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"Queste
riflessioni non dipendono dalla fede, ma sono deduzioni ricavate
dall'analisi razionale dei fatti".(1)
Sarà bene per i filosofi cattolici, dopo la comparsa dell'articolo
Gli animali hanno "diritti" ? su La Civiltà Cattolica
il 20 Febbraio 1999, porre questa affermazione all'inizio,
non alla fine delle proprie riflessioni. Il lettore sarà così
avvisato in anticipo che ha l'obbligo di proseguire la lettura
con l'attenzione che merita uno scritto che procede in maniera
razionale, addirittura deduttiva. Per parte mia devo confessare
di essere rimasto sorpreso da quella frase, così ingenuamente
pretenziosa e un po' fuori moda. I motivi di tale sorpresa sono
numerosi. In primo luogo il tenore delle riflessioni che la precedevano.
Una goffa e affrettata (tempi e spazi editoriali voglio sperare)
arringa contro l'animalismo "estremo" (?) nella quale
un'ambigua terminologia hegelo-tomista convive con spezie ebneriane
e/o buberiane, in un concentrato di vulgata filosofica e precettistica
parrocchiale. Il concetto sul quale si insite prepotentemente
(non quello centrale perché l'argomentazione non è evidentemente
centrata su nulla) è quello di spirito. Varrebbe la pena di citare
il brano per intero ma risulterebbe troppo noioso.
Che cosa significa infatti che
l'uomo è una "persona"? Significa che l'uomo è un
"sussistente spirituale". E' cioè un essere che "sussiste",
vale a dire che esiste in sé e per sé, che si possiede, che
esiste come "soggetto" e non come oggetto. [...] L'uomo
è [...] un Io capace di entrare in relazione con un Tu [...]
E' un essere dotato di un corpo materiale, che lo accomuna agli
altri esseri viventi, e di un corpo immateriale, che cioè non
viene dalla materia e non si estingue col dissolversi del corpo.
[...] Un atto materiale come il mangiare, che l'uomo ha in comune
con l'animale, può diventare un segno di amicizia ed esprimere
la gioia di stare insieme; il camminare può diventare un "pellegrinaggio".(2)
L'autore di queste frasi sembra
essere all'oscuro dei cambiamenti profondi e dei problemi cui
la filosofia e la scienza hanno costretto il pensiero umano da,
diciamo, circa trecento anni. In effetti, tale capolavoro di dilettantismo
filosofico sembrerebbe più opera di un parroco di buone letture
che un tentativo serio di entrare in un dibattito ampio e complesso
come quello della fondazione etica (al quale la problematica animalista
è strettamente connessa). Poiché tale dibattito si svolge a ben
altri livelli, non mi sarei mai aspettato che questa esercitazione
amatoriale potesse minimamente pretendere di fornire elementi
di riflessione validi e razionali. Poteva, certo, essere un contributo
al dibattito teologico sull'animalismo (ma anche qui ho i miei
dubbi che esso costituisca uno standard decoroso) non certo un
contributo filosofico. Eppure, la pretesa dell'articolista è quella
di fornire "deduzioni" (sic). Questo, nonostante
un discorso filosofico non abbia bisogno di autoproclamarsi "razionale"
ma lascia che tale requisito appaia autonomamente. Il fatto che
l'articolista abbia sentito tale bisogno fa sorgere il sospetto
che sia in mala fede. Oppure che non arrivi proprio a capire la
differenza fra la riflessione critica e lo sproloquio confuso
e arrogante.
Il gesto noncurante con cui viene liquidato il vasto ambito di
problemi posto nelle pagine precedenti (dedicate all'esposizione
del pensiero animalista) dimostra un'insensibilità all'argomentazione
razionale che nessuna dichiarazione di principio può cancellare.
Il tema della sofferenza animale, ad esempio, schiude di fronte
a sé questioni enormi. Il problema radicale, non è la "soglia
di sofferenza" che sarebbe diversa non solo da specie a specie
ma da individuo ad individuo, per cui di fronte allo stesso stimolo
doloroso, alcuni [possono] soffrire di più, altri di meno e altri
sentirlo assai poco e -in qualche caso- non sentirlo affatto.
[...] Gli animali hanno [...]
sensazioni di dolore e piacere. Ma "come" soffrono?
Come può l'uomo comprendere ciò che l'animale "sente"
quando soffre o prova piacere?(3)
La questione centrale è quello della
nostra capacità di "conoscere" gli stati psicologici
di altri soggetti (non solo animali). Che gli animalisti debbano
fare i conti con questo problema è indubbio. Ciò non significa
che esso non costituisca un problema anche per chi animalista
non è. Che io sappia cosa prova un'altra persona quando ridiamo
alla stessa battuta, quando soffre del mio stesso male, quando
si autorappresenta come essere senziente, quando raggiunge l'orgasmo
etc. è un'esigenza del buon senso e, a rigore, è una convinzione
che non ha alcun fondamento. Figuriamoci cosa si potrebbe dire
di persone che pretendono di condividere un'esperienza tanto complessa
quanto la "fede". Se si volesse esser coerenti su questo
punto dovremmo abbracciare uno scetticismo radicale e condannarci
al mutismo e all'inazione. Bastano comunque poche righe per vedere
il nostro scettico cadere in fallo, trasformarsi in dogmatico.
[...] Noi non possiamo sapere
come gli animali "sentono". Non si può dunque affermare
che gli uomini e gli animali siano eguali nel dolore.(4)
Da un punto di vista logico questa
si chiama contraddizione. Se il rapporto fra A e B ci è sconosciuto
(essi sono incommensurabili), tanto l'affermazione della loro
uguaglianza quanto quella della loro disuguaglianza sono prive
di fondamento. L'abisso in cui cade questo solipsismo radicale
è, probabilmente, senza uscita. Ecco perché i filosofi se ne son
tenuti generalmente alla larga. Ma una volta chiamato in causa,
l'argomento dell'inconoscibilità degli stati mentali altrui non
può essere revocato tanto facilmente. L'animalismo, comunque,
non ha a che fare con false sottigliezze filosofiche del tipo:
le urla strazianti del maiale macellato testimoniano una qualche
forma di desiderio di essere altrove dovuta al non quantificabile
fastidio che gli stanno infliggendo? La formulazione stessa di
questa domanda è già una sentenza di morte nei confronti dell'animale.
Se è possibile identificare la sofferenza (e il buon senso
tanto reclamato dallarticolista ci costringe ad ammetterlo)
l'argomento dell'inconoscibilità dell'ampiezza di tale sofferenza
è assolutamente fuori luogo e, a mio avviso, si ritorce contro
chi lo formula. Soprattutto quando questi ha l'ardire di formulare
pensieri come il seguente la cui falsità (palese) è seconda solo
all'ignoranza che malcela.
Le maggiori sofferenze agli animali
sono causate non dagli esseri umani, ma dai fenomeni della natura,
come la siccità, le carestie, le alluvioni, gli incendi e, soprattutto,
dagli stessi animali che si uccidono fra loro con estrema ferocia
e si divorano.(5)
Che i "ferini" siano "feroci" non sorprende
nessuno. Il senso spregiativo del termine dovrebbe valere per
l'uomo quando, nonostante la propria decantata "superiorità",
organizza e perpetua lo sterminio di milioni di animali provocando
loro (singolarmente e collettivamente) sofferenze enormemente
maggiori di quelle che proverebbero in natura (ammesso, e non
concesso, che di natura si possa parlare tanto ingenuamente).
La lotta fra il leone e la gazzella avviene in un contesto determinato
in cui entrambi crescono e vivono, in cui la possibilità di vita
o di morte è giocata in parità. La gazzella sa (a modo suo) che
esiste la possibilità di venire uccisa, il leone sa che la gazzella
fuggirà. Per entrambi quello è il loro ambiente, quelli sono i
loro ruoli. Essi si trovano da sempre in una situazione di sofferenza
(fame, morte violenta, carestia, siccità etc.) di cui sono attori.
Tale situazione non è in loro né in nostro potere. Tutta la "ferocia"
animale possiede queste caratteristiche. Essa è una ferocia "ambientale"
prima ancora che individuale. L'istinto di uccidere che il leone
non potrebbe controllare è solo un ingranaggio di un meccanismo
di cui egli stesso è una parte. La differenza fondamentale con
la ferocia umana è evidente. Laboratori, industrie farmaceutiche,
cosmetiche e d'abbigliamento, allevamenti intensivi, zoo, circhi
etc. sono ambienti in cui l'animale viene introdotto a forza,
cresciuto dalla nascita o costruito geneticamente per provocargli
dolore, privazione e morte. Il crudele artefice di queste "situazioni
di sofferenza" non è l'impersonale Natura, ma l'uomo. Anzi
uomini determinati, noti, con nome e cognome. Ancora una volta,
però, il genio filosofico del nostro etologo si lascia sfuggire
il problema essenziale. Tale problema, che, anche qui, è cruciale
non solo per l'animalismo, riguarda la possibilità di pensare
il rapporto uomo-natura, rapporto che per gli animalisti si è
sempre espresso nella forma del dominio sulla natura. Come dobbiamo
pensare e praticare il rapporto con la natura che ci circonda
e che noi stessi siamo? Possiamo veramente considerarci fuori
di essa? Il concetto di Natura non è in sé problematico? Quando
comincia la violenza dell'uomo nei suoi confronti? E' possibile
pensare un ordine diverso? Meno violento? Più giusto? L'affermazione
di P. Singer al riguardo è, per quanto giusta e illuminante, solo
la posizione del problema: "Una volta abbandonata la nostra
pretesa di dominio sulle altre specie, dovremmo smettere di intervenire
nella loro vita".(6)
Nessuno ha ancora una risposta soddisfacente a queste domande
culturali, economiche e politiche, ma l'animalismo costituisce
un punto di vista radicale (poiché cerca di affrontare il problema
alla radice) e pone esigenze profonde che non possono essere affrontate
con i paraocchi dell'apologia dell'esistente. Altrimenti si rischia
di fraintendere i nodi della questione e balbettare di problemi
secondari, se non inesistenti. Ma occorre dare atto al nostro
filosofo che non ha ancora dato il meglio di sé. Le questioni
affrontate finora sono state risolte facendo ricorso al "buon
senso". Il piatto forte dell'articolo dovrebbero essere le
questioni "filosofiche". Che sia problematico (e forse
è già un atto di barbarie) distinguere risposte "filosofiche"
e risposte del "buon senso" è una questione che non
viene posta. In compenso però si continua a produrre parole e
a mancare le questioni essenziali. E' il caso del presunto "cavallo
di battaglia" dell'animalismo.
[...] Il caso degli "uomini
marginali" (bambini, ritardati mentali, cerebrolesi e comatosi).
A queste persone si riconoscono diritti alla vita e alla protezione
giuridica, pur essendo "al di sotto del livello di coscienza,
di consapevolezza di sé, di intelligenza e di provare dolore,
di molti non umani". Ora, "se è sbagliato togliere
la vita a un bambino abbandonato e gravemente cerebroleso, deve
esser ugualmente sbagliato uccidere un cane o un maiale che
abbiano livello mentale paragonabile".(7)
Che questo argomento rivesta un
ruolo centrale per gli animalisti è una fantasia di S. Castignone
e F. D'Agostino e di tutti quelli che pensano che l'animalismo
nasca da astratte esigenze di filosofia morale o del diritto.
Per l'animalismo il "riconoscimento dei diritti" è uno
strumento, non un fine in sé. L'argomento degli "uomini marginali"
potrà assumere un ruolo centrale per chi fondi il diritto alla
conservazione della vita sulla base del livello di consapevolezza,
intelligenza e sensibilità al dolore. Per quel che mi riguarda
esso è un argomento ad hominem, vale cioè contro quelli che fondano
il godimento dei diritti sul possesso di determinate caratteristiche
psichiche. Il vero problema, e questo gli animalisti lo sanno
bene, è che non esiste alcun fondamento all'attribuzione dei diritti
a tale soggetto piuttosto che ad un altro. Tali presunti fondamenti
vengono creati ad hoc solo nel momento in cui soggetti non protetti
accampano pretese che minacciano posizioni di privilegio, scatenando
sempre la difesa di un potere, di un ordine di cose, che non si
vuole mettere in discussione. La partita per i "diritti animali"
si gioca su un piano politico, mentre la difesa dello specismo
si nasconde dietro formulazioni teoriche di comodo.
Il nostro teorico del diritto, infatti, procede imperterrito nelle
sue confutazioni e ci propone un'altra fondazione giuridica (ed
etica) presumibilmente definitiva: il concetto di "dignità"
. A dire la verità ce ne propone tre, perché accanto a quello
di "dignità" troviamo il concetto di "persona"
e quello di "spirito". Che i cattolici (e non solo loro
purtroppo) sanciscano il diritto di torturare animali sulla "dignità"
umana non è un fatto nuovo. Di solito però non vogliono (presumibilmente
perché non possono) spiegare in cosa consiste tale "dignità
umana". Se essa è un'idea innata, dovrebbero spiegarci perché
animalisti come me non ne sentano la cogenza. La novità con cui
dobbiamo confrontarci è il tentativo di derivare tale cogenza
dal concetto di "persona" e quest'ultimo da quello di
"spirito". L'argomentazione, l'abbiamo visto all'inizio,
è stringente. L'uomo è spirito, lo spirito ritorna in sé e si
riconosce, il riconoscersi è dire "Io", dire "Io"
è "essere persona", "essere persona" è avere
dignità, avere dignità è non essere animali. Animali no, ma asini
sì. Invece di dire semplicemente "l'uomo ha la dignità"
si dice "l'uomo ha la dignità perché è persona ed è persona
perché è spirito". Ma la domanda allora si sposta, non è
soppressa. Cos'è "persona"? Perché gli animali non sono
"persona"? Risposta: perché non sono "spirito".
Che cos'è "spirito"? etc. etc. Nel prossimo articolo
di Civiltà Cattolica prevedo un passo ulteriore. L'uomo è spirito
perché è "xcdfkljerern". A questo punto verrebbe voglia
di uscire da questo museo degli orrori. Chi è più infastidito:
l'animalista o il filosofo? L'animalista, che si vede ridotto
come sempre ad un bersaglio di comodo, da parolai che fanno di
tutto per non parlare di atrocità e sofferenze, nascondendosi
dietro questioni astratte e parziali, distogliendo lo sguardo
dalla società per focalizzarsi con sguardo miope nei loro libri?
O il filosofo, che, consapevole della problematicità non solo
degli apparati concettuali tradizionali, ma dello stesso procedimento
argomentativo, si trova ogni volta costretto a sforzi incredibili
per raggiungere risultati seri ed onesti in un panorama culturale
quanto mai frammentario e problematico? E' ancora possibile spacciare
per filosofia i discorsi generici costruiti su due o tre concetti
presi a caso dalle proprie letture preferite? I problemi sono
molti, lo abbiamo visto, ma la filosofia è un "cammino"
pieno di ostacoli da superare il cui esito non è mai dato per
certo, non un "pellegrinaggio" su bus di lusso con soggiorno
garantito all'Hotel Verità. Se qualcuno non se la sente di affrontare
questi problemi perché è troppo faticoso o non rende, va bene.
Può tranquillamente tacere. La prima grave colpa di questo e altri
scritti del genere si chiama disinformazione. La seconda ha un
nome più antico, anzi ne ha due: ignoranza e superbia.
NOTE
1).
Civiltà cattolica 20/2/1999, p. 331
2). cit.,
pp.329-330
3). cit.,
p.325
4). ivi.
5). cit.,
p.326
6). cit.,
p. 327
7). cit.,
p. 331
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