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Il 1800:il romanticismo nato in Germania

Il 1800:il romanticismo nato in Germania

Il termine romantico viene usato dagli scrittori in contrapposizione al termine “classico” e sta ad indicare la dimensione emotiva e irrazionale, sentimentale, delle loro opere.
Il Romanticismo è un movimento culturale complesso, che presenta molte differenze fra i vari Paesi europei in cui si manifesta. Tuttavia le caratteristiche comuni sono:
Il sentimento: in opposizione agli illuministi che sostenevano il primato della ragione e il principio di uguaglianza tra gli uomini, i romantici rivalutano il sentimento, la passione, l’istinto, ed esaltano le differenze individuali. I romantici, inoltre, riscoprono la potenza creatrice della fantasia e credono che l’intuizione e il sogno possano interpretare, riflettere, i misteri dell’uomo meglio della ragione.
L’inquietudine: i romantici aspirano ad evadere dalla realtà perché la sentono come una prigione che soffoca la potenza creativa dell’io. Il contrasto con il mondo reale dà loro un senso continuo di infelicità e un’inquietudine che li spinge a cercare i più grandi valori: Dio, l’amore perfetto, gli ideali più alti della patria e dell’umanità. Per raggiungere ciò in cui credono, essi assumono a volte atteggiamenti di eroi ribelli pronti a violare ogni regola; altre volte diventano eroi e vittime condannati al dolore e alla noia.
La storia: i romantici attribuiscono alla storia un grande valore. Essa è maestra di vita, perciò gli uomini devono studiare la storia per capire sé stessi e le proprie origini. Gli uomini moderni devono scoprire le proprie radici, soprattutto nel medioevo, perché è quell’età, in cui si sono consolidate la lingua, le tradizioni e la religione di ogni Paese europeo, e si sono formati i primi Stati Nazionali. Bisogna cercare la propria identità nazionale nella cultura del popolo, nei suoi usi e costumi, nei dialetti, nelle fiabe, e nelle leggende che ogni generazione tramanda a quelle seguenti. 

IL QUADRO STORICO

L’età del romanticismo coincide con gli anni in cui la borghesia si afferma come classe dirigente e toglie il potere ai nobili, guidando grandi trasformazioni economiche, culturali e politiche. Si organizzano in società segrete, lottano contro l’assolutismo, vogliono l’umiltà e l’indipendenza. Con la rivoluzione industriale introducono nell’economia le regole del capitalismo e spingono l’Europa verso un ammodernamento tecnologico che cambia la vita delle popolazioni. Si spopolano le campagne e si sviluppa il fenomeno dell’urbanesimo: intorno alle fabbriche sorgono cantieri nei quali i lavoratori e le loro famiglie vivono in condizioni di miseria. L’Italia vede svilupparsi la propria industria in ritardo rispetto alle altre potenze europee. Tuttavia il clima culturale è molto vivace: intellettuali ed artisti vivono intensamente le vicende storiche e politiche del tempo, che si riflettono nelle loro opere.

 

 

Giacomo Leopardi (1798-1837)

Il Verismo
L’ermetismo di Ungaretti
Il Decadentismo
Gabriele D’annunzio
Giornalismo e informazione
Il Conte Camillo Benso di Cavour
Giuseppe Garibaldi
Mafia e brigantaggio
Museo del Risorgimento
La vita di un soldato in trincea
Intervista a Fernanda Rossi Bortolotti
Spettacolo teatrale “San Martino sotto le bombe”
Il Grande Dittatore
Il Nepal
 

 

Giacomo Leopardi (1798-1837)

 

Giacomo leopardi nasce primogenito del conte Monadi e di Adelaide Antici nel 1798, precisamente il 29 giugno. Suo padre era un uomo colto, e possedeva nel palazzo anche una grande biblioteca, e anche molto conservatore: ciò influenzò all’inizio le ideologie politiche del figlio. Anche la madre era di ideologia ecclesiastica e conservatrice e d era lei a mandare avanti la famiglia in un’atmosfera autoritaria e priva di affetto o confidenza.
Leopardi fu istruito da professori ecclesiastici fino ai dieci anni, quando da loro non ebbe più niente da imparare, e si chiuse nella biblioteca paterna “buttandosi” in uno studio assatanato per anni e ciò contribuì a peggiorare la sua situazione fisica, già molto debole. Tra il 1815 e il 1816 legge grandi poeti e viene a contato con la cultura romantica. Conobbe Pietro Giordani, laico e democratico, che gli fece capire il malessere di vivere in una famiglia solitaria e chiusa, e suscitò in lui un tentativo di fuga, scoperto e sventato nell’estate del 1819. La fallimentare fuga lo porta ad una visione della vita e del mondo molto pessimistica e lo porta a rintanarsi sempre di più nel mondo della lettura e della immaginazione ( ebbe anche un’infermità agli occhi). In questo momento Leopardi passa dai grandi racconti, dalla poesia di immaginazione ad una filosofia poetica piena di pensieri: dal bello al vero. In questo momento scrive L’Infinito. Anche le riflessioni e gli appunti dello Zibaldone, diventano più profondi. Nel 1822 ha la possibilità di recarsi a Roma, dallo zio Carlo Antici, ma glia ambienti romani glia appaiono vuoti e meschini e fa ritorno a Recanati nel 1823. Dal ’23 al ’25 scrive le Operette Morali, in cui è descritto tutto il suo possibile pessimismo. Nel 1825 lascia la famiglia e a Bologna, Firenze, Milano scrive per un editore milanese antologie e commenti su grandi scrittori. Nell’inverno ’27 – ’28, a Pisa, la tranquillità e una tregua dei mali gli danno l’ispirazione per scrivere A Silvia, la prima dei Grandi Idilli. Nel 1828 peggiorano la salute e le necessità economiche, che lo costringono a far ritorno a Recanati. Nel 1830 accetta da degli amici fiorentini un assegno mensile per un anno e lascia Recanati per sempre. Dal 1830, a Firenze, stringe amicizia con un certo Antonio Ranieri fino alla morte nel 1837, il 14 giugno.

LA POETICA

Tutta la poesia leopardiana è dominata da un motivo pessimistico e dall’infelicità dell’uomo che vuole ottenere piaceri “infiniti”, per estensione e durata, ma che sono irrealizzabili, creando in Leopardi un vuoto incolmabile nell’anima.
Nella prima parte del suo pensiero, tutto fa capo alla natura, intesa come madre benigna ed è lei che lavora per il bene delle persone; lui, però, mette a confronto la civiltà del suo tempo, che si basa sulla verità e quella antica, greca e romana, che era capace di fantasticare e creare illusioni che rendessero felici le persone: questi ragionamenti sono alla base del pessimismo storico, ci l’uomo è la causa della propria infelicità.
Dal ’24 in poi tutti gli scritti di Giacomo Leopardi saranno influenzati dl pessimismo cosmico. Infatti, dopo lunghe riflessioni, egli ha concepito la natura, prima benigna, come qualcosa che non guardasse ai singoli individui e alla loro felicità, ma tenesse soltanto alla conservazione della specie e alla formazione  negli uomini di un piacere infinito che lei non mette a disposizione, facendo dell’uomo solo un’innocente vittima.
Se nella realtà, però, non si può ottenere il piacere infinito, nella poesia tutto è permesso. Leopardi, come poeta, pensa di essere un “ponte” fra gli antichi, come già detto fantasiosi e poetici, e la sua società in cui si è persa la poetica del vago e dell’indefinito assieme alla fanciullezza tipicamente antica. Nelle sue poesie, Leopardi, spesso si ispira al classicismo antico, fantasioso e surreale, portandolo al romantico. E’ il classicismo romantico.
Leopardi introduce molte innovazioni nella struttura e nel linguaggio della poesia: usa strofe di lunghezza variabile, versi sciolti dall’obbligo della rima, spesso endecasillabi e settenari, che si alternano liberamente. Le poesie del Leopardi hanno un’intensa musicalità che deriva dalle rime, rime al mezzo (parole che rimano al centro di due versi) e allitterazioni (ripetizioni degli stessi suoni all’inizio o anche all’interno di più parole successive).
Le parole vengono scelte per il loro significato vago e indistinto oppure perché sono parole colte ed appartengono ad una lunga tradizione letteraria.

TUTTO LEOPARDI

·        Dal 1818 al 1823 scrive le canzoni, con un’idea classica e riferita al pessimismo storico; le canzoni più famose sono “ad Angelo Mai”, “Bruto Minore”, “Ultimo Canto di Saffo”.
·        Dal 1819 al 1821 scrive gli idilli, in cui descrive momenti fondamentali della sua vita interiore; gli idilli più conosciuti sono “l’Infinito” e “alla Luna”.
·        Dalla stagione delle canzoni/idilli al 1828 scrive le Operette Morali, prose di argomenti filosofici (anche tratti dallo Zibaldone) descritte attraverso miti, personaggi storici o inventati, bizzarri, favolosi… che affrontano l’infelicità inevitabile dell’uomo, l’impossibilità del piacere, la noia, il dolore, i mali concreti e i materiali che affliggono l’umanità.
·        Dal 1828 in poi scrive i Grandi Idilli, con un risorgimento della sua facoltà di sentire, commuoversi, immaginare, con illusioni e speranza e l’acquisita consapevolezza del vero e reale.
Dopo il 1830 Leopardi si allontana definitivamente da Recanati, ed è più orgoglioso, ma non si basa più su fantasticherie, bensì sulla severità, sulle critiche più crude alla società senza grandi immagini poetiche. Una poesia totalmente nuova a cui contrappone le sue concezioni pessimistiche che escludono ogni miglioramento della condizione umana.

 

 

 

 

Il Verismo

Il Verismo è un movimento letterario che si diffonde in Italia negli ultimi decenni dell’Ottocento e nei primi anni del Novecento. Negli ultimi decenni del secolo, al piano sociale trionfa la borghesia industriale, che consolida sempre più il suo potere economico.
La società è pervasa da una fiducia diffusa di una espansione senza limiti e dalla fede in un progresso continuo della tecnica. Si fanno importanti scoperte, come la macchina a vapore e si opera una rivoluzione dei trasporti. Le masse dei lavoratori prendono coscienza dei loro diritti e delle disuguaglianze sociali e cercano di migliorare le loro condizioni. Si pensa che sia possibile individuare non solo le leggi che regolano i fenomeni fisici, ma anche quelle che regolano i comportamenti umani. Anche la letteratura e gli scrittori si devono impegnare ad analizzare la realtà con rigore scientifico. Nei romanzi occorre rappresentare tutte le classi sociali, anche quelle più umili, e tutti gli aspetti dell’esperienza, anche quelli più penosi e sgradevoli. IL Verismo si ispira al Naturalismo francese e ha queste caratteristiche:

·        Il regionalismo: gli scrittori veristi analizzano e descrivono delle realtà sociali tipiche della oro regione che sempre presenta degli aspetti diversi dalle altre, anche perché l’unificazione dell’Italia era avvenuta da poco.
·        Il pessimismo: le opere dei veristi esprimono una concezione pessimista della vita o del destino degli ultimi. L’unità nazionale non ha cambiato le sorti delle classi più povere che sembrano prive di speranza.
·        L’impersonalità: i veristi vogliono rappresentare la realtà in modo oggettivo, senza commentarla o interpretarla.
·        Il linguaggio: gli scrittori veristi adottano la lingua nazionale e non il dialetto perché vogliono essere compresi da tutti, ma in alcuni termini e nella struttura delle rasi riproducono il modo di esprimersi della gente semplice.

Il Verismo si sviluppa a Milano, la città dalla vita culturale più ricca, in cui si raccolgono intellettuali e scrittori di culture diverse.

Giovanni Verga

Giovanni Verga nasce a Catania nel 1840 da una famiglia di piccoli proprietari terrieri. Frequenta la facoltà di giurisprudenza che poi abbandona per seguire la propria vocazione letteraria. Partecipa con passione alla Seconda Guerra d’Indipendenza. Nel 1872 si stabilisce a Milano che è il centro economico e culturale d’Italia.
Qui scrive tutte le sue opere più importanti. Nel 1893 ritorna a Catania dove morirà nel 1822. nelle sue opere rappresenta la realtà sociale della Sicilia sono soprattutto dei “vinti”, cioè coloro che nella lotta per l’esistenza sono destinati a essere sconfitti. Per riprodurre la società in modo scientifico, Verga la osserva scrupolosamente studiando l’ambiente fisico e il dialetto, documentandosi sui mestieri e sulle tradizioni.

 

 

L’ermetismo di Ungaretti

Fra le correnti artistiche che si riconoscono nel Novecento ricordiamo l’Ermetismo.
La poesia ermetica fu così chiamata nel 1936 dal critico Francesco Flora che con l’aggettivo “ermetico” volle definire un tipo di poesia caratterizzata da un linguaggio difficile e misterioso. I poeti ermetici non raccontano, non descrivono, non spiegano, ma fissano sulla pagina dei frammenti di verità a cui sono pervenuti in momenti di grazia, attraverso la rivelazione poetica e non con l’aiuto del ragionamento. I loro testi sono estremamente concentrati: molti significati si racchiudono in poche parole e tutte le parole hanno una intensa carica simbolica. La poesia degli ermetici vuole liberasi dalle figure retoriche, dalla ricchezza lessicale fine a sé stessa, dai momenti troppo autobiografici o sentimentali. Secondo gli ermetici la poesia deve esprimersi con termini essenziali.
La sintassi è semplificata, spesso privata dei nessi logici. Gli spazi bianchi e le pause rappresentano momenti di concentrazione, di silenzio e di attesa. I poeti ermetici si sentono lontani dalla realtà sociale e politica del loro tempo. Il poeta più rappresentativo della corrente è Giuseppe Ungaretti.

 

 

 

Il Decadentismo

Il Decadentismo è una corrente artistica che si diffonde in Europa all’incirca tra il 1870 e il 1920: sono gli anni della Seconda Rivoluzione Industriale, durante i quali le nuove scoperte scientifiche e tecnologiche trasformano radicalmente la società. Il petrolio prende il posto del carbone, l’energia elettrica si sostituisce al vapore, si diffondono l’illuminazione elettrica, il telefono, l’acqua corrente. Si producono le prime automobili, aeroplani, i primi film. La scienza medica fa enormi progressi. Molti Paesi europei si spingono verso la conquista di coloni in altri continenti. In questo periodo l’amor di patria degenera nel nazionalismo. Si diffonde il mito della razza, cioè la convinzione che certe razze umane siano superiori ad altre.
La classe operaia richiede, e in parte ottiene, importanti riforme sociali. A partire dal 1870 l’Europa vive un lungo periodo di pace, ma nel 1914 scoppia la Grande Guerra, la Prima Guerra Mondiale.
Queste grandi trasformazioni mettono in crisi i valori e le idee in cui hanno creduto i romantici: gli ideali di patria, lo spirito religioso, la tradizione popolare. Al Romanticismo si sostituisce il Decadentismo, che si manifesta in tutta Europa con caratteri comuni:

·        I decadenti non hanno fiducia nella ragione, sentono infatti che le verità più profonde e i misteri, si colgono con l’intuizione e le emozioni.
·        I decadenti si isolano dalla sociètà, non si riconoscono in un mondo così cambiato e rifiutano la letteratura come impegno sociale.
·        I decadenti sono dominati dall’ansia di evadere dalla realtà,  sognano il ritorno all’infanzia come età magica. Assumono la bellezza come valore assoluto e ragione di vita. Esaltano le esperienze che giudicano uniche e inimitabili.
·        I decadenti sono individualisti, cioè i personaggi delle loro opere sono volti ad esaltare il proprio “io”, sono eroi negativi oppure superuomini, che si sentono ben diversi dalla massa degli uomini.
·        I decadenti adottano un nuovo linguaggio: i poeti si servono di simboli, di analogie, di suoni suggestivi, per riprodurre sensazioni. Rifiutano molte regole della metrica e ricercano forze espressive nuove. Anche il romanzo cambia: più che una narrazione di vicende diventa un’opera di riflessione e analisi di sé.

Patriottismo (es. Garibaldi) = cacciare gli stranieri invasori per la patria e i valori democratici (libertà, costituzione…).

Nazionalismo (es. D’Annunzio) = potenziare la propria nazione, attraverso il colonialismo o con ogni altro mezzo o azione, a scapito delle altre.

 

 

Gabriele D’annunzio

Amando definire «inimitabile» la sua vita, Gabriele D'Annunzio costruisce intorno a sé il mito di una vita come un'opera d'arte.

LA VITA

Gabriele D'Annunzio nasce a Pescara il 12 marzo 1863 da famiglia borghese, che vive grazie alla ricca eredità dello zio Antonio D'annunzio. Compie gli studi liceali nel collegio Cicognini di Prato, distinguendosi sia per la sua condotta indisciplinata che per il suo accanimento nello studio unito ad una forte smania di primeggiare. Già negli anni di collegio, con la sua prima raccolta poetica Primo vere , pubblicata a spese del padre, ottiene un precoce successo, in seguito al quale inizia a collaborare ai giornali letterari dell'epoca. Nel 1881, iscrittosi alla facoltà di lettere, si trasferisce a Roma, dove, senza portare a termine gli studi universitari, conduce una vita sontuosa, ricca di amori ed avventure. In breve tempo, collaborando a diversi periodici, sfruttando il mercato librario e giornalistico, e orchestrando intorno alle sue opere spettacolari iniziative pubblicitarie, il giovane D'Annunzio diviene figura di primo piano della vita culturale e mondana romana. Dopo il successo di Canto novo e di Terra vergine (1882), nel 1883 ha grande risonanza la fuga ed il matrimonio con la duchessina Maria Hardouin di Gallese, unione da cui nasceranno tre figli, ma che a causa dei suoi continui tradimenti, durerà solo fino al 1890.
Nel 1891 assediato dai creditori si allontana da Roma, e si trasferisce insieme all'amico pittore Francesco Paolo Michetti a Napoli, dove, collaborando ai giornali locali trascorre due anni di «splendida miseria». La principessa Maria Gravina Cruyllas abbandona il marito e va a vivere con il poeta, da cui ha una figlia. Alla fine del 1893 D'Annunzio è costretto a lasciare, a causa delle difficoltà economiche, anche Napoli.
Nel '98 mette fine al suo legame con la Gravina, da cui ha avuto un altro figlio. Si stabilisce a Settignano, nei pressi di Firenze, nella villa detta La Capponcina, dove vive lussuosamente.
Successivamente, per sfuggire ai creditori, convinto dalla nuova amante Nathalie de Goloubeff, si rifugia in Francia. Vive allora tra Parigi e una villa nelle Lande, ad Arcachon, partecipando alla vita mondana della belle èpoque internazionale e componendo opere in francese.
Nel 1915, nell'imminenza dello scoppio della prima guerra mondiale, torna in Italia. Riacquista un ruolo di primo piano, tenendo accesi discorsi interventisti, e traducendo nella realtà il mito letterario di una vita inimitabile, partecipa a varie e ardite imprese belliche, ampiamente autocelebrate. Durante un incidente aereo perde un occhio guadagnandosi due medaglie d’oro al valore.
Nonostante la perdita dell'occhio destro, diviene eroe nazionale partecipando a celebri imprese, quali la beffa di Buccari e il volo nel cielo di Vienna. Alla fine della guerra, conducendo una violenta battaglia per l'annessione dell'Italia all'Istria e alla Dalmazia, alla testa di un gruppo di legionari nel 1919 marcia su Fiume e occupa la città, instaurandovi una singolare repubblica, la «Reggenza italiana del Carnaro», che il governo Giolitti farà cadere nel 1920.
Non amò il fascismo, tuttavia non vi si oppose mai efficacemente, e la sua propaganda e la sua retorica contribuirono notevolmente a creare l’ambiente e lo stato d’animo che permisero a quel movimento di affermarsi.
Celebrato come eroe nazionale si ritira presso Gardone, sul lago di Garda, nella villa di Cargnacco, trasformato poi nel museo-mausoleo del «Vittoriale degli Italiani». Qui, pressoché in solitudine, nonostante gli onori tributatigli dal regime, raccogliendo le reliquie della sua gloriosa vita, il vecchio esteta trascorre una malinconica vecchiaia sino alla morte avvenuta il I° marzo 1938.

LA POETICA

Il D’Annunzio come il Pascoli, avvertì i limiti e la crisi del naturalismo e del Positivismo di fine secolo. Tutti e due hanno infatti in comune la sfiducia nella ragione e nella scienza, rivelatesi incapaci, nonostante la conclamata onnipotenza, di dare una spiegazione sicura e definitiva della vita e del mondo.
Dalla comune sfiducia nella ragione i due poeti derivarono il senso della solitudine dell’uomo; ma da questo momento il loro pensiero diverge e approda a due diverse concezioni della vita, muovendosi il Pascoli nell’ambito del vittimismo romantico con sgomenti e ansie decadenti, il D’Annunzio nell’ambito dell’estetismo e del superomismo.
Il D’Annunzio ha un temperamento sensuale, e perciò ha una percezione egoistica, orgogliosa e arrogante della solitudine, derivata dalla consapevolezza della eccezionalità della propria persona, che lo spinge ad affermare la propria supremazia sugli altri, a conquistare il dominio del mondo.
La poesia del D’Annunzio rispecchia la sensualità del suo temperamento, intesa come abbandono gioioso alla vita dei sensi e dell’istinto, per scoprire l’essenza profonda e segreta dell’io (che è poi quella stessa della natura).
Si rinnova così nel D’Annunzio il dramma romantico della ricerca dell’assoluto. Ma mentre i romantici cercavano di raggiungerlo con l’estasi dello spirito davanti all’infinito, il D’Annunzio, invece, lo cerca con l’estasi panica, cioè con l’immergersi nella natura delle cose, fino a sentire in bocca il sapore del mondo, come egli dice, dando vita anche al simbolismo, che concepisce la natura non come oggetto di una precisa realtà quotidiana, ma come un insieme di simboli di un'altra realtà più complessa e remota, che il poeta evoca non mediante il senso logico delle parole, ma con la loro magia musicale.
L'universo è sentito come un organismo in cui tutte le parti hanno corrispondenze tra loro e compito del poeta è quello di cogliere le analogie, svelare i simboli, farsi veggente e interprete dell'ignoto, «decifratore dell'universale analogia» (Charles Baudelaire). Tra spirito e natura c'è una unità originaria.

 

 

Giornalismo e informazione

Visita alla sede del “Resto del Carlino” - Bologna - 11/2/2003

Sono molte le cose che mantengono viva l’organizzazione di un giornale, dai poligrafici ai giornalisti, dalla pubblicità alle tecnologie utilizzate nel lavoro… ma un giornale, per vendere ed essere apprezzato, deve avere dei giornalisti che possiedano in particolare alcune caratteristiche.

Intanto un buon giornalista deve avere conoscenze e competenze professionali, cioè deve essere esperto in Diritto, Economia…, e dopo la Laurea deve fare un tirocinio di tre anni presso un giornale, dove si apprendono le modalità che riguardano la stesura del giornale.
Essi devono esercitare una corretta comunicazione, calibrando ciò che si dice a seconda di chi si ha di fronte ( per esempio l’attenzione verso i più piccoli ) e scrivendo in modo comprensibile a qualsiasi persona;
devono avere fiuto, in modo che sappiano percorrere le strade che li portano ai casi più interessanti per il pubblico;
devono possedere conoscenze approfondite, devono essere aperti e capaci di trovarsi una posizione propria conoscendo più opinioni per avere senso critico;
devono avere coraggio ( occorrono gli inviati di guerra e gli autori di inchieste pericolose );
semmai possono avere anche la capacità di usare lo strumento della lingua in modo originale e vario, per cui li si legge volentieri per lo stile, oltre che per il contenuto;
c’è da dire anche che ogni giornalista vede solo una parte della realtà e la comunica dal suo punto di vista ( soggettività ).
Inoltre, una testata deve avere titoli efficaci, ben scritti e colmi di parole forti, per indurre il lettore a leggere gli articoli.

Per stampare i giornali, oggi, si procede elettronicamente e anche i redattori utilizzano i computer, mentre nel passato vi erano stampi di piombo che richiedevano molti addetti per essere redatti e manipolati..
Qualche tempo fa la pubblicazione del Carlino prevedeva l’impegno di ottocento poligrafici e quattrocento giornalisti. Oggi la pubblicazione di tre testate ( Resto del Carlino, La Nazione, Il Giorno ) implica il lavoro di cento poligrafici e ottanta giornalisti.
Per fare investimenti innovativi nella tecnologia, nella distribuzione, per stipendiare tutti la gente che collabora alla stesura della carta stampata, non basterebbero le sole entrate del prezzo del giornale; è qui che entra in gioco la pubblicità, che da quasi un secolo è diventata la fonte di incassi maggiori per qualsiasi giornale, che senza non potrebbe sopravvivere. Essa fornisce spesso, però, una visione ingannevole del prodotto pubblicizzato e peggiora sempre di più quando si fa troppo insistente.

 

 

Il Conte Camillo Benso di Cavour

Il conte Camillo Benso di Cavour nacque il 10 agosto 1810 a Torino, capoluogo allora d'un dipartimento dell'impero napoleonico e morì sempre a Torino nel 1861. Egli era il secondo figlio del marchese Michele e della ginevrina Adele di Sellon. Cavour fu da giovane ufficiale dell’esercito, ma abbandonò molto presto la carriera militare (era poco più che ventenne), per viaggiare in Europa, stando lontano da casa per quattro anni, studiando particolarmente gli effetti della rivoluzione industriale in Gran Bretagna, Francia e Svizzera e assumendo i principi economici, sociali e politici del sistema liberale britannico.
Quando rientrò in Piemonte nel 1835, si occupò soprattutto di agricoltura e si interessò anche di economie e della diffusione di scuole ed asili. Conobbe anche così le realtà di chi lavorava la terra e del popolo. Grazie alla sua attività commerciale e bancaria Cavour divenne poi uno degli uomini più ricchi del Piemonte.
Con la sua entrata in politica (1848) ci fu anche la fondazione del quotidiano liberale “Il Risorgimento”; alla base delle sue ideologie c’era una profonda ristrutturazione delle istituzioni politiche piemontesi e la creazione di uno Stato territorialmente ampio e unito che avrebbe reso possibile il processo di sviluppo e crescita economico-sociale da lui promosso con le iniziative degli anni precedenti.
Nel 1850, essendosi messo in evidenza nella difesa delle leggi Siccardi (promosse per diminuire i privilegi riconosciuti al clero, prevedevano l'abolizione del tribunale ecclesiastico, del diritto d'asilo nelle chiese e nei conventi, la riduzione del numero delle festività religiose e il divieto per le corporazioni ecclesiastiche di acquistare beni, ricevere eredità o donazioni senza ricevere il consenso del Governo), Cavour fu chiamato a far parte del gabinetto d'Azeglio come ministro dell'agricoltura, del commercio e della marina. Successivamente fu nominato ministro delle Finanze e con tale carica egli assunse ben presto una posizione di primo piano, fino a diventare egli stesso, con la fiducia del re, presidente del Consiglio il 4 novembre 1852 alleato con Rattizzi, uomo di sinistra.
Quando fu nominato presidente del Consiglio, egli aveva già in mente un programma politico ben chiaro e definito ed era deciso a realizzarlo, pur non ignorando le difficoltà che avrebbe dovuto superare. L'ostacolo principale gli derivava dal fatto di non godere la simpatia dei settori estremi del Parlamento, in quanto la sinistra non credeva alle sue intenzioni riformatrici, mentre per le Destre egli era addirittura un pericoloso giacobino, un rivoluzionario demolitore di tradizioni ormai secolari. In politica interna egli mirò innanzitutto a fare del Piemonte uno Stato costituzionale, ispirato al liberismo, nel quale la libertà fosse la premessa di ogni iniziativa. Convinto com'era che i progressi economici siano estremamente importanti per la vita politica di un paese egli si dedicò ad un radicale rinnovamento dell'economia piemontese:

- l'agricoltura: venne valorizzata e modernizzata grazie ad un sempre più diffuso uso dei concimi chimici e ad una vasta opera di canalizzazione destinata ad eliminare le frequenti carestie dovute a mancanza d'acqua per l'irrigazione e a facilitare il trasporto dei prodotti agricoli;

- l'industria: venne rinnovata ed irrobustita attraverso la creazione di nuove fabbriche e il potenziamento di quelle già esistenti specialmente nel settore tessile;

- il commercio: fondato sul libero scambio interno ed estero e agevolato da una serie di trattati con la Francia, il Belgio e l'Olanda (1851-1858) subì un forte aumento .

Inoltre provvide:

- a rinnovare il sistema fiscale, basandolo non solo sulle imposte indirette ma anche su quelle dirette, che colpiscono soprattutto i grandi redditi;

- al potenziamento delle banche con l'istituzione di una "Banca Nazionale" per la concessione di prestiti ad interesse non molto elevato.

Il progressivo consolidamento politico, economico e militare, spinse Cavour verso un'audace politica estera, capace di far uscire il Piemonte dall'isolamento. In un primo momento egli non aveva creduto opportuno distaccarsi dal vecchio programma di Carlo Alberto tendente all'allontanamento dell'Austria dal Lombardo-Veneto e alla conseguente unificazione dell'Italia settentrionale sotto la monarchia sabauda, tuttavia in seguito avvertì la possibilità di allargare a livello nazionale la sua politica, aderendo al programma unitario di Mazzini, sia pure su basi monarchiche e liberali. Comunque il primo passo da fare era quello di imporre il problema italiano all'attenzione europea e a ciò per l'appunto egli mirò con tutto il suo ingegno. Il 21 luglio 1858, incontrò Napoleone III a Plombières dove furono gettate le basi di un'alleanza contro l'Austria. Il trattato ufficiale stabiliva che:

- la Francia sarebbe intervenuta a fianco del Piemonte, solo se l'Austria lo avesse aggredito;

- in compenso dell'aiuto prestato dalla Francia il Piemonte avrebbe ceduto a Napoleone III il Ducato di Savoia e la Contea di Nizza.

Appare evidente che un simile trattato non teneva assolutamente conto delle aspirazioni unitarie della maggior parte della popolazione italiana, esso mirava unicamente ad eliminare il predominio austriaco dalla penisola.
La II guerra d'indipendenza permise l'acquisizione della Lombardia, ma l'estendersi del movimento democratico-nazionale suscitò nei francesi il timore del crearsi uno Stato Italiano unitario troppo forte: venne firmato così l'armistizio di Villafranca che provocò il temporaneo congelamento dei moti e la decisione di Cavour di allontanarsi dalla guida del governo.
Ritornato alla presidenza del Consiglio egli riuscì comunque ad annettere al Regno di Sardegna l’Emilia, la Toscana e le Marche cedendo alla Francia la Nizza e la Savoia.
Con Garibaldi e la Spedizione dei Mille venne conquistato anche il Regno delle Due Sicilie; Garibaldi si diresse poi verso lo Stato Pontificio, ma Napoleone III fece sapere che non avrebbe mai tollerato un attacco al Papa. Successivamente il Re Vittorio Emanuele II partì allora per il Centro-Italia per incontrare Garibaldi. Al loro incontro, Garibaldi consegna al primo re d’Italia tutti i territori conquistati. Il 17 Marzo 1861, dopo una serie di plebisciti,  viene proclamato il Regno d’Italia.

Cavour morì pochi mesi dopo, lasciando la sua pesante eredità alla Destra Storica.

 

 

Giuseppe Garibaldi

Ci fu un periodo, dopo il 1860, in cui l’Italia si identificava con Garibaldi. Egli nacque a Nizza nel 1807. Il genitori lo avrebbero voluto sacerdote, ma il ragazzo mostrò una decisa avversione per gli studi, irresistibilmente attratto, invece, dalla vita di mare. A sedici anni il padre lo imbarcò come mozzo su una nave, dove imparò a sopportare fatica e pericoli. Era aperto e socievole, faceva amicizia con tutti. Nelle serate in mare, o in porti, si esibiva con successo come tenore. Nel 1833 conobbe Giuseppe Mazzini e si iscrisse alla Giovine Italia, impegnandosi a seguire la causa Repubblicana. Partecipò a varie insurrezioni e venne condannato a morte. Per questo fuggì in America Latina, dove organizzò un corpo di volontari: la  “legione italiana” che adottò come divisa la camicia rossa. Combattendo per la libertà dell’Argentina e dell’Uruguai apprese le tecniche della guerriglia e divenne un abilissimo comandante. Nel 1848, essendo venuto a conoscenza della guerra del Piemonte contro l’Austria, tornò in Italia, portando con sé Anita , la moglie brasiliana. Egli offrì a Carlo Alberto la sua collaborazione, ma il re la rifiutò, diffidando di lui. Partecipò comunque alla guerra contro gli austriaci al servizio del governo provvisorio di Milano e combattè in difesa della Repubblica Romana contro i francesi. Caduta Roma egli si diresse verso Venezia che ancora resisteva agli austriaci, e durante il viaggio, molto faticoso e difficoltoso, nelle paludi di Comacchio, perdette la moglie Anita, che morì, senza la possibilità di essere curata.
Deluso dall’esito della Prima Guerra d’Indipendenza andò nuovamente in volontario esilio oltreoceano. Tornò allo scoppio della Seconda Guerra d’Indipendenza nel 1859. Questa volta a Torino fu ufficialmente incaricato di comandare un corpo di volontari: “i Cacciatori delle Alpi”. In questo modo Cavour cercò di limitare l’autonomia di Garibaldi dandogli un compito ben preciso per impedire le sue iniziative personali.
Nel 1860 Garibaldi realizzò il suo sogno: la liberazione del Sud dell’Italia dai Borbone. Il 5 maggio 1860 Garibaldi salpò da Genova con due navi e milleottantanove camicie rosse. Si trattava per lo più di giovanissimi (molti erano studenti fuggiti da casa) richiamati dal fascino del condottiero. Il Governo piemontese intervenne in aiuto dei volontari solo quando fu ormai chiaro che essi avrebbero vinto. Eppure Garibaldi non esitò a consegnare a Vittorio Emanuele II “quell’ex Regno Borbonico” di cui era ormai padrone. Il Parlamento piemontese non riconobbe ai garibaldini neppure la pensione.
Nel 1862 tentò di liberare Roma dal Papa, ma i piemontesi lo fermarono ferendolo sull’Aspromonte. Nel 1867 i francesi lo fermarono alle porte di Roma. Partecipò alla Terza Guerra d’Indipendenza.
A sessantatre anni, soffrendo molto per i reumatismi, decise di ritirarsi a Caprera, dove terminò di scrivere le sue memorie.
Morì nel 1882.

 

 

Mafia e brigantaggio

La speranza dell’unificazione d’Italia faceva credere ai contadini, in particolare al Sud, ad una liberazione dai latifondisti e un avvio verso una ridistribuzione delle terre.
Alcuni contadini, così, si allearono con Garibaldi in
bande armate. Dopo il 1961 ci fu però una delusione: l’abolizione delle dogane con l’arrivo di molte merci settentrionali a basso costo fecero si che nel Meridione si indebolisse il mercato interno e di conseguenza avvenne una crisi dell’artigianato e una mancanza di lavoro generando un impoverimento generale.
I proprietari terrieri ne trassero, invece, vantaggio. Essi infatti riuscirono a vendere grandi derrate alimentari al Nord, ricevendo in cambio merci di lusso, quale  è lo zucchero.
La monarchia appoggiò i latifondisti contro le
ribellioni contadine, che occuparono anche i villaggi. Le insurrezioni contadine erano state generate, oltre che dall’impoverimento generale, in particolare dall’istituzione del servizio di leva obbligatorio di tre anni, che toglieva braccia utili al lavoro nei campi. Per far fronte alle rivolte contadine, si procedette con l’occupazione militare dell’Italia Meridionale da parte di centomila soldati.
Col brigantaggio (le rivolte contadine furono così denominate perché spesso si rubava e si disertava il servizio di leva) e contro il re, stavano il Papa e Francesco II di Borbone, i quali finanziavano i briganti per tornare al potere.
A vincere la battaglia fu poi lo Stato. Ma la vittoria portò numeri impressionanti:

- 5212 i briganti uccisi;
- 5044 i briganti arrestati;
- 2000 i briganti condannati;

Infine il numero complessivo dei morti in questa repressione è uguale al totale delle vittime delle Tre Guerre d’Indipendenza.

La confusione e il momento di instabilità che si erano creati fecero si che si formassero organizzazioni esterne allo Stato: vi era la “mafia” a protezione dei latifondisti, la “camorra” e l’“andrangheta” che corrompevano gli uomini politici.
Tutte queste organizzazioni fuorilegge ricorrevano spesso alla
minaccia armata.

 

 

Museo del Risorgimento

Piazza Carducci - Bologna - 8/11/2002

L’otto novembre scorso, noi, della classe III A di San Cesario s./P., ci siamo recati al Museo del Risorgimento di Bologna. Esso vuole raccontare la storia della città nel periodo rinascimentale.

L’edificio è sorto nel 1893, con una struttura ben diversa, e con poca disponibilità di oggetti. Alla fine dell’Ottocento il museo trattava di movimenti eroici, guerre importanti, eroi, protagonisti del periodo, con l’intento di sensibilizzare le persone verso la patria; oggi espone raccolte del periodo napoleonico e di quello risorgimentale documentandone le idee e le riforme fatte all’epoca.

ANNI OTTANTA

- Aspetti positivi: negli anni Ottanta avviene l’annessione al Regno di Sardegna e con essa una serie di cambiamenti radicali e rivolti al progresso. Le foto del museo mostrano l’introduzione dei servizi pubblici e delle fogne, dell’acquedotto cittadino che porta l’acqua alla fontana in Piazza Maggiore, dell’energia elettrica, con i primi lampioni, della costruzione della ferrovia
Firenze - Piacenza, della costruzione di strade, e di monumenti e feste popolari. Per raffigurare l’annessione al Regno di Sardegna, vengono dipinti quadri famosi, come quelli raffiguranti Garibaldi e Vittorio Emanuele II uniti dalle idee di nazione e unità oppure di una donna ( l’unità ) che scaccia il diavolo ( la Chiesa e la negatività ). Anche per sottolineare la divisione fra lo Stato e la Chiesa Cattolica non si perde tempo e si disegnano “vignette” e quadri.

- Aspetti negativi: Bologna e Provincia erano deboli e arretrati. L’agricoltura e le tecniche agricole erano vecchie e rendevano poco; la classe imprenditoriale era poco disposta a rischiare, facendo mancare i soldi per un potenziamento industriale e agricolo; l’allevamento si teneva in piedi ma l’industria tessile era in crisi, a causa dei prodotti stranieri che, meno cari, venivano importati; la differenza dal Piemonte e da Torino era molto evidente perché i nostri territori erano stati possedimenti della Chiesa, chiusa e conservatrice.

FINE ANNI OTTANTA

Per fortuna alla fine degli anni Ottanta imprenditori stranieri ( non della città di Bologna ) cominciarono ad investire nei settori economici locali; si creano le scuole professionali fondate da Aldini e Valeriani, che istruiscono piccoli artigiani, i quali diventeranno imprenditori industriali, nel settore della meccanica, istruiti; prende uno slancio l’industria alimentare con gli insaccati; c’è una forte industrializzazione, la gente va anche a lavorare nelle cave per l’estrazione della ghiaia e viene distribuita in modo più ampio, rispetto agli anni precedenti, l’energia elettrica.
Dalla fine degli anni Sessanta si sono fatti molti passi avanti riguardo all’analfabetismo: in quel periodo il 76 % dei bolognesi era analfabeta. Negli anni Ottanta e alla loro fine, nacquero le Università Popolari che, assieme alle Società di Mutuo e Soccorso, miravano a combattere i problemi come la prostituzione, l’alcolismo, dando lezioni anche per migliorare la cultura della gente. Nonostante tutto, a differenza delle Società di Mutuo e Soccorso, le Università Popolari non fecero molta strada, in quanto parlavano alle persone in modo troppo colto.

In questo periodo vengono pure costruite grandi strade come via Indipendenza, Via Ugo Bassi, Via Rizzoli, che comportarono il sacrificio di antichi quartieri medioevali e di giardini. E’ rilevante anche l’arricchimento in quanto ai monumenti, con raffigurazioni di Parlamentari o uomini simbolo della Restaurazione.
Il clima di prosperità si svolgeva anche tra le feste popolari, dove ci si divertiva e si discuteva.

Tutta questa innovazione, a cui modello fu posta la città capitale del Regno, Torino, era per il progresso e per dare ai “primi turisti” l’immagine di una città al passo con i tempi.

 

 

La vita di un soldato in trincea

In sostanza, le trincee erano fossi scavati nel terreno per mettere i soldati al riparo dal fuoco nemico. Intese inizialmente come rifugi provvisori, divennero i quartieri permanenti dei reparti di prima linea, così vennero attrezzate con baracche di legno e difese dal filo spinato. Erano numerosissime e parallele, distribuite su tutto il campo di guerra e collegate fra loro da camminamenti. Fra le trincee di un esercito e quelle dell’avversario vi potevano essere anche solo qualche metro di distanza, tanto che qualsiasi persona poteva sentire le voci dei propri nemici.
Gli uomini nelle prime linee avevano il terrore che venisse lanciato l’ordine dell’ “attacco alla baionetta”, nel quale un esercito scalava la propria trincea e si gettava sul nemico cercando di superare filo spinato e mitragliatrici; chi superava le barriere di difesa, doveva ingaggiare una lotta corpo a corpo e anche i superstiti venivano quindi, prima o poi, uccisi senza via di scampo.
La vita in trincea non era per niente facile: i soldati vivevano in condizioni prive di igiene, senza mai cambiarsi né lavarsi per settimane; si diffondevano malattie mortali, si veniva trattati male dagli ufficiali e il tempo non passava mai. Spesso i superiori vivevano ben lontani dal fronte, si facevano i complimenti e si scambiavano medaglie a vicenda, e quando una persona non combatteva o sbagliava anche una minima regola, essi lo riconoscevano come vigliacco. Le regole che venivano imposte erano la posizione eretta e la testa alta quando si attaccava, poi petto al nemico, passo di corsa e “viso fieramente al vento”. Pure il rancio era, secondo Cadorna,  basilare in guerra: ogni soldato doveva cucinarsi il rancio da sé, per rafforzare il morale e lo spirito di gruppo; purtroppo andare a raccogliere la legna ed accendere un fuoco equivaleva ad un suicidio. Solo il Kaiser sperimentò cucine da campo mobili su carretti con addetti esclusivamente alla distribuzione del cibo.
I soldati n guerra erano spesso colpiti da shock che gli impedivano di reagire agli ordini: in questo caso vi era la fucilazione.
Le automutilazione erano spesso utilizzate per avere il permesso di tornare a casa e lasciare il fronte, ma nel caso in cui venissero scoperte, anche qui veniva orinata la fucilazione. Cadorna, per prevenire casi di ammutinamento, ricorreva alla decimazione, uccidendo un uomo su dieci dei suoi.
I piccoli ufficiali si lamentavano invece delle strutture insufficienti e inefficienti, e del cibo immangiabile. Queste persone furono chiamate “disfattisti” e la loro sorte era la morte certa dopo un veloce e sommario processo.
Chi si arrendeva al nemico (diserzione) veniva fatto prigioniero e portato in campi di concentramento.

 

 

Intervista a Fernanda Rossi Bortolotti

Fernanda Rossi, nata a Monteveglio in provincia di Bologna il 13 settembre del 1925, ha per molti anni vissuto a Ponte Rosso, vicino alla California, dove la sua famiglia lavorava un fondo che arrivava sino a  S. Cesario, e ha anche partecipato alla lotta partigiana durante la Seconda Guerra Mondiale.

Tutto è cominciato la notte dal 13 al 14 giugno 1944, in cui avvenne l’assassinio dei fratelli Artioli, famiglia di Ponterosso che viveva molto vicino alla casa di Fernanda. Alla casa della famiglia Artioli bussano alla porta: è Zamboni, vecchia conoscenza della famiglia, con un grande gruppo di squadracce fasciste alle spalle. Zamboni si era infatti già presentato qualche giorno prima davanti agli Artioli assieme ad un suo compare, tutti e due in borghese e in veste di sfollati, domandando dove fosse l’osteria California. Quella volta la famiglia li aiutò, dando loro da mangiare e da riposarsi e forse, la madre, avrebbe fatto intendere ai due presunti viandanti di aiutare i partigiani. I due uomini avevano però teso loro uno spaventoso tranello, perché cercavano proprio uno dei capi partigiani della zona di Piumazzo: Arnaldo Galletti, oste del locale della California. E così ora erano tornati, per farsi condurre da Galletti. Alla porta arrivano il padre e i due figli: Artioli Ermes (diciotto anni) e Artioli Giuseppe (sedici anni). Subito i fascisti cominciarono a picchiare il padre e a mettere sottosopra la casa poi dettero ordine a Giuseppe di accompagnarli alla bottega di Galletti e di chiamarlo. Arnaldo, intuendo che qualcosa non andava, se ne andò dal retrobottega e poco dopo, non avendo trovato chi cercavano, i fascisti si scatenarono su Giuseppe, colpendolo con bottiglie e poi sparandogli sul greto della strada, facendolo cadere nel fosso. A quel punto gli assassini tornarono alla casa, cominciarono a torturare Ermes e a raschiargli le sopracciglie e i baffetti. Poi lo fecero uscire e lo investirono con una raffica, facendolo stramazzare al suolo.
Questo fatto, assieme alla morte del padre che unitosi ai partigiani morì durante una battaglia all’età di quarantaquattro anni, portò Fernanda Rossi all’entrata nei gruppi partigiani.
Il ruolo che rivestiva era la STAFFETTA. Portava dei bigliettini segreti da base a base partigiana, mantenendo tutti i contatti fra le postazioni in zona. Più precisamente, lei portava informazioni nei territori di Piumazzo, S. Cesario, Spilamberto, Castelvetro e Puianello, cambiando rifugio in continuazione. Una staffetta partigiana (che poteva essere anche un uomo) doveva essere sempre ben vestita, ma non avere mai addosso dei calzoni, che identificavano una persona come partigiana. Inoltre non bisognava mai mettersi in mostra e si doveva saper scherzare con i soldati. Comunque, Fernanda non si è mai trovata in vera difficoltà nei suoi percorsi ed è sempre stata fortunata, tranne una volta:
Era a Castelvetro, a sera inoltrata, davanti alla Chiesa quando le campane del campanile cominciarono a suonare per segnalare l’ora del coprifuoco, dopo la quale chiunque fosse trovato a zonzo per le strade veniva subito ammanettato e portato in prigione oppure anche fucilato direttamente sul posto. Aveva pressappoco diciotto anni e immaginatevi in quale stato d’animo fosse, all’idea di essere presa, scoperta… Allora pensò bene di andare a chiedere rifugio a casa di parenti che abitavano in paese, ma appena bussato alla loro porta si sentì rifiutare il favore, siccome era un periodo in cui non ci si poteva fidare di nessuno e se per caso dei tedeschi o dei fascisti andavano a perquisire la casa, poteva essere ammazzata tutta la famiglia che vi alloggiava. Così si fece cinque o sei chilometri a piedi con la paura che qualcuno la vedesse, nel buio della notte, dirigendosi verso una stalla in cui si sapeva ci fosse una base partigiana e dove avrebbe potuto passare la notte senza pericolo. Vi arrivò sana e salva ma lo spavento fu enorme.

Poi, alla fine del dicembre del 1944, avvenne il rastrellamento. I tedeschi infatti si misero sulle tracce dei due massimi esponenti della resistenza nel territorio: Neri Bruno e Calidori Maggio. Subito essi si recarono all’abitazione di Maggio (il comandante), alle case operaie di Piumazzo, ma non lo trovarono. Allora presero in ostaggio le sorelle Calidori, che comunque riuscirono a cavarsela. Non avendo trovato in casa Calidori, i tedeschi riuscirono a catturare Neri Bruno.
La notte fra il 29 e il 30 dicembre arrivarono alla casa di Fernanda le SD, reparti dell’esercito tedesco particolarmente spietati e violenti (ancor di più delle SS), con dei camion e una camionetta, accusandola di essere una partigiana. Fernanda si dovette arrendere, quando vide il volto di Neri rovinato e sconvolto dalle torture.
“Guardami”. Ha sussurrò Bruno. Poi tutti e due vennero caricati su uno degli automezzi, che raccolse anche altri partigiani (fra i quali Angelo Carini, minuto e con una gobba sulla schiena ma forte di carattere, detto Angiolino; Giovanni Turrini; Aldo Sola; Erminio Chiappelli) durante la notte, fra cui anche molte staffette. Bruno Neri aveva parlato e aveva detto tutto ai tedeschi, che stavano letteralmente distruggendo la Resistenza di Piumazzo. E pare anche che egli avesse fatto il nome in particolare delle staffette, ritenendo quindi poco importante il loro ruolo all’interno dell’organizzazione partigiana.
Le SD portarono i partigiani nel carcere di San Giovanni in Persicelo, dove rimasero fino al 6 di gennaio. Poi tutti vennero trasferiti nella prigione di San Giovanni Monte (gestita anche da delle suore), a Bologna dov’era il comando tedesco, la notte dell’Epifania, in cui c’era un freddo polare con una camionetta scoperta che si faceva spazio tra la neve.
I muri degli stanzoni del carcere bolognese, situato su di una piccola collinetta, presentavano crepe, derivate dai bombardamenti, nelle quali si riusciva a far passare un’intera mano.
I giorni passavano lenti e dentro si cercava di cavarsela. Don Fagioli, il prete, invece di dare Messa e fare la predica, informava i prigionieri di tutto ciò che stesse accadendo all’esterno. Intanto Fernanda si dava da fare, essendo diventata un po’ l’ “elettricista” del penitenziario. Infatti a Ponterosso, a casa sua, erano una di quelle poche e fortunate famiglie a possedere l’energia elettrica. La sua famiglia la prendeva dal palazzo del padrone, pochi metri più in là, e lei aveva imparato a destreggiarsi fra i cavi e contatti quel poco che bastava per fare saltare la luce e riaccenderla. Spesso venivano rinchiuse nella sua cella delle prostitute che riuscivano a portarsi appresso delle sigarette perché se le tenevano nel reggiseno, allora lei riusciva a farsene dare qualcuna e a provocare dei contatti fra i fili elettrici facendo andar via la luce, per poi andarsene a fare un giro perché la chiamavano per aggiustare l’impianto al primo piano.

A Bologna, Fernanda ebbe pure la possibilità di scappare dal carcere. Andò così:
Un giorno una suora, Suora Oliva, si presentò davanti alle sbarre della sua cella chiedendo se la poteva aiutare a portare dentro al carcere una damigiana di vino che si trovava fuori dal cancello. Ma facendo alla suora una promessa: non scappare, altrimenti o avrebbero ucciso sia la suora che lei o lei non sarebbero riuscita a riacciuffarla ma la suora in tutti i modi sarebbe stata presa. Fernanda, dopo averci pensato a lungo per qualche minuto, promise di non scappare appena uscita dal cancello. Allora venne aperta la sua cella e tutte e due si incamminarono verso l’uscita. Oltrepassati i cancelli chissà quali ripensamenti deve aver avuto, con la strada libera di fronte a sé… Tuttavia mantenne la promessa, sollevò la damigiana con le mani e rientrò all’interno della struttura.
Si rimase nelle celle fino a pochi giorni dalla Liberazione. Le forze tedesche, ormai allo stremo, presero gli uomini catturati e li portarono verso la tremenda sorte delle fosse di San Ruffillo oppure a Sabbiuno, dove in un calanco furono trovati dei cadaveri sotto una coltre di neve alta un metro. Le prigioniere donne, invece, non furono ammazzate, come sancito dalla conferenza di Ginevra. Fernanda torna a casa con la zia che, dopo essere stata a San Ruffillo al comando generale della Gestapo per avere il permesso che la nipote potesse essere rilasciata, la andò a prendere direttamente a San Giovanni Monte. A venire a casa con loro da Casalecchio c’era anche Onelia che cercava il padre, Aldo Sola, trovato poi morto a S. Ruffillo.

Subito dopo la fine della guerra, nel 1946, giunsero alla stazione Castelfranco Emilia dei bambini romani (il primo anno) e napoletani (il secondo anno). Ad essi numerose famiglie diedero ospitalità e Fernanda anche gli accompagnò a casa, osservando la grande povertà delle loro città, quale è Roma, dove i loro parenti mica controllavano la salute dei figli, controllavano le valigie.

Con la guerra, seppure in un periodo oscuro e amaro, le donne hanno dimostrato che sono alla pari degli uomini, che se la sanno cavare e  sono capaci di fare la parte maschile, avendo dovuto anche fare quelle mansioni quotidiane solitamente giudicate dell’altro sesso. Inoltre gli uomini erano entrati nella lotta partigiana perché vi erano costretti, piuttosto che andare al fronte oppure venire uccisi dai nazifascisti che andavano di casa in casa, mentre le donne non erano obbligate, erano volontarie.

 

 

Spettacolo teatrale “San Martino sotto le bombe”

Due bravissimi attori, un uomo e una donna, hanno dato vita ad uno spettacolo teatrale che rievoca fatti e avvenimenti avvenuti durante la Seconda Guerra Mondiale, importanti, tragici ma non da dimenticare, validi nel presente come nel futuro.
Dopo un mese di ricerche negli archivi storici della zona, dopo un mese di stesura del copione e dopo un altro mese per le prove, i due hanno riunito faccende accadute in Emilia e le hanno concentrate simbolicamente in un paese, di loro invenzione, fra le montagne, denominato San Martino di Sotto.

Tutto comincia l’otto settembre e a San Martino di Sotto, fra le montagne, incombe la vera guerra. Il disordine diplomatico fra la gente fa precipitare il paese nel caos. A pochi chilometri più a sud viene costruita dai tedeschi la linea gotica e i bombardamenti diventano episodi quotidiani. Pippo, il bombardiere americano, sgancia le bombe sui piccoli paesini montani. A S. Martino tutti scappano e corrono in casa a cercar rifugio e quando si ritorna allo scoperto balzano agli occhi solo macerie e polvere. E morte.
Faticano ad arrivare i rifornimenti di alimentari e quel poco da mangiare che si dovrebbe ricevere (fa fede qualsiasi tessera annonaria) viene negato da quei rari negozianti rimasti: “Non c’è più niente! E’ finito tutto!”
Ma si dice che il fronte tedesco stia cedendo e poi ci sono i partigiani… i partigiani! Venivano ogni tanto al paesino, avevano combattuto i tedeschi, sabotato macchinari, fatto saltare ponti, e venivano a chiedere da mangiare, ma, si sa, di mangiare nessuno ne aveva tanto.
Però i tedeschi li si stava cominciando a cacciar via. E un bel giorno, dopo tanti e tanti di attesa incollati alle radio clandestine, delle nuove persone arrivano nelle piazze, verso Natale. Gli americani! Finalmente sono arrivati!

E in quei giorni nessuno riportò alla mente i morti sotto le macerie degli edifici bombardati dagli americani; tutti erano impegnati nei festeggiamenti natalizi e per la festa di capodanno ormai alle porte: c’era chi cuciva, chi preparava festoni, chi organizzava… Inoltre gli stranieri avevano portato straordinarie invenzioni, quali potevano essere i masticoni e i cibi liofilizzati.
Nella tenda allestita in piazza si ballò tutta la notte del trentuno, e ai bambini un uomo in rosso distribuì regali. Nascevano anche nuove amicizie e già fioccavano le promesse di matrimonio fra i soldati e le ragazze del paese.
Insomma, gli americani avevano portato novità e felicità, e per fortuna che erano arrivati.
Poi la guerra finì completamente e loro se ne tornarono da dove erano venuti, alcuni anche portandosi dietro la nuova fidanzata.

A San Martino di Sotto cominciò la rinascita. Il primo passo fu l’istituzione della scuola, arrangiata come si poteva: all’aperto e con pochissimi oggetti o strumenti di lavoro.

 

Tutto lo spettacolo è documentato con interessanti fotografie dell’epoca, e le azioni e le sensazioni sul palco vengono mostrate e trasmesse agli spettatori con le armi della bravura, qualche sedia e qualche luce.

 

 

Il Grande Dittatore
Regia di Charlie Chaplin

Durante la prima Guerra Mondiale, un combattente salva la vita ad un ufficiale chiamato Schulz. L’aereo dove si trovano si schianta e il piccolo soldato viene ricoverato in un ospedale dove rimarrà vent’anni, all’oscuro dei cambiamenti avvenuti nel mondo. Hynkel diventa dittatore di Tomania, perseguitando gli ebrei.
Dimesso, il soldato è colpito da amnesia e ritorna nella sua bottega di barbiere nel ghetto dove incontra Hanah, della quale si innamora. Nel frattempo Schulz ordina alle sue truppe di lasciare in pace il barbiere che vent’anni prima gli aveva salvato la vita.
Si vive un po’ la storia del barbiere e del dittatore, Hynkel, che vuole a tutti i costi il mondo ai suoi piedi.
Di questo film è da ricordare il discorso finale del barbiere:

Il barbiere: Speranza… Sono desolato, ma non voglio essere imperatore, non mi interessa. Non voglio né conquistare né dirigere nessuno. Nella misura del possibile voglio aiutare tutti, ebrei, cristiani, pagani, bianchi e neri .Noi tutti vogliamo aiutarci vicendevolmente. Gli esseri umani sono fatti così. Vogliamo vivere della reciproca felicità. Non vogliamo odiarci e disprezzarci. Al mondo c'è posto per tutti. E la buona terra è ricca e in grado di provvedere a tutti. La vita può essere libera e bella, ma noi abbiamo smarrito la strada: la cupidigia ha avvelenato l 'animo degli uomini, ha chiuso il mondo dietro una variegata di odio, ci ha fatto marciare, con il passo dell'oca, verso l'infelicità e lo spargimento di sangue.
Abbiamo aumentato la velocità, ma ci siamo chiusi dentro. Le macchine che danno l'abbondanza ci hanno lasciati nel bisogno. La nostra sapienza ci ha resi civici; l'intelligenza duri e spietati. Pensiamo troppo e sentiamo troppo poco. Più che di macchine abbiamo bisogno di umanità. Più che di intelligenza abbiamo bisogno di dolcezza e di bontà. Senza queste doti la vita sarà violenta e tutto andrà perduto.
L'aereo e la radio ci hanno avvicinati. E' l'intima natura di queste cose a invocare la bontà dell'uomo, a invocare la fratellanza universale, l'unità di tutti noi. Anche ora la mia voce raggiunge milioni di persone in ogni parte del mondo, milioni di uomini, donne e bambini disperati, vittime di un sistema che costringe l'uomo a torturare e imprigionare gli innocenti.
A quanti possono udirmi io dico: non disperate.  L'infelicità che ci ha colpito non è che un effetto dell'ingordigia umana: l'amarezza di coloro che temono la via del progresso umano. L'odio degli uomini passerà, i dittatori moriranno e il potere che hanno strappato al mondo ritornerà al popolo. E finché gli uomini non saranno morti la libertà non perirà mai. Soldati! Non consegnativi a questi bruti, che vi disprezzano, che vi riducono in schiavitù, che irreggimentano la vostra vita, vi dicono quello che dovete fare, quello che dovete pensare e sentire! Che vi istruiscono, vi tengono a dieta, vi trattano come bestie e si servono di voi come carne da cannone.
Non datevi a questi uomini inumani: uomini-macchine con una macchina al posto del cervello e una al posto del cuore!
Voi non siete delle macchine!
Non siete degli schiavi!
Siete degli uomini! Con in cuore l'amore per l'umanità!
Non odiate! Odiate solo ciò che è inumano, ciò che non è fatto d'amore.
Soldati! Non combattete per la schiavitù, battetevi per la libertà!
[…]
Voi, il popolo, voi che avete il potere, il potere di creare le macchine, il potere di creare la felicità. Voi, il popolo, voi che avete il potere , il potere di rendere questa vita libera e bella, di rendere questa vita una magnifica avventura.
E allora, in nome della Democrazia, usiamo questo potere, uniamoci tutti. Battiamoci per un mondo nuovo, un mondo buono, che dia agli uomini la possibilità di lavorare, che dia alla gioventù il futuro e alla vecchiaia una sicurezza.
Promettendo queste cose i bruti sono saliti al potere. Ma essi mentono! Non mantengono questa meravigliosa promessa. Né lo faranno mai! I dittatori liberano se stessi ma riducono il potere in schiavitù.
Allora, battiamoci per realizzare le loro promesse, battiamoci per liberare il mondo, per abbattere le barriere nazionali e quelle della razza, per eliminare l'ingordigia, l'odio e l'intolleranza.
Battiamoci per un mondi ragionevole, un mondo in cui la scienza e il progresso conducano alla felicità di tutti. Soldati uniamoci in nome della Democrazia!
[…]

 

 

Il Nepal

SCHEDA DEL PAESE

Superficie: 145.391 chilometri quadrati.
Terreno: Prevalentemente montuoso.
coltivato 14 %
pascolo 13%
foresta 32%
Popolazione: 16.500.000 circa (la metà sotto i 21 anni).
Governo: Monarchia
Capitale: Kathmandu (popolazione300.000 ab., zona metropolitana 800.000).
Popoli: Gruppi tribali, tra cui Gurung, Limbu, Magar, Newari, Rai, Sherpa, Tamang, Taru, e diverse tribù minori.
Numerosi indiani e tibetani vivono stabilmente nel Paese.
Lingue: Nepali 58% (lingua ufficiale), Newari 3% (specialmente a Kathmandu), lingue indiane 20% (spec. nel Terai), oltre a numerose altre lingue e dialetti meno importanti.
Religione: 90% Induista,
8% Buddista,
2% Islamica (dati ufficiali).
Località più elevata: Monte Everest, chiamato anche Sagarmatha (8.848 m.); il punto più alto della Terra.

IL TERRITORIO

Più di un quarto dell'area del Nepal si eleva oltre i 3.000 metri. Vi si trovano ben otto
cime oltre gli 8000 METRI: l'Everest, il Kanchenjunga, il Lhotse, il Makalu, il Cho
Oyu, il Dhaulagiri, il Manaslu, e l'Annapurna. Numerosi fiumi che scorrono in profonde gole tagliano la catena montuosa, per poi precipitare nelle valli più basse. A novanta chilometri a sud della grande catena, i monti del Mahabharat Lekh raggiungono altezze comprese tra i 1.500 e i 2.100 metri. Ampie valli dal clima tropicale si trovano letteralmente incastrate nel complicato profilo della catena, attraverso la quale scorrono soltanto tre fiumi.
Immediatamente più a sud sorgono le colline Siwalik, che si staccano improvvisamente dalla piana del Terai per raggiungere altezze comprese tra i 750 e i 1.500 metri. Il terreno secco e brullo consente a malapena la sopravvivenza alla scarsa popolazione che vi si è insediata.

Nel nord-ovest del paese una catena transhimalayana segna il confine tra il
Nepal e il Tibet. A trentacinque chilometri a nord del rilievo principale sorgono cime
tra i 6.000 e i 7.000 metri, fortemente erose dal vento e caratterizzate da un profilo
meno aspro.

A sud si trova il Terai, l'estensione nepalese della vasta pianura del Gange; dal confine meridionale questa regione pianeggiante si estende in larghezza tra i 25 e i 40 chilometri ed è in netto contrasto con l'aspro rilievo del resto del paese.
Fino a poco tempo fa questa regione era una giungla impenetrabile infestata dalla
malaria, mentre oggi è diventata la zona più popolata del Nepal. La maggior parte
delle industrie è concentrata nel Terai, mentre le pianure costituiscono il terreno ideale per la coltivazione del riso e di altri cereali.
Nel Terai l'estate è calda, con temperature che spesso possono superare anche i 38°C.
e l'inverno notevolmente freddo, con temperature che scendono fino a 10°C.. Le
piogge, più copiose a est, arrivano principalmente nella stagione dei monsoni che va
da giugno a settembre.
La capitale del Nepal, Kathmandu, è una città di circa 300.000 abitanti, allo stesso tempo
medievale e moderna.
Essa gode di un clima mite nonostante si trovi a 1331 metti sul livello del mare. D'estate la temperatura massima è di circa 30°C. e in inverno la temperatura media si aggira intorno ai 10°C..
L'inverno è talvolta molto rigido, ma secco e senza nevicate, mentre durante la
stagione estiva dei monsoni piove abbondantemente.
Questo clima mite consente, inoltre, di ottenere tre raccolti all'anno intervallati da piccole
semine. A nord di Kathmandu, sulle montagne, i temporali sono frequenti e le gelate invernali
limitano l'agricoltura, tuttavia le patate vengono coltivate fino a 4.000 metri, e l'orzo
anche a quote più elevate.Negli altopiani al di sopra dei 4.000 metri si ha un clima alpino. L'estate è breve, l'inverno rigido e secco, con abbondanti nevicate e forti venti.

CENNI STORICI

Le origini del Nepal sono avvolte nella leggenda: la valle principale del Nepal sarebbe stata in antico un grande lago, in cui il grande dio Vishnu avrebbe aperto un varco con la spada. Nell'VIII-VII secolo a.C. la tribù dei Kirhati, costituita da guerrieri e commercianti di origine mongola, fondò un potente regno. La leggenda tramanda che il potente re Yalambar abbia
addirittura partecipato alla famosa battaglia del "Mahabharata", durante la quale morì. Sembra inoltre che nel VI secolo a.C., nell'attuale villaggio di Lumbini, fosse nato il Buddha. L'apogeo del buddhismo si ebbe nel III secolo a.C., al tempo del sovrano indiano Ashoka. Verso il 200 a.C. Kirhati vennero cacciati dai Licchavi, provenienti dall'India settentrionale.

Assai vaghe anche le notizie di questo periodo. Reperti scoperti nelle città che costituirono le capitali dei successivi principati nepalesi e notizie confermate nei racconti dei pellegrini buddisti cinesi accennano alle dinastie dei Licchavi e dei Malla.
Durante il regno di Amshuvarma, il Nepal raggiunse un periodo di grande floridezza, mantenendo la propria indipendenza dall'India e dal Tibet, con cui allacciò intensi scambi economici e culturali. Questo sovrano, infatti, sposato con una principessa cinese, combinò il matrimonio tra sua sorella e un principe indiano e fece sposare la figlia con il potente re del Tibet Songtsen Gampo. La potenza dei Licchavi declinò nel IX secolo. Dopo tre secoli di periodo oscuro, nel 1200 i Malla, popolo audace e guerriero, dominarono dall'XI al XIV secolo tutte le vaste terre desertiche a nord dell'Himalaya. Controllando perfino le strade dei pellegrin, sfruttando i ricchi giacimenti d'oro di Tok-Gialug; i Malla ebbero il monopolio assoluto dei traffici intercorrenti tra India e Tibet. Veri indù, benché adorassero Shiva, tolleravano i seguaci del buddhismo. Alla morte dell'ultimo re Malla, Yaksha (1428-1482), il regno venne diviso tra i figli, che diedero vita a diversi principati, che sopravvissero e prosperarono per tre secoli.

Nel 1810 scoppiò la guerra tra nepalesi e inglesi. In seguito al "Trattato di amicizia" del 1816, il Nepal perse tutti i territori ad est e ad ovest dei confini attuali, compresa la maggior parte del Terai, mentre gli inglesi ottennero anche il diritto di sistemare un proprio residente a Kathmandu. In seguito, i rapporti tra Nepal e Gran Bretagna furono piuttosto buoni: la politica di Londra mirò ad instaurare una collaborazione con il governo nepalese per assicurarsi il confine himalayano e garantirsi un appoggio contro eventuali moti indiani. Il governo nepalese fornì truppe ai britannici nelle guerre afghane e birmane e nella repressione contro la rivolta indiana del 1857; il reclutamento di guerrieri ghurka come reparti scelti a carattere mercenario divenne normale per le milizie inglesi. La figura che contribuì di più ad instaurare la collaborazione con gli inglesi fu Jung Bahadur, primo ministro dal 1846 al 1877. Superando turbinosi intrighi di palazzo, riuscì ad ottenere la restituzione delle terre cedute dal Nepal nel 1816. A lui si deve l'instaurazione di un particolare regime di amministrazione, in vigore fino al 1951: per esso, le funzioni di governo erano monopolizzate ereditariamente dalla famiglia Rana, di cui Jung Bahadur era fondatore. Il membro più anziano della stirpe ricopriva automaticamente la carica di primo ministro, avendo in appannaggio larghi feudi, vari privilegi per sé e per gli altri membri della famiglia, oltre al titolo di maharaja. Il potere politico ed economico perciò era nelle mani dei Rana, mentre la figura del sovrano era puramente rappresentativa. L'equilibrio che manteneva i Rana al potere venne rotto nel 1947, con l'indipendenza dell'India e la sostituzione dell'influenza indiana al protettorato britannico. Venne avviato quindi un processo di trasformazione della vita politica del paese che privò i Rana del potere e ripristinò la figura del re, gettando alcune basi per una democratizzazione dall'alto e per una modernizzazione dell'economia. Nel 1963 venne promulgata una Costituzione che instaurava la democrazia parlamentare; ciò nonostante, negli ultimi trent'anni vennero più volte promulgate leggi di emergenza, ordinato il bando dei partiti politici, organizzate serie repressioni. Solo nel 1991, a seguito di imponenti manifestazioni e tentativi svariati di riscrivere la Costituzione, si sono tenute le prime elezioni pluripartitiche, dopo più di tre decenni, vinte con esigua maggioranza dal Partito del Congresso del Nepal.

LE RELIGIONI

Induismo e Buddismo sono le maggiori religioni presenti in Nepal. Spesso è difficile distinguere i due culti, e il risultato è una proliferazione di fedi, divinità, e celebrazioni, con caratteristiche non riscontrabili in nessun'altra parte della Terra. La tolleranza religiosa è essenziale per la convivenza di un numero così grande di culti diversi. Una persona, diventando seguace di Buddha non cessa di essere induista. Le divinità che formano la Trinità induista, e cioè Brahma, Shiva, e Vishnu, vengono considerate dai buddisti avatar del Buddha Primordiale e occupano importanti posizioni nella cosmogonia buddista. Allo stesso modo, gli induisti considerano il Gautama Buddha un'incarnazione di Vishnu. I leader politici della Valle di Kathmandu sono sempre stati induisti, ma non si sono mai opposti allo sviluppo di altre fedi religiose. I nepalesi sono molto devoti nei confronti di Vishnu, ma è Shiva "il distruttore" l'oggetto delle maggiori attenzioni. Quelli che adorano Shiva non lo fanno per amore della distruzione, ma perché l'uomo deve accettare che ci sarà un fine a tutto e che da quella fine avrà origine un nuovo inizio. La giornata del nepalese trascorre regolata dalle funzioni religiose e dalle cerimonie istituite in onore delle molteplici divinità. La festa più popolare è il Durga-puja, che dura dieci giorni durante i quali centinaia di bufali vengono decapitati in onore della dea Durga. I riti religiosi spesso sono accompagnati da danze: le maschere che coprono il volto dei danzatori si ispirano all'arte tibetana per i buddhisti, a quella nepalese per gli induisti.

Shiva è una divinità multipla. E' distruttore e Creatore, e allo stesso tempo la fine e l'inizio di tutte le cose. Nelle sue manifestazioni terribili è Bhairav ("Il Crudele"), o Rudra, o Ugra, o Shaya ("li Cadavere"); in quelle pacifiche è Mahadeva ("Il Grande Dio"), o Ishwara ("Il Signore"), o Pashupati ("Il Signore degli Animali"). Solitamente Shiva viene personificato come un uomo dalla carnagione chiara con la gola blu e con cinque facce, quattro braccia e tre occhi. Impugna un tridente (simbolo del fulmine), una spada, un arco, e una mazza con un teschio fissato all'estremità superiore. Unitamente al figlio Ganesh, il dio dalla testa di elefante, è venerato nella Valle come la divinità più benigna, anche se, allo stesso tempo, può essere la più terribile. Oggi molti suoi fedeli provenienti dall'India e dal Nepal, si recano una volta all'anno a Pashupatinath, in marzo e in febbraio, per celebrare la festa di Shivaratri. E' questo il più sacro dei templi nepalesi dedicati a Shiva, costruito nel 1696.
Il complesso religioso è formato da un insieme piuttosto tetro di tetti di lamiera ondulata
raggruppati intorno ai tetti dorati del tempio. A fianco del complesso scorre il fiume sacro
Bagmati.

L’ARTIGIANATO

L'artigianato nepalese, pur risentendo dell'influenza indiana e tibetana, ha un'impronta personale. Nella parte nord-occidentale del paese è diffusa l'arte di intagliare il legno con molta abilità: tutti gli spazi sono ricoperti con fregi, arabeschi, figure, in un groviglio di teste e di mani, che rammenta la visione caotica di un mondo primordiale. I prodotti tessili sono degni di tutto rispetto: non è difficile trovare maglioni di lana tibetano-nepalese, topi (cappelli), guanti fatti a mano, calzettoni di lana, abiti tibetani che si abbottonano su un fianco, maglie da uomo di cotone che si allacciano diagonalmente con i nastri posti sul petto. I topi sono di due tipi: quelli neri, più sobri, e quelli multicolori. Sono l'equivalente orientale della cravatta e tutti i nepalesi devono fame uso quando si recano negli uffici pubblici. Le coperte di lana sono un prodotto tipico del Nepal. I tappeti nepalesi sono spesso di buona fattura: i disegni sono tibetani, tibetano-nepalesi o geometrici. Oggetti tipici nepalesi: ricordiamo il khukri, il coltello nazionale che viene portato alla cintura e talvolta è riccamente decorato; il saranghi, una piccola viola a quattro corde ricavata da un unico pezzo di legno e suonata dai gaine (menestrelli) con un archetto di crine di cavallo.

ASPETTI ECONOMICI

In base al reddito medio annuo pro capite, il Nepal si inserisce nella fascia dei Paesi molto poveri.

Agricoltura -  Utilizzo dei suolo:
seminativi e colture legnose 18,9%,
prati e pascoli 14,2%,
foreste e boschi 17,6%,
incolti e improduttivi 49,3%.
Prodotti principali - cereali (riso, mais,
frumento, miglio), tabacco, canna da zucchero, iuta, legname.
Allevamento - Bovini, bufali, caprini, ovini, suini.
Risorse minerarie -  Inesistenti.
Esportazioni - Riso, prodotti alimentari, prodotti
dell'allevamento, iuta, legname.

Dopo secoli di autoisolamento, attualmente l'industria più redditizia è quella turistica, che interessa soprattutto la vallata di Kathmandu e i sentieri del trekking. La seconda attività del Nepal è la fabbricazione di tappeti, esportati su vasta scala. Essa deve il suo successo all'intraprendenza dei rifugiati tibetani che si stabilirono a Kathmandu dopo essere fuggiti dal Tibet nel 1959.

LE CITTA'

La valle di Kathmandu, a 1300 m di altezza, è il cuore del Nepal, è abitata da 1.702.000 persone.
Kathmandu sorge alla confluenza del Bagmati col Vishnumati e ha il suo centro monumentale nella Durbar Square dove si trovano il palazzo reale, il palazzo della Kumari, la dea vivente, il tempio di Narayan, una pagoda a cinque piani e a tre tetti dedicata a Vishnu e l'edificio di Kastha Mandap, l'antico centro di ricovero di pellegrini e di mercanti che costituì il primo nucleo dell'intera città. La dea vivente viene scelta tra un gran numero di bambine di quattro o cinque anni, tutte appartenenti al clan degli orafi e degli argentieri. Il corpo della kumari deve essere perfetto e conforme a 32 requisiti ben precisi. La fase finale della selezione consiste in una terribile prova che si svolge all'interno del tempio: uomini mascherati da demoni cercano di spaventare le bambine, intorno alle quali vengono poste teste di bufali ancora sanguinanti. La bambina che mostra di non aver paura è senz'altro la dea stessa. La prescelta vivrà in questa casa, che rimarrà la sua casa fino alla pubertà. Potrà uscire solo per alcune festività religiose e dovrà essere portata su una portantina poiché le è proibito toccare il suolo con i piedi. Quando giungerà il tempo di scegliere un'altra kumari, la ragazza lascerà il tempio con una ricca dote e sarà libera di sposarsi.

La città di Patan (Lalitpur) si trova su di un altopiano a circa 5 km da Kathmandu con cui forma ormai un'unica conurbazione. Il suo Durbar ( la piazza principale ) è certo il più suggestivo della valle con il palazzo reale e le pagode a più piani. Bhagadaon (Bhaktapur) sorge a 14 km da Kathmandu ed è collegata alla capitale da una linea filoviaria. Anche il suo Durbar è ricchissimo di monumenti. Ricordiamo fra gli altri l'antico palazzo reale, un capolavoro dell'architettura civile in mattoni e in legno. Tutte le sue 55 finestre sono minutamente intagliate nel legno.

 

 

 
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