutturale non è privo di efficacia. Non è dunque strano che McCartney abbia scelto questa chiusura così fiacca invece di quella più diretta e canonica che gli si offriva dopo aver costruito il breve crescendo sul Fam-Sol. Ma una risoluzione V-I avrebbe avuto il segno di una chiusura definitiva e di una cesura tra passato e presente, cosa che non è affatto suggerita dal testo né dall'intenzione complessiva del pezzo. Il Do maggiore non reintroduce semplicemente il quotidiano dopo il vagheggiamento di un passato irrimediabilmente perduto; il passato è vissuto come immagine mitizzata non per essere consumato a piacimento dal presente ma perché nella sua icona sta l'incanto che il presente non può offrire. La nostalgia non agisce separando così nettamente il passato dal presente, ma li sovrappone costantemente perché il presente è come stregato dal proprio passato. Nella nostalgia è in tal modo viva la sensazione del possibile. Nel rimpianto per ciò che non è più si nasconde la speranza per ciò che un giorno, forse, potrebbe essere. La nostalgia è il rimpianto del domani e non di ieri. Non è un caso che proprio la strofa ci presenti immagini vaghe di una realtà dai contorni sfumati e trasognati, mentre il ritornello si apre con un "c'era una volta..." che sa proprio di cronaca di un passato recente (i bambini che cercano il tesoro, la Natura ancora parzialmente incontaminata come poteva ancora apparire ad un'infanzia spesa, come quella di McCartney, nel primo dopoguerra) piuttosto che di un mondo mitico e irraggiungibile. È l'oggi che ha i contorni sfuocati di una realtà irreale, di un assurdo che non può essere.

 


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