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  Paolo M. – III A – Scuola Media Statale A. Pacinotti – San Cesario sul Panaro – 02/2003
 

La stafeta partigiana

E sèmper in biciclèta
L’andeva sta povra stafèta,
cun ‘na sporta d’munisioun
e tanta vòia d’liberasioun.

Vistida piutost mel e poch
Da sembrer d’èser dal post
E po’, s’a gh’era bisègn
La gireva anch a la not.

Durmi mel, pati fredd,
salte di past, cate buferi
e po’, ciamòmla furtunèda
se la pèla la l’ha salvèda!

Che in tanti i gh’han ciapedi
Torturedi e po’ anch ma sedi,
seinza mai piu vèder la primavera.

C’la bela primavera dla liberasioun,
che tutt nueter a la speteven
per finir tanta distrusioun.

Di Argia Montorsi, di Carpi

 

Intervista a Fernanda Rossi Bortolotti

Fernanda Rossi, nata a Monteveglio in provincia di Bologna il 13 settembre del 1925, ha per molti anni vissuto a Ponte Rosso, vicino alla California, dove la sua famiglia lavorava un fondo che arrivava sino a  S. Cesario, e ha anche partecipato alla lotta partigiana durante la Seconda Guerra Mondiale.

Tutto è cominciato la notte dal 13 al 14 giugno 1944, in cui avvenne l’assassinio dei fratelli Artioli, famiglia di Ponterosso che viveva molto vicino alla casa di Fernanda. Alla casa della famiglia Artioli bussano alla porta: è Zamboni, vecchia conoscenza della famiglia, con un grande gruppo di squadracce fasciste alle spalle. Zamboni si era infatti già presentato qualche giorno prima davanti agli Artioli assieme ad un suo compare, tutti e due in borghese e in veste di sfollati, domandando dove fosse l’osteria California. Quella volta la famiglia li aiutò, dando loro da mangiare e da riposarsi e forse, la madre, avrebbe fatto intendere ai due presunti viandanti di aiutare i partigiani. I due uomini avevano però teso loro uno spaventoso tranello, perché cercavano proprio uno dei capi partigiani della zona di Piumazzo: Arnaldo Galletti, oste del locale della California. E così ora erano tornati, per farsi condurre da Galletti. Alla porta arrivano il padre e i due figli: Artioli Ermes (diciotto anni) e Artioli Giuseppe (sedici anni). Subito i fascisti cominciarono a picchiare il padre e a mettere sottosopra la casa poi dettero ordine a Giuseppe di accompagnarli alla bottega di Galletti e di chiamarlo. Arnaldo, intuendo che qualcosa non andava, se ne andò dal retrobottega e poco dopo, non avendo trovato chi cercavano, i fascisti si scatenarono su Giuseppe, colpendolo con bottiglie e poi sparandogli sul greto della strada, facendolo cadere nel fosso. A quel punto gli assassini tornarono alla casa, cominciarono a torturare Ermes e a raschiargli le sopracciglie e i baffetti. Poi lo fecero uscire e lo investirono con una raffica, facendolo stramazzare al suolo.
Questo fatto, assieme alla morte del padre che unitosi ai partigiani morì durante una battaglia all’età di quarantaquattro anni, portò Fernanda Rossi all’entrata nei gruppi partigiani.
Il ruolo che rivestiva era la STAFFETTA. Portava dei bigliettini segreti da base a base partigiana, mantenendo tutti i contatti fra le postazioni in zona. Più precisamente, lei portava informazioni nei territori di Piumazzo, S. Cesario, Spilamberto, Castelvetro e Puianello, cambiando rifugio in continuazione. Una staffetta partigiana (che poteva essere anche un uomo) doveva essere sempre ben vestita, ma non avere mai addosso dei calzoni, che identificavano una persona come partigiana. Inoltre non bisognava mai mettersi in mostra e si doveva saper scherzare con i soldati. Comunque, Fernanda non si è mai trovata in vera difficoltà nei suoi percorsi ed è sempre stata fortunata, tranne una volta:
Era a Castelvetro, a sera inoltrata, davanti alla Chiesa quando le campane del campanile cominciarono a suonare per segnalare l’ora del coprifuoco, dopo la quale chiunque fosse trovato a zonzo per le strade veniva subito ammanettato e portato in prigione oppure anche fucilato direttamente sul posto. Aveva pressappoco diciotto anni e immaginatevi in quale stato d’animo fosse, all’idea di essere presa, scoperta… Allora pensò bene di andare a chiedere rifugio a casa di parenti che abitavano in paese, ma appena bussato alla loro porta si sentì rifiutare il favore, siccome era un periodo in cui non ci si poteva fidare di nessuno e se per caso dei tedeschi o dei fascisti andavano a perquisire la casa, poteva essere ammazzata tutta la famiglia che vi alloggiava. Così si fece cinque o sei chilometri a piedi con la paura che qualcuno la vedesse, nel buio della notte, dirigendosi verso una stalla in cui si sapeva che c’era una base partigiana e dove avrebbe potuto passare la notte senza pericolo. Vi arrivò sana e salva ma lo spavento fu enorme.

Poi, alla fine del dicembre del 1944, avvenne il rastrellamento. I tedeschi infatti si misero sulle tracce dei due massimi esponenti della resistenza nel territorio: Neri Bruno e Calidori Maggio. Subito essi si recarono all’abitazione di Maggio (il comandante), alle case operaie di Piumazzo, ma non lo trovarono. Allora presero in ostaggio le sorelle Calidori, che comunque riuscirono a cavarsela. Non avendo trovato in casa Calidori, i tedeschi riuscirono a catturare Neri Bruno.
La notte fra il 29 e il 30 dicembre arrivarono alla casa di Fernanda le SD, reparti dell’esercito tedesco particolarmente spietati e violenti (ancor di più delle SS), con dei camion e una camionetta, accusandola di essere una partigiana. Fernanda si dovette arrendere, quando vide il volto di Neri rovinato e sconvolto dalle torture.
“Guardami”. Sussurrò Bruno. Poi tutti e due vennero caricati su uno degli automezzi, che raccolse anche altri partigiani (fra i quali Angelo Carini, minuto e con una gobba sulla schiena ma forte di carattere, detto Angiolino; Giovanni Turrini; Aldo Sola; Erminio Chiappelli) durante la notte, fra cui anche molte staffette. Bruno Neri aveva parlato e aveva detto tutto ai tedeschi, che stavano letteralmente distruggendo la Resistenza di Piumazzo. E pare anche che egli avesse fatto il nome in particolare delle staffette, ritenendo quindi poco importante il loro ruolo all’interno dell’organizzazione partigiana.
Le SD portarono i partigiani nel carcere di San Giovanni in Persicelo, dove rimasero fino al 6 di gennaio. Poi tutti vennero trasferiti nella prigione di San Giovanni in Monte, a Bologna dov’era il comando tedesco, la notte dell’Epifania, in cui c’era un freddo polare con una camionetta scoperta che si faceva spazio tra la neve.
I muri degli stanzoni del carcere bolognese, situato su di una piccola collinetta, presentavano crepe, derivate dai bombardamenti, nelle quali si riusciva a far passare un’intera mano.
I giorni passavano lenti e dentro si cercava di cavarsela. Don Fagioli, il prete, invece di dare Messa e fare la predica, informava i prigionieri di tutto ciò che stesse accadendo all’esterno. Intanto Fernanda si dava da fare, essendo diventata un po’ l’ “elettricista” del penitenziario. Infatti a Ponterosso, a casa sua, erano una di quelle poche e fortunate famiglie a possedere l’energia elettrica. La sua famiglia la prendeva dal palazzo del padrone, pochi metri più in là, e lei aveva imparato a destreggiarsi fra i cavi e contatti quel poco che bastava per fare saltare la luce e riaccenderla. Spesso venivano rinchiuse nella sua cella delle prostitute che riuscivano a portarsi appresso delle sigarette perché se le tenevano nel reggiseno, allora lei riusciva a farsene dare qualcuna e a provocare dei contatti fra i fili elettrici facendo andar via la luce, per poi andarsene a fare un giro perché la chiamavano per aggiustare l’impianto al primo piano.
A Bologna, Fernanda ebbe pure la possibilità di scappare dal carcere. Andò così:
Un giorno una suora, Suora Oliva, si presentò davanti alle sbarre della sua cella chiedendo se la poteva aiutare a portare dentro al carcere una damigiana di vino che si trovava fuori dal cancello. Ma facendo alla suora una promessa: non scappare, altrimenti o avrebbero ucciso sia la suora che lei o lei non sarebbero riuscita a riacciuffarla ma la suora in tutti i modi sarebbe stata presa. Fernanda, dopo averci pensato a lungo per qualche minuto, promise di non scappare appena uscita dal cancello. Allora venne aperta la sua cella e tutte e due si incamminarono verso l’uscita. Oltrepassati i cancelli chissà quali ripensamenti deve aver avuto, con la strada libera di fronte a sé… Tuttavia mantenne la promessa, sollevò la damigiana con le mani e rientrò all’interno della struttura.

Si rimase nelle celle fino a pochi giorni dalla Liberazione. Le forze tedesche, ormai allo stremo, presero gli uomini catturati e li portarono verso la tremenda sorte delle fosse di San Ruffillo oppure a Sabbiuno, dove in un calanco furono trovati dei cadaveri sotto una coltre di neve alta un metro. Le prigioniere donne, invece, non furono ammazzate, come sancito dalla conferenza di Ginevra. Fernanda torna a casa con la zia che, dopo essere stata a San Ruffillo al comando generale della Gestapo per avere il permesso che la nipote potesse essere rilasciata, la andò a prendere direttamente a San Giovanni Monte. A venire a casa con loro da Casalecchio c’era anche Onelia che cercava il padre, Aldo Sola, trovato poi morto a S. Ruffillo.

Subito dopo la fine della guerra, nel 1946, giunsero alla stazione Castelfranco Emilia dei bambini romani (il primo anno) e napoletani (il secondo anno). Ad essi numerose famiglie diedero ospitalità e Fernanda anche gli accompagnò a casa, constatando la grande povertà delle loro città, quale è Roma, dove i loro parenti mica controllavano la salute dei figli, controllavano le valigie.

Con la guerra, seppure in un periodo oscuro e amaro, le donne hanno dimostrato che sono alla pari degli uomini e che se la sanno cavare, avendo dovuto anche fare quelle mansioni quotidiane solitamente giudicate dell’altro sesso. Inoltre gli uomini erano entrati nella lotta partigiana perché vi erano più vincolati, piuttosto che andare al fronte oppure venire uccisi dai nazifascisti che andavano di casa in casa, mentre le donne non erano obbligate, erano volontarie.

 

 
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