|
|
|
|
|
Alcuni
collegamenti possono essere
interrotti e non tutto il materiale di
questa pagina è già stato pubblicato.
|
|
Il
1800:il romanticismo nato in Germania |
Il 1800:il romanticismo nato in Germania
Il termine romantico viene
usato dagli scrittori in contrapposizione al termine “classico” e
sta ad indicare la dimensione emotiva e irrazionale, sentimentale, delle
loro opere.
Il Romanticismo è un
movimento culturale complesso, che presenta molte differenze fra i vari
Paesi europei in cui si manifesta. Tuttavia le caratteristiche comuni
sono:
Il sentimento: in
opposizione agli illuministi che sostenevano il primato della ragione e
il principio di uguaglianza tra gli uomini, i romantici rivalutano il
sentimento, la passione, l’istinto, ed esaltano le differenze
individuali. I romantici, inoltre, riscoprono la potenza creatrice della
fantasia e credono che l’intuizione e il sogno possano interpretare,
riflettere, i misteri dell’uomo meglio della ragione.
L’inquietudine: i
romantici aspirano ad evadere dalla realtà perché la sentono come una
prigione che soffoca la potenza creativa dell’io. Il contrasto con il
mondo reale dà loro un senso continuo di infelicità e
un’inquietudine che li spinge a cercare i più grandi valori: Dio,
l’amore perfetto, gli ideali più alti della patria e dell’umanità.
Per raggiungere ciò in cui credono, essi assumono a volte atteggiamenti
di eroi ribelli pronti a violare ogni regola; altre volte diventano eroi
e vittime condannati al dolore e alla noia.
La storia: i romantici
attribuiscono alla storia un grande valore. Essa è maestra di vita,
perciò gli uomini devono studiare la storia per capire sé stessi e le
proprie origini. Gli uomini moderni devono scoprire le proprie radici,
soprattutto nel medioevo, perché è quell’età, in cui si sono
consolidate la lingua, le tradizioni e la religione di ogni Paese
europeo, e si sono formati i primi Stati Nazionali. Bisogna cercare la
propria identità nazionale nella cultura del popolo, nei suoi usi e
costumi, nei dialetti, nelle fiabe, e nelle leggende che ogni
generazione tramanda a quelle seguenti.
IL QUADRO STORICO
L’età del romanticismo
coincide con gli anni in cui la borghesia si afferma come classe
dirigente e toglie il potere ai nobili, guidando grandi trasformazioni
economiche, culturali e politiche. Si organizzano in società segrete,
lottano contro l’assolutismo, vogliono l’umiltà e l’indipendenza.
Con la rivoluzione industriale introducono nell’economia le regole del
capitalismo e spingono l’Europa verso un ammodernamento tecnologico
che cambia la vita delle popolazioni. Si spopolano le campagne e si
sviluppa il fenomeno dell’urbanesimo: intorno alle fabbriche sorgono
cantieri nei quali i lavoratori e le loro famiglie vivono in condizioni
di miseria. L’Italia vede svilupparsi la propria industria in ritardo
rispetto alle altre potenze europee. Tuttavia il clima culturale è
molto vivace: intellettuali ed artisti vivono intensamente le vicende
storiche e politiche del tempo, che si riflettono nelle loro opere.
|
Giacomo
Leopardi (1798-1837)
|
Il Verismo |
L’ermetismo
di Ungaretti |
Il Decadentismo |
Gabriele
D’annunzio
|
Giornalismo
e informazione |
Il
Conte Camillo Benso di Cavour
|
Giuseppe
Garibaldi |
Mafia
e brigantaggio
|
Museo
del Risorgimento |
La
vita di un soldato in trincea
|
Intervista a
Fernanda
Rossi Bortolotti
|
Spettacolo
teatrale “San Martino sotto le bombe”
|
Il
Grande Dittatore
|
Il
Nepal
|
|
Giacomo
Leopardi (1798-1837)
Giacomo leopardi nasce
primogenito del conte Monadi e di Adelaide Antici nel 1798, precisamente
il 29 giugno. Suo padre era un uomo colto, e possedeva nel palazzo anche
una grande biblioteca, e anche molto conservatore: ciò influenzò
all’inizio le ideologie politiche del figlio. Anche la madre era di
ideologia ecclesiastica e conservatrice e d era lei a mandare avanti la
famiglia in un’atmosfera autoritaria e priva di affetto o confidenza.
Leopardi fu istruito da
professori ecclesiastici fino ai dieci anni, quando da loro non ebbe più
niente da imparare, e si chiuse nella biblioteca paterna
“buttandosi” in uno studio assatanato per anni e ciò contribuì a
peggiorare la sua situazione fisica, già molto debole. Tra il 1815 e il
1816 legge grandi poeti e viene a contato con la cultura romantica.
Conobbe Pietro Giordani, laico e democratico, che gli fece capire il
malessere di vivere in una famiglia solitaria e chiusa, e suscitò in
lui un tentativo di fuga, scoperto e sventato nell’estate del 1819. La
fallimentare fuga lo porta ad una visione della vita e del mondo molto
pessimistica e lo porta a rintanarsi sempre di più nel mondo della
lettura e della immaginazione ( ebbe anche un’infermità agli occhi).
In questo momento Leopardi passa dai grandi racconti, dalla poesia di
immaginazione ad una filosofia poetica piena di pensieri: dal bello
al vero. In questo momento scrive L’Infinito. Anche le
riflessioni e gli appunti dello Zibaldone, diventano più
profondi. Nel 1822 ha la possibilità di recarsi a Roma, dallo zio Carlo
Antici, ma glia ambienti romani glia appaiono vuoti e meschini e fa
ritorno a Recanati nel 1823. Dal ’23 al ’25 scrive le Operette
Morali, in cui è descritto tutto il suo possibile pessimismo. Nel
1825 lascia la famiglia e a Bologna, Firenze, Milano scrive per un
editore milanese antologie e commenti su grandi scrittori.
Nell’inverno ’27 – ’28, a Pisa, la tranquillità e una tregua
dei mali gli danno l’ispirazione per scrivere A Silvia, la
prima dei Grandi Idilli. Nel 1828 peggiorano la salute e le
necessità economiche, che lo costringono a far ritorno a Recanati. Nel
1830 accetta da degli amici fiorentini un assegno mensile per un anno e
lascia Recanati per sempre. Dal 1830, a Firenze, stringe amicizia con un
certo Antonio Ranieri fino alla morte nel 1837, il 14 giugno.
LA POETICA
Tutta la poesia leopardiana
è dominata da un motivo pessimistico e dall’infelicità dell’uomo
che vuole ottenere piaceri “infiniti”, per estensione e durata, ma
che sono irrealizzabili, creando in Leopardi un vuoto incolmabile
nell’anima.
Nella prima parte del suo
pensiero, tutto fa capo alla natura, intesa come madre benigna ed è lei
che lavora per il bene delle persone; lui, però, mette a confronto la
civiltà del suo tempo, che si basa sulla verità e quella antica, greca
e romana, che era capace di fantasticare e creare illusioni che
rendessero felici le persone: questi ragionamenti sono alla base del pessimismo
storico, ci l’uomo è la causa della propria infelicità.
Dal ’24 in poi tutti gli
scritti di Giacomo Leopardi saranno influenzati dl pessimismo cosmico.
Infatti, dopo lunghe riflessioni, egli ha concepito la natura, prima
benigna, come qualcosa che non guardasse ai singoli individui e alla
loro felicità, ma tenesse soltanto alla conservazione della specie e
alla formazione negli
uomini di un piacere infinito che lei non mette a disposizione, facendo
dell’uomo solo un’innocente vittima.
Se nella realtà, però, non
si può ottenere il piacere infinito, nella poesia tutto è permesso.
Leopardi, come poeta, pensa di essere un “ponte” fra gli antichi,
come già detto fantasiosi e poetici, e la sua società in cui si è
persa la poetica del vago e dell’indefinito assieme alla fanciullezza
tipicamente antica. Nelle sue poesie, Leopardi, spesso si ispira al
classicismo antico, fantasioso e surreale, portandolo al romantico. E’
il classicismo romantico.
Leopardi introduce molte
innovazioni nella struttura e nel linguaggio della poesia: usa strofe di
lunghezza variabile, versi sciolti dall’obbligo della rima, spesso
endecasillabi e settenari, che si alternano liberamente. Le poesie del
Leopardi hanno un’intensa musicalità che deriva dalle rime, rime al
mezzo (parole che rimano al centro di due versi) e allitterazioni
(ripetizioni degli stessi suoni all’inizio o anche all’interno di più
parole successive).
Le parole vengono scelte per
il loro significato vago e indistinto oppure perché sono parole colte
ed appartengono ad una lunga tradizione letteraria.
TUTTO LEOPARDI
·
Dal 1818 al 1823 scrive le canzoni, con un’idea
classica e riferita al pessimismo storico; le canzoni più famose sono
“ad Angelo Mai”, “Bruto Minore”, “Ultimo Canto di Saffo”.
·
Dal 1819 al 1821 scrive gli idilli,
in cui descrive momenti fondamentali della sua vita interiore; gli
idilli più conosciuti sono “l’Infinito” e “alla Luna”.
·
Dalla stagione delle
canzoni/idilli al 1828 scrive le Operette Morali, prose di
argomenti filosofici (anche tratti dallo Zibaldone) descritte
attraverso miti, personaggi storici o inventati, bizzarri, favolosi…
che affrontano l’infelicità inevitabile dell’uomo, l’impossibilità
del piacere, la noia, il dolore, i mali concreti e i materiali che
affliggono l’umanità.
·
Dal 1828 in poi scrive i
Grandi Idilli, con un risorgimento della sua facoltà di sentire,
commuoversi, immaginare, con illusioni e speranza e l’acquisita
consapevolezza del vero e reale.
Dopo il 1830 Leopardi si allontana definitivamente
da Recanati, ed è più orgoglioso, ma non si basa più su
fantasticherie, bensì sulla severità, sulle critiche più crude alla
società senza grandi immagini poetiche. Una poesia totalmente nuova a
cui contrappone le sue concezioni pessimistiche che escludono ogni
miglioramento della condizione umana.
|
|
Il Verismo
Il Verismo è un movimento
letterario che si diffonde in Italia negli ultimi decenni
dell’Ottocento e nei primi anni del Novecento. Negli ultimi decenni
del secolo, al piano sociale trionfa la borghesia industriale, che
consolida sempre più il suo potere economico.
La società è pervasa da una
fiducia diffusa di una espansione senza limiti e dalla fede in un
progresso continuo della tecnica. Si fanno importanti scoperte, come la
macchina a vapore e si opera una rivoluzione dei trasporti. Le masse dei
lavoratori prendono coscienza dei loro diritti e delle disuguaglianze
sociali e cercano di migliorare le loro condizioni. Si pensa che sia
possibile individuare non solo le leggi che regolano i fenomeni fisici,
ma anche quelle che regolano i comportamenti umani. Anche la letteratura
e gli scrittori si devono impegnare ad analizzare la realtà con rigore
scientifico. Nei romanzi occorre rappresentare tutte le classi sociali,
anche quelle più umili, e tutti gli aspetti dell’esperienza, anche
quelli più penosi e sgradevoli. IL Verismo si ispira al Naturalismo
francese e ha queste caratteristiche:
·
Il regionalismo: gli scrittori veristi analizzano e
descrivono delle realtà sociali tipiche della oro regione che sempre
presenta degli aspetti diversi dalle altre, anche perché
l’unificazione dell’Italia era avvenuta da poco.
·
Il pessimismo: le
opere dei veristi esprimono una concezione pessimista della vita o del
destino degli ultimi. L’unità nazionale non ha cambiato le sorti
delle classi più povere che sembrano prive di speranza.
·
L’impersonalità: i
veristi vogliono rappresentare la realtà in modo oggettivo, senza
commentarla o interpretarla.
·
Il linguaggio: gli
scrittori veristi adottano la lingua nazionale e non il dialetto perché
vogliono essere compresi da tutti, ma in alcuni termini e nella
struttura delle rasi riproducono il modo di esprimersi della gente
semplice.
Il Verismo si sviluppa a
Milano, la città dalla vita culturale più ricca, in cui si raccolgono
intellettuali e scrittori di culture diverse.
Giovanni Verga
Giovanni Verga nasce a
Catania nel 1840 da una famiglia di piccoli proprietari terrieri.
Frequenta la facoltà di giurisprudenza che poi abbandona per seguire la
propria vocazione letteraria. Partecipa con passione alla Seconda Guerra
d’Indipendenza. Nel 1872 si stabilisce a Milano che è il centro
economico e culturale d’Italia.
Qui scrive tutte le sue opere
più importanti. Nel 1893 ritorna a Catania dove morirà nel 1822. nelle
sue opere rappresenta la realtà sociale della Sicilia sono soprattutto
dei “vinti”, cioè coloro che nella lotta per l’esistenza sono
destinati a essere sconfitti. Per riprodurre la società in modo
scientifico, Verga la osserva scrupolosamente studiando l’ambiente
fisico e il dialetto, documentandosi sui mestieri e sulle tradizioni.
|
|
L’ermetismo
di Ungaretti
Fra le correnti artistiche
che si riconoscono nel Novecento ricordiamo l’Ermetismo.
La poesia ermetica fu così
chiamata nel 1936 dal critico Francesco Flora che con l’aggettivo
“ermetico” volle definire un tipo di poesia caratterizzata da un
linguaggio difficile e misterioso. I poeti ermetici non raccontano, non
descrivono, non spiegano, ma fissano sulla pagina dei frammenti di verità
a cui sono pervenuti in momenti di grazia, attraverso la rivelazione
poetica e non con l’aiuto del ragionamento. I loro testi sono
estremamente concentrati: molti significati si racchiudono in poche
parole e tutte le parole hanno una intensa carica simbolica. La poesia
degli ermetici vuole liberasi dalle figure retoriche, dalla ricchezza
lessicale fine a sé stessa, dai momenti troppo autobiografici o
sentimentali. Secondo gli ermetici la poesia deve esprimersi con termini
essenziali.
La sintassi è semplificata,
spesso privata dei nessi logici. Gli spazi bianchi e le pause
rappresentano momenti di concentrazione, di silenzio e di attesa. I
poeti ermetici si sentono lontani dalla realtà sociale e politica del
loro tempo. Il poeta più rappresentativo della corrente è Giuseppe
Ungaretti.
|
|
Il Decadentismo
Il Decadentismo è una
corrente artistica che si diffonde in Europa all’incirca tra il 1870 e
il 1920: sono gli anni della Seconda Rivoluzione Industriale,
durante i quali le nuove scoperte scientifiche e tecnologiche
trasformano radicalmente la società. Il petrolio prende il posto del
carbone, l’energia elettrica si sostituisce al vapore, si diffondono
l’illuminazione elettrica, il telefono, l’acqua corrente. Si
producono le prime automobili, aeroplani, i primi film. La scienza
medica fa enormi progressi. Molti Paesi europei si spingono verso la
conquista di coloni in altri continenti. In questo periodo l’amor di
patria degenera nel nazionalismo. Si diffonde il mito della
razza, cioè la convinzione che certe razze umane siano superiori ad
altre.
La classe operaia richiede, e
in parte ottiene, importanti riforme sociali. A partire dal 1870
l’Europa vive un lungo periodo di pace, ma nel 1914 scoppia la Grande
Guerra, la Prima Guerra Mondiale.
Queste grandi trasformazioni
mettono in crisi i valori e le idee in cui hanno creduto i romantici:
gli ideali di patria, lo spirito religioso, la tradizione popolare. Al
Romanticismo si sostituisce il Decadentismo, che si manifesta in
tutta Europa con caratteri comuni:
·
I decadenti non hanno fiducia nella ragione,
sentono infatti che le verità più profonde e i misteri, si colgono con
l’intuizione e le emozioni.
·
I decadenti si isolano
dalla sociètà, non si riconoscono in un mondo così cambiato e
rifiutano la letteratura come impegno sociale.
·
I decadenti sono dominati
dall’ansia di evadere dalla realtà,
sognano il ritorno all’infanzia come età magica.
Assumono la bellezza come valore assoluto e ragione di vita. Esaltano
le esperienze che giudicano uniche e inimitabili.
·
I decadenti sono individualisti,
cioè i personaggi delle loro opere sono volti ad esaltare il proprio “io”,
sono eroi negativi oppure superuomini, che si sentono ben diversi
dalla massa degli uomini.
·
I decadenti adottano un nuovo
linguaggio: i poeti si servono di simboli, di analogie, di suoni
suggestivi, per riprodurre sensazioni. Rifiutano molte regole della
metrica e ricercano forze espressive nuove. Anche il romanzo
cambia: più che una narrazione di vicende diventa un’opera di
riflessione e analisi di sé.
Patriottismo (es. Garibaldi)
= cacciare gli stranieri invasori per la patria e i valori democratici
(libertà, costituzione…).
Nazionalismo (es. D’Annunzio) = potenziare la
propria nazione, attraverso il colonialismo o con ogni altro mezzo o
azione, a scapito delle altre.
|
|
Gabriele
D’annunzio
Amando
definire «inimitabile» la sua vita, Gabriele D'Annunzio costruisce
intorno a sé il mito di una vita come un'opera d'arte.
LA
VITA
Gabriele
D'Annunzio nasce a Pescara il 12 marzo 1863 da famiglia borghese, che
vive grazie alla ricca eredità dello zio Antonio D'annunzio. Compie gli
studi liceali nel collegio Cicognini di Prato, distinguendosi sia per la
sua condotta indisciplinata che per il suo accanimento nello studio
unito ad una forte smania di primeggiare. Già negli anni di collegio,
con la sua prima raccolta poetica Primo vere , pubblicata a spese
del padre, ottiene un precoce successo, in seguito al quale inizia a
collaborare ai giornali letterari dell'epoca. Nel 1881, iscrittosi alla
facoltà di lettere, si trasferisce a Roma, dove, senza portare a
termine gli studi universitari, conduce una vita sontuosa, ricca di
amori ed avventure. In breve tempo, collaborando a diversi periodici,
sfruttando il mercato librario e giornalistico, e orchestrando intorno
alle sue opere spettacolari iniziative pubblicitarie, il giovane
D'Annunzio diviene figura di primo piano della vita culturale e mondana
romana. Dopo il successo di Canto novo e di Terra vergine
(1882), nel 1883 ha grande risonanza la fuga ed il matrimonio con la
duchessina Maria Hardouin di Gallese, unione da cui nasceranno tre
figli, ma che a causa dei suoi continui tradimenti, durerà solo fino al
1890.
Nel 1891 assediato dai creditori si allontana da Roma, e si trasferisce
insieme all'amico pittore Francesco Paolo Michetti a Napoli, dove,
collaborando ai giornali locali trascorre due anni di «splendida
miseria». La principessa Maria Gravina Cruyllas abbandona il marito e
va a vivere con il poeta, da cui ha una figlia. Alla fine del 1893
D'Annunzio è costretto a lasciare, a causa delle difficoltà
economiche, anche Napoli.
Nel '98 mette fine al suo legame con la Gravina, da cui ha avuto un
altro figlio. Si stabilisce a Settignano, nei pressi di Firenze, nella
villa detta La Capponcina, dove vive lussuosamente.
Successivamente, per sfuggire ai creditori, convinto dalla nuova amante
Nathalie de Goloubeff, si rifugia in Francia. Vive allora tra Parigi e
una villa nelle Lande, ad Arcachon, partecipando alla vita mondana della
belle èpoque internazionale e componendo opere in francese.
Nel 1915, nell'imminenza dello scoppio della prima guerra mondiale,
torna in Italia. Riacquista un ruolo di primo piano, tenendo accesi
discorsi interventisti, e traducendo nella realtà il mito letterario di
una vita inimitabile, partecipa a varie e ardite imprese belliche,
ampiamente autocelebrate. Durante un incidente aereo perde un occhio
guadagnandosi due medaglie d’oro al valore.
Nonostante la perdita dell'occhio destro, diviene eroe nazionale
partecipando a celebri imprese, quali la beffa di Buccari e il volo nel
cielo di Vienna. Alla fine della guerra, conducendo una violenta
battaglia per l'annessione dell'Italia all'Istria e alla Dalmazia, alla
testa di un gruppo di legionari nel 1919 marcia su Fiume e occupa la
città, instaurandovi una singolare repubblica, la «Reggenza italiana
del Carnaro», che il governo Giolitti farà cadere nel 1920.
Non amò il fascismo, tuttavia non vi si oppose mai efficacemente, e la
sua propaganda e la sua retorica contribuirono notevolmente a creare
l’ambiente e lo stato d’animo che permisero a quel movimento di
affermarsi.
Celebrato come eroe nazionale si ritira presso Gardone, sul lago di
Garda, nella villa di Cargnacco, trasformato poi nel museo-mausoleo del
«Vittoriale degli Italiani». Qui, pressoché in solitudine, nonostante
gli onori tributatigli dal regime, raccogliendo le reliquie della sua
gloriosa vita, il vecchio esteta trascorre una malinconica vecchiaia
sino alla morte avvenuta il I° marzo 1938.
LA
POETICA
Il
D’Annunzio come il Pascoli, avvertì i limiti e la crisi del
naturalismo e del Positivismo di fine secolo. Tutti e due hanno infatti
in comune la sfiducia nella ragione e nella scienza, rivelatesi
incapaci, nonostante la conclamata onnipotenza, di dare una spiegazione
sicura e definitiva della vita e del mondo.
Dalla comune sfiducia nella ragione i due poeti derivarono il senso
della solitudine dell’uomo; ma da questo momento il loro pensiero
diverge e approda a due diverse concezioni della vita, muovendosi il
Pascoli nell’ambito del vittimismo romantico con sgomenti e ansie
decadenti, il D’Annunzio nell’ambito dell’estetismo e del
superomismo.
Il D’Annunzio ha un temperamento sensuale, e perciò ha una percezione
egoistica, orgogliosa e arrogante della solitudine, derivata dalla
consapevolezza della eccezionalità della propria persona, che lo spinge
ad affermare la propria supremazia sugli altri, a conquistare il dominio
del mondo.
La poesia del D’Annunzio rispecchia la sensualità del suo
temperamento, intesa come abbandono gioioso alla vita dei sensi e
dell’istinto, per scoprire l’essenza profonda e segreta dell’io
(che è poi quella stessa della natura).
Si rinnova così nel D’Annunzio il dramma romantico della ricerca
dell’assoluto. Ma mentre i romantici cercavano di raggiungerlo con
l’estasi dello spirito davanti all’infinito, il D’Annunzio,
invece, lo cerca con l’estasi panica, cioè con l’immergersi nella
natura delle cose, fino a sentire in bocca il sapore del mondo, come
egli dice, dando vita anche al simbolismo, che concepisce la natura non
come oggetto di una precisa realtà quotidiana, ma come un insieme di
simboli di un'altra realtà più complessa e remota, che il poeta evoca
non mediante il senso logico delle parole, ma con la loro magia
musicale.
L'universo è sentito come un organismo in cui tutte le parti hanno
corrispondenze tra loro e compito del poeta è quello di cogliere le
analogie, svelare i simboli, farsi veggente e interprete dell'ignoto, «decifratore
dell'universale analogia» (Charles Baudelaire). Tra spirito e natura c'è
una unità originaria.
|
|
Giornalismo
e informazione
Visita
alla sede del “Resto del Carlino” - Bologna - 11/2/2003
Sono
molte le cose che mantengono viva l’organizzazione di un giornale, dai
poligrafici ai giornalisti, dalla pubblicità alle tecnologie utilizzate
nel lavoro… ma un giornale, per vendere ed essere apprezzato, deve
avere dei giornalisti che possiedano in particolare alcune
caratteristiche.
Intanto
un buon giornalista deve avere conoscenze e competenze
professionali, cioè deve essere esperto in Diritto, Economia…, e dopo
la Laurea deve fare un tirocinio di tre anni presso un giornale, dove si
apprendono le modalità che riguardano la stesura del giornale.
Essi devono esercitare una corretta comunicazione, calibrando ciò
che si dice a seconda di chi si ha di fronte ( per esempio
l’attenzione verso i più piccoli ) e scrivendo in modo comprensibile
a qualsiasi persona;
devono avere fiuto, in modo che sappiano percorrere le strade che
li portano ai casi più interessanti per il pubblico;
devono possedere conoscenze approfondite, devono essere aperti e capaci
di trovarsi una posizione propria conoscendo più opinioni per avere senso
critico;
devono avere coraggio ( occorrono gli inviati di guerra e gli
autori di inchieste pericolose );
semmai possono avere anche la capacità di usare lo strumento della
lingua in modo originale e vario, per cui li si legge volentieri per
lo stile, oltre che per il contenuto;
c’è da dire anche che ogni giornalista vede solo una parte della
realtà e la comunica dal suo punto di vista ( soggettività ).
Inoltre, una testata deve avere titoli efficaci, ben scritti e
colmi di parole forti, per indurre il lettore a leggere gli articoli.
Per
stampare i giornali, oggi, si procede elettronicamente e anche i
redattori utilizzano i computer, mentre nel passato vi erano
stampi di piombo che richiedevano molti addetti per essere redatti e
manipolati..
Qualche tempo fa la pubblicazione del Carlino prevedeva l’impegno di
ottocento poligrafici e quattrocento giornalisti. Oggi la pubblicazione
di tre testate ( Resto del Carlino, La Nazione, Il Giorno ) implica il
lavoro di cento poligrafici e ottanta giornalisti.
Per fare investimenti innovativi nella tecnologia, nella distribuzione,
per stipendiare tutti la gente che collabora alla stesura della carta
stampata, non basterebbero le sole entrate del prezzo del giornale; è
qui che entra in gioco la pubblicità, che da quasi un secolo è
diventata la fonte di incassi maggiori per qualsiasi giornale, che senza
non potrebbe sopravvivere. Essa fornisce spesso, però, una visione
ingannevole del prodotto pubblicizzato e peggiora sempre di più
quando si fa troppo insistente.
|
|
Il
Conte Camillo Benso di Cavour
Il
conte Camillo Benso di Cavour nacque il 10 agosto 1810 a Torino,
capoluogo allora d'un dipartimento dell'impero napoleonico e morì
sempre a Torino nel 1861. Egli era il secondo figlio del marchese
Michele e della ginevrina Adele di Sellon. Cavour fu da giovane
ufficiale dell’esercito, ma abbandonò molto presto la carriera
militare (era poco più che ventenne), per viaggiare in Europa, stando
lontano da casa per quattro anni, studiando particolarmente gli effetti
della rivoluzione industriale in Gran Bretagna, Francia e Svizzera e
assumendo i principi economici, sociali e politici del sistema liberale
britannico.
Quando rientrò in Piemonte nel 1835, si occupò soprattutto di
agricoltura e si interessò anche di economie e della diffusione di
scuole ed asili. Conobbe anche così le realtà di chi lavorava la terra
e del popolo. Grazie alla sua attività commerciale e bancaria Cavour
divenne poi uno degli uomini più ricchi del Piemonte.
Con la sua entrata in politica (1848) ci fu anche la fondazione del
quotidiano liberale “Il Risorgimento”; alla base delle sue ideologie
c’era una profonda ristrutturazione delle istituzioni politiche
piemontesi e la creazione di uno Stato territorialmente ampio e unito
che avrebbe reso possibile il processo di sviluppo e crescita
economico-sociale da lui promosso con le iniziative degli anni
precedenti.
Nel 1850, essendosi messo in evidenza nella difesa delle leggi Siccardi
(promosse per diminuire i privilegi riconosciuti al clero, prevedevano
l'abolizione del tribunale ecclesiastico, del diritto d'asilo nelle
chiese e nei conventi, la riduzione del numero delle festività
religiose e il divieto per le corporazioni ecclesiastiche di acquistare
beni, ricevere eredità o donazioni senza ricevere il consenso del
Governo), Cavour fu chiamato a far parte del gabinetto d'Azeglio come
ministro dell'agricoltura, del commercio e della marina. Successivamente
fu nominato ministro delle Finanze e con tale carica egli assunse ben
presto una posizione di primo piano, fino a diventare egli stesso, con
la fiducia del re, presidente del Consiglio il 4 novembre 1852 alleato
con Rattizzi, uomo di sinistra.
Quando fu nominato presidente del Consiglio, egli aveva già in mente un
programma politico ben chiaro e definito ed era deciso a realizzarlo,
pur non ignorando le difficoltà che avrebbe dovuto superare. L'ostacolo
principale gli derivava dal fatto di non godere la simpatia dei settori
estremi del Parlamento, in quanto la sinistra non credeva alle sue
intenzioni riformatrici, mentre per le Destre egli era addirittura un
pericoloso giacobino, un rivoluzionario demolitore di tradizioni ormai
secolari. In politica interna egli mirò innanzitutto a fare del
Piemonte uno Stato costituzionale, ispirato al
liberismo, nel quale la libertà fosse la premessa di ogni iniziativa.
Convinto com'era che i progressi economici siano estremamente importanti
per la vita politica di un paese egli si dedicò ad un radicale
rinnovamento dell'economia piemontese:
-
l'agricoltura: venne valorizzata e modernizzata grazie
ad un sempre più diffuso uso dei concimi chimici e ad una vasta opera
di canalizzazione destinata ad eliminare le frequenti carestie dovute a
mancanza d'acqua per l'irrigazione e a facilitare il trasporto dei
prodotti agricoli;
-
l'industria: venne rinnovata ed irrobustita attraverso
la creazione di nuove fabbriche e il potenziamento di quelle già
esistenti specialmente nel settore tessile;
- il
commercio: fondato sul libero scambio interno ed estero
e agevolato da una serie di trattati con la Francia, il Belgio e
l'Olanda (1851-1858) subì un forte aumento .
Inoltre
provvide:
-
a
rinnovare il sistema fiscale, basandolo non solo sulle imposte indirette
ma anche su quelle dirette, che colpiscono soprattutto i grandi redditi;
- al
potenziamento delle banche con l'istituzione di una "Banca
Nazionale" per la concessione di prestiti ad interesse non molto
elevato.
Il
progressivo consolidamento politico, economico e militare, spinse Cavour
verso un'audace politica estera, capace di far uscire il Piemonte
dall'isolamento. In un primo momento egli non aveva creduto opportuno
distaccarsi dal vecchio programma di Carlo Alberto tendente
all'allontanamento dell'Austria dal Lombardo-Veneto e alla conseguente
unificazione dell'Italia settentrionale sotto la monarchia sabauda,
tuttavia in seguito avvertì la possibilità di allargare a livello
nazionale la sua politica, aderendo al programma unitario di Mazzini,
sia pure su basi monarchiche e liberali. Comunque il primo passo da fare
era quello di imporre il problema italiano all'attenzione europea e a ciò
per l'appunto egli mirò con tutto il suo ingegno. Il 21 luglio 1858,
incontrò Napoleone III a Plombières dove furono gettate le basi di
un'alleanza contro l'Austria. Il trattato ufficiale stabiliva che:
-
la Francia sarebbe intervenuta a fianco del Piemonte, solo se l'Austria
lo avesse aggredito;
- in
compenso dell'aiuto prestato dalla Francia il Piemonte avrebbe ceduto a
Napoleone III il Ducato di Savoia e la Contea di Nizza.
Appare
evidente che un simile trattato non teneva assolutamente conto delle
aspirazioni unitarie della maggior parte della popolazione italiana,
esso mirava unicamente ad eliminare il predominio austriaco dalla
penisola.
La II guerra d'indipendenza permise l'acquisizione della Lombardia, ma
l'estendersi del movimento democratico-nazionale suscitò nei francesi
il timore del crearsi uno Stato Italiano unitario troppo forte: venne
firmato così l'armistizio di Villafranca che provocò il temporaneo
congelamento dei moti e la decisione di Cavour di allontanarsi dalla
guida del governo.
Ritornato alla presidenza del Consiglio egli riuscì comunque ad
annettere al Regno di Sardegna l’Emilia, la Toscana e le Marche
cedendo alla Francia la Nizza e la Savoia.
Con Garibaldi e la Spedizione dei Mille venne conquistato anche il Regno
delle Due Sicilie; Garibaldi si diresse poi verso lo Stato Pontificio,
ma Napoleone III fece sapere che non avrebbe mai tollerato un attacco al
Papa. Successivamente il Re Vittorio Emanuele II partì allora per il
Centro-Italia per incontrare Garibaldi. Al loro incontro, Garibaldi
consegna al primo re d’Italia tutti i territori conquistati. Il 17
Marzo 1861, dopo una serie di plebisciti,
viene proclamato il Regno d’Italia.
Cavour
morì pochi mesi dopo, lasciando la sua pesante eredità alla Destra
Storica.
|
|
Giuseppe
Garibaldi
Ci
fu un periodo, dopo il 1860, in cui l’Italia si identificava con
Garibaldi. Egli nacque a Nizza nel 1807. Il genitori lo avrebbero voluto
sacerdote, ma il ragazzo mostrò una decisa avversione per gli studi,
irresistibilmente attratto, invece, dalla vita di mare. A sedici anni il
padre lo imbarcò come mozzo su una nave, dove imparò a sopportare
fatica e pericoli. Era aperto e socievole, faceva amicizia con tutti.
Nelle serate in mare, o in porti, si esibiva con successo come tenore.
Nel 1833 conobbe Giuseppe Mazzini e si iscrisse alla Giovine Italia,
impegnandosi a seguire la causa Repubblicana. Partecipò a varie
insurrezioni e venne condannato a morte. Per questo fuggì in America
Latina, dove organizzò un corpo di volontari: la
“legione italiana” che adottò come divisa la camicia rossa.
Combattendo per la libertà dell’Argentina e dell’Uruguai apprese le
tecniche della guerriglia e divenne un abilissimo comandante. Nel 1848,
essendo venuto a conoscenza della guerra del Piemonte contro
l’Austria, tornò in Italia, portando con sé Anita , la moglie
brasiliana. Egli offrì a Carlo Alberto la sua collaborazione, ma il re
la rifiutò, diffidando di lui. Partecipò comunque alla guerra contro
gli austriaci al servizio del governo provvisorio di Milano e combattè
in difesa della Repubblica Romana contro i francesi. Caduta Roma egli si
diresse verso Venezia che ancora resisteva agli austriaci, e durante il
viaggio, molto faticoso e difficoltoso, nelle paludi di Comacchio,
perdette la moglie Anita, che morì, senza la possibilità di essere
curata.
Deluso dall’esito della Prima Guerra d’Indipendenza andò nuovamente
in volontario esilio oltreoceano. Tornò allo scoppio della Seconda
Guerra d’Indipendenza nel 1859. Questa volta a Torino fu ufficialmente
incaricato di comandare un corpo di volontari: “i Cacciatori delle
Alpi”. In questo modo Cavour cercò di limitare l’autonomia di
Garibaldi dandogli un compito ben preciso per impedire le sue iniziative
personali.
Nel 1860 Garibaldi realizzò il suo sogno: la liberazione del Sud
dell’Italia dai Borbone. Il 5 maggio 1860 Garibaldi salpò da Genova
con due navi e milleottantanove camicie rosse. Si trattava per lo più
di giovanissimi (molti erano studenti fuggiti da casa) richiamati dal
fascino del condottiero. Il Governo piemontese intervenne in aiuto dei
volontari solo quando fu ormai chiaro che essi avrebbero vinto. Eppure
Garibaldi non esitò a consegnare a Vittorio Emanuele II “quell’ex
Regno Borbonico” di cui era ormai padrone. Il Parlamento piemontese
non riconobbe ai garibaldini neppure la pensione.
Nel 1862 tentò di liberare Roma dal Papa, ma i piemontesi lo fermarono
ferendolo sull’Aspromonte. Nel 1867 i francesi lo fermarono alle porte
di Roma. Partecipò alla Terza Guerra d’Indipendenza.
A sessantatre anni, soffrendo molto per i reumatismi, decise di
ritirarsi a Caprera, dove terminò di scrivere le sue memorie.
Morì nel 1882.
|
|
Mafia
e brigantaggio
La
speranza dell’unificazione d’Italia faceva credere ai contadini, in
particolare al Sud, ad una liberazione dai latifondisti e un avvio verso
una ridistribuzione delle terre.
Alcuni contadini, così, si allearono con Garibaldi in bande
armate. Dopo il 1961 ci fu però una
delusione: l’abolizione delle dogane con l’arrivo di molte merci
settentrionali a basso costo fecero si che nel Meridione si indebolisse
il mercato interno e di conseguenza avvenne una crisi
dell’artigianato e una mancanza di lavoro generando un impoverimento
generale.
I proprietari terrieri ne trassero,
invece, vantaggio. Essi infatti riuscirono a vendere grandi derrate
alimentari al Nord, ricevendo in cambio merci di lusso, quale
è lo zucchero.
La monarchia appoggiò i latifondisti contro le ribellioni
contadine, che occuparono anche i
villaggi. Le insurrezioni contadine erano state generate, oltre che
dall’impoverimento generale, in particolare dall’istituzione del servizio
di leva obbligatorio di tre anni, che
toglieva braccia utili al lavoro nei campi. Per far fronte alle rivolte
contadine, si procedette con l’occupazione militare dell’Italia
Meridionale da parte di centomila soldati.
Col brigantaggio (le rivolte contadine furono così denominate perché
spesso si rubava e si disertava il servizio di leva) e contro il re,
stavano il Papa e Francesco II di Borbone, i quali finanziavano i
briganti per tornare al potere.
A vincere la battaglia fu poi lo Stato. Ma la vittoria portò numeri
impressionanti:
- 5212 i briganti uccisi;
-
5044 i briganti arrestati;
- 2000
i briganti condannati;
Infine
il numero complessivo dei
morti in questa repressione è uguale al totale delle vittime delle Tre
Guerre d’Indipendenza.
La
confusione e il momento di instabilità che si erano creati fecero si
che si formassero organizzazioni esterne allo Stato: vi era la “mafia”
a protezione dei latifondisti, la “camorra”
e l’“andrangheta” che
corrompevano gli uomini politici.
Tutte queste organizzazioni fuorilegge ricorrevano spesso alla minaccia
armata.
|
|
Museo
del Risorgimento
Piazza
Carducci - Bologna - 8/11/2002
L’otto
novembre scorso, noi, della classe III A di San Cesario s./P., ci siamo
recati al Museo del Risorgimento di Bologna. Esso vuole
raccontare la storia della città nel periodo rinascimentale.
L’edificio
è sorto nel 1893, con una struttura ben diversa, e con poca
disponibilità di oggetti. Alla fine dell’Ottocento il museo trattava
di movimenti eroici, guerre importanti, eroi, protagonisti del periodo,
con l’intento di sensibilizzare le persone verso la patria; oggi
espone raccolte del periodo napoleonico e di quello risorgimentale
documentandone le idee e le riforme fatte all’epoca.
ANNI OTTANTA
- Aspetti
positivi: negli anni Ottanta avviene l’annessione al Regno di
Sardegna e con essa una serie di cambiamenti radicali e rivolti
al progresso. Le foto del museo mostrano l’introduzione dei
servizi pubblici e delle fogne, dell’acquedotto cittadino che porta
l’acqua alla fontana in Piazza Maggiore, dell’energia elettrica, con
i primi lampioni, della costruzione della ferrovia
Firenze - Piacenza, della costruzione di strade, e di monumenti e feste
popolari. Per raffigurare l’annessione al Regno di Sardegna, vengono
dipinti quadri famosi, come quelli raffiguranti Garibaldi e Vittorio
Emanuele II uniti dalle idee di nazione e unità oppure di una donna (
l’unità ) che scaccia il diavolo ( la Chiesa e la negatività ).
Anche per sottolineare la divisione fra lo Stato e la Chiesa Cattolica
non si perde tempo e si disegnano “vignette” e quadri.
- Aspetti
negativi: Bologna e Provincia erano deboli e arretrati.
L’agricoltura e le tecniche agricole erano vecchie e rendevano poco;
la classe imprenditoriale era poco disposta a rischiare, facendo mancare
i soldi per un potenziamento industriale e agricolo; l’allevamento si
teneva in piedi ma l’industria tessile era in crisi, a causa
dei prodotti stranieri che, meno cari, venivano importati; la differenza
dal Piemonte e da Torino era molto evidente perché i nostri territori
erano stati possedimenti della Chiesa, chiusa e conservatrice.
FINE ANNI
OTTANTA
Per
fortuna alla fine degli anni Ottanta imprenditori stranieri ( non della
città di Bologna ) cominciarono ad investire nei settori
economici locali; si creano le scuole professionali fondate da
Aldini e Valeriani, che istruiscono piccoli artigiani, i quali
diventeranno imprenditori industriali, nel settore della meccanica, istruiti;
prende uno slancio l’industria alimentare con gli insaccati; c’è
una forte industrializzazione, la gente va anche a lavorare nelle
cave per l’estrazione della ghiaia e viene distribuita in modo più
ampio, rispetto agli anni precedenti, l’energia elettrica.
Dalla fine degli anni Sessanta si sono fatti molti passi avanti
riguardo all’analfabetismo: in quel periodo il 76 % dei bolognesi
era analfabeta. Negli anni Ottanta e alla loro fine, nacquero le Università
Popolari che, assieme alle Società di Mutuo e Soccorso, miravano
a combattere i problemi come la prostituzione, l’alcolismo, dando
lezioni anche per migliorare la cultura della gente. Nonostante tutto, a
differenza delle Società di Mutuo e Soccorso, le Università Popolari
non fecero molta strada, in quanto parlavano alle persone in modo troppo
colto.
In
questo periodo vengono pure costruite grandi strade come via
Indipendenza, Via Ugo Bassi, Via Rizzoli, che comportarono il sacrificio
di antichi quartieri medioevali e di giardini. E’ rilevante anche
l’arricchimento in quanto ai monumenti, con raffigurazioni di
Parlamentari o uomini simbolo della Restaurazione.
Il clima di prosperità si svolgeva anche tra le feste popolari, dove ci
si divertiva e si discuteva.
Tutta
questa innovazione, a cui modello fu posta la città capitale del Regno,
Torino, era per il progresso e per dare ai “primi turisti”
l’immagine di una città al passo con i tempi.
|
|
La
vita di un soldato in trincea
In
sostanza, le trincee erano fossi scavati nel terreno per mettere i
soldati al riparo dal fuoco nemico. Intese inizialmente come rifugi
provvisori, divennero i quartieri permanenti dei reparti di prima linea,
così vennero attrezzate con baracche di legno e difese dal filo
spinato. Erano numerosissime e parallele, distribuite su tutto il campo
di guerra e collegate fra loro da camminamenti. Fra le trincee di un
esercito e quelle dell’avversario vi potevano essere anche solo
qualche metro di distanza, tanto che qualsiasi persona poteva sentire le
voci dei propri nemici.
Gli uomini nelle prime linee avevano il terrore che venisse lanciato
l’ordine dell’ “attacco alla baionetta”, nel quale un esercito
scalava la propria trincea e si gettava sul nemico cercando di superare
filo spinato e mitragliatrici; chi superava le barriere di difesa,
doveva ingaggiare una lotta corpo a corpo e anche i superstiti venivano
quindi, prima o poi, uccisi senza via di scampo.
La vita in trincea non era per niente facile: i soldati vivevano in
condizioni prive di igiene, senza mai cambiarsi né lavarsi per
settimane; si diffondevano malattie mortali, si veniva trattati male
dagli ufficiali e il tempo non passava mai. Spesso i superiori vivevano
ben lontani dal fronte, si facevano i complimenti e si scambiavano
medaglie a vicenda, e quando una persona non combatteva o sbagliava
anche una minima regola, essi lo riconoscevano come vigliacco. Le regole
che venivano imposte erano la posizione eretta e la testa alta quando si
attaccava, poi petto al nemico, passo di corsa e “viso fieramente al
vento”. Pure il rancio era, secondo Cadorna,
basilare in guerra: ogni soldato doveva cucinarsi il rancio da sé,
per rafforzare il morale e lo spirito di gruppo; purtroppo andare a
raccogliere la legna ed accendere un fuoco equivaleva ad un suicidio.
Solo il Kaiser sperimentò cucine da campo mobili su carretti con
addetti esclusivamente alla distribuzione del cibo.
I soldati n guerra erano spesso colpiti da shock che gli impedivano di
reagire agli ordini: in questo caso vi era la fucilazione.
Le automutilazione erano spesso utilizzate per avere il permesso di
tornare a casa e lasciare il fronte, ma nel caso in cui venissero
scoperte, anche qui veniva orinata la fucilazione. Cadorna, per
prevenire casi di ammutinamento, ricorreva alla decimazione, uccidendo
un uomo su dieci dei suoi.
I piccoli ufficiali si lamentavano invece delle strutture insufficienti
e inefficienti, e del cibo immangiabile. Queste persone furono chiamate
“disfattisti” e la loro sorte era la morte certa dopo un veloce e
sommario processo.
Chi si arrendeva al nemico (diserzione) veniva fatto prigioniero e
portato in campi di concentramento.
|
|
Intervista a
Fernanda
Rossi Bortolotti
Fernanda
Rossi, nata a Monteveglio in provincia di Bologna il 13 settembre del
1925, ha per molti anni vissuto a Ponte Rosso, vicino alla California,
dove la sua famiglia lavorava un fondo che arrivava sino a
S. Cesario, e ha anche partecipato alla lotta partigiana durante
la Seconda Guerra Mondiale.
Tutto
è cominciato la notte dal 13 al 14 giugno 1944, in cui avvenne
l’assassinio dei fratelli Artioli, famiglia di Ponterosso che viveva
molto vicino alla casa di Fernanda. Alla casa della famiglia Artioli
bussano alla porta: è Zamboni, vecchia conoscenza della famiglia, con
un grande gruppo di squadracce fasciste alle spalle. Zamboni si era
infatti già presentato qualche giorno prima davanti agli Artioli
assieme ad un suo compare, tutti e due in borghese e in veste di
sfollati, domandando dove fosse l’osteria California. Quella volta la
famiglia li aiutò, dando loro da mangiare e da riposarsi e forse, la
madre, avrebbe fatto intendere ai due presunti viandanti di aiutare i
partigiani. I due uomini avevano però teso loro uno spaventoso
tranello, perché cercavano proprio uno dei capi partigiani della zona
di Piumazzo: Arnaldo Galletti, oste del locale della California. E così
ora erano tornati, per farsi condurre da Galletti. Alla porta arrivano
il padre e i due figli: Artioli Ermes (diciotto anni) e Artioli Giuseppe
(sedici anni). Subito i fascisti cominciarono a picchiare il padre e a
mettere sottosopra la casa poi dettero ordine a Giuseppe di
accompagnarli alla bottega di Galletti e di chiamarlo. Arnaldo, intuendo
che qualcosa non andava, se ne andò dal retrobottega e poco dopo, non
avendo trovato chi cercavano, i fascisti si scatenarono su Giuseppe,
colpendolo con bottiglie e poi
sparandogli sul greto della strada, facendolo cadere nel fosso. A quel
punto gli assassini tornarono alla casa, cominciarono a torturare Ermes
e a raschiargli le sopracciglie e i baffetti. Poi lo fecero uscire e lo
investirono con una raffica, facendolo stramazzare al suolo.
Questo fatto, assieme alla morte del padre che unitosi ai partigiani morì
durante una battaglia all’età di quarantaquattro anni, portò
Fernanda Rossi all’entrata nei gruppi partigiani.
Il ruolo che
rivestiva era la STAFFETTA. Portava dei bigliettini segreti da base a
base partigiana, mantenendo tutti i contatti fra le postazioni in zona.
Più precisamente, lei portava informazioni nei territori di Piumazzo,
S. Cesario, Spilamberto, Castelvetro e Puianello, cambiando rifugio in
continuazione. Una staffetta partigiana (che poteva essere anche un
uomo) doveva essere sempre ben vestita, ma non avere mai addosso dei
calzoni, che identificavano una persona come partigiana. Inoltre non
bisognava mai mettersi in mostra e si doveva saper scherzare con i
soldati. Comunque, Fernanda non si è mai trovata in vera difficoltà
nei suoi percorsi ed è sempre stata fortunata, tranne una volta:
Era a Castelvetro, a sera inoltrata, davanti alla Chiesa quando le
campane del campanile cominciarono a suonare per segnalare l’ora del
coprifuoco, dopo la quale chiunque fosse trovato a zonzo per le strade
veniva subito ammanettato e portato in prigione oppure anche fucilato
direttamente sul posto. Aveva pressappoco diciotto anni e immaginatevi
in quale stato d’animo fosse, all’idea di essere presa, scoperta…
Allora pensò bene di andare a chiedere rifugio a casa di parenti che
abitavano in paese, ma appena bussato alla loro porta si sentì
rifiutare il favore, siccome era un periodo in cui non ci si poteva
fidare di nessuno e se per caso dei tedeschi o dei fascisti andavano a
perquisire la casa, poteva essere ammazzata tutta la famiglia che vi
alloggiava. Così si fece cinque o sei chilometri a piedi con la paura
che qualcuno la vedesse, nel buio della notte, dirigendosi verso una
stalla in cui si sapeva ci fosse una base partigiana e dove avrebbe
potuto passare la notte senza pericolo. Vi arrivò sana e salva ma lo
spavento fu enorme.
Poi,
alla fine del dicembre del 1944, avvenne il rastrellamento. I tedeschi
infatti si misero sulle tracce dei due massimi esponenti della
resistenza nel territorio: Neri Bruno e Calidori Maggio. Subito essi si
recarono all’abitazione di Maggio (il comandante), alle case operaie
di Piumazzo, ma non lo trovarono. Allora presero in ostaggio le sorelle
Calidori, che comunque riuscirono a cavarsela. Non avendo trovato in
casa Calidori, i tedeschi riuscirono a catturare Neri Bruno.
La notte fra il 29 e il 30 dicembre arrivarono alla casa di Fernanda le
SD, reparti dell’esercito tedesco particolarmente spietati e violenti
(ancor di più delle SS), con dei camion e una camionetta, accusandola
di essere una partigiana. Fernanda si dovette arrendere, quando vide il
volto di Neri rovinato e sconvolto dalle torture.
“Guardami”. Ha sussurrò Bruno. Poi tutti e due vennero caricati su
uno degli automezzi, che raccolse anche altri partigiani (fra i quali
Angelo Carini, minuto e con una gobba sulla schiena ma forte di
carattere, detto Angiolino; Giovanni Turrini; Aldo Sola; Erminio
Chiappelli) durante la notte, fra cui anche molte staffette. Bruno Neri
aveva parlato e aveva detto tutto ai tedeschi, che stavano letteralmente
distruggendo la Resistenza di Piumazzo. E pare anche che egli avesse
fatto il nome in particolare delle staffette, ritenendo quindi poco
importante il loro ruolo all’interno dell’organizzazione partigiana.
Le SD portarono i partigiani nel carcere di San Giovanni in Persicelo,
dove rimasero fino al 6 di gennaio. Poi tutti vennero trasferiti nella
prigione di San Giovanni Monte (gestita anche da delle suore), a Bologna
dov’era il comando tedesco, la notte dell’Epifania, in cui c’era
un freddo polare con una camionetta scoperta che si faceva spazio tra la
neve.
I muri degli stanzoni del carcere bolognese, situato su di una piccola
collinetta, presentavano crepe, derivate dai bombardamenti, nelle quali
si riusciva a far passare un’intera mano.
I giorni passavano lenti e dentro si cercava di cavarsela. Don Fagioli,
il prete, invece di dare Messa e fare la predica, informava i
prigionieri di tutto ciò che stesse accadendo all’esterno. Intanto
Fernanda si dava da fare, essendo diventata un po’ l’
“elettricista” del penitenziario. Infatti a Ponterosso, a casa sua,
erano una di quelle poche e fortunate famiglie a possedere l’energia
elettrica. La sua famiglia la prendeva dal palazzo del padrone, pochi
metri più in là, e lei aveva imparato a destreggiarsi fra i cavi e
contatti quel poco che bastava per fare saltare la luce e riaccenderla.
Spesso venivano rinchiuse nella sua cella delle prostitute che
riuscivano a portarsi appresso delle sigarette perché se le tenevano
nel reggiseno, allora lei riusciva a farsene dare qualcuna e a provocare
dei contatti fra i fili elettrici facendo andar via la luce, per poi
andarsene a fare un giro perché la chiamavano per aggiustare
l’impianto al primo piano.
A
Bologna, Fernanda ebbe pure la possibilità di scappare dal carcere. Andò
così:
Un giorno una suora, Suora Oliva, si presentò davanti alle sbarre della
sua cella chiedendo se la poteva aiutare a portare dentro al carcere una
damigiana di vino che si trovava fuori dal cancello. Ma facendo alla
suora una promessa: non scappare, altrimenti o avrebbero ucciso sia la
suora che lei o lei non sarebbero riuscita a riacciuffarla ma la suora
in tutti i modi sarebbe stata presa. Fernanda, dopo averci pensato a
lungo per qualche minuto, promise di non scappare appena uscita dal
cancello. Allora venne aperta la sua cella e tutte e due si
incamminarono verso l’uscita. Oltrepassati i cancelli chissà quali
ripensamenti deve aver avuto, con la strada libera di fronte a sé…
Tuttavia mantenne la promessa, sollevò la damigiana con le mani e
rientrò all’interno della struttura.
Si rimase nelle celle fino a pochi giorni dalla Liberazione. Le forze
tedesche, ormai allo stremo, presero gli uomini catturati e li portarono
verso la tremenda sorte delle fosse di San Ruffillo oppure a Sabbiuno,
dove in un calanco furono trovati dei cadaveri sotto una coltre di neve
alta un metro. Le prigioniere donne, invece, non furono ammazzate, come
sancito dalla conferenza di Ginevra. Fernanda torna a casa con la zia
che, dopo essere stata a San Ruffillo al comando generale della Gestapo
per avere il permesso che la nipote potesse essere rilasciata, la andò
a prendere direttamente a San Giovanni Monte. A venire a casa con loro
da Casalecchio c’era anche Onelia che cercava il padre, Aldo Sola,
trovato poi morto a S. Ruffillo.
Subito
dopo la fine della guerra, nel 1946, giunsero alla stazione Castelfranco
Emilia dei bambini romani (il primo anno) e napoletani (il secondo
anno). Ad essi numerose famiglie diedero ospitalità e Fernanda anche
gli accompagnò a casa, osservando la grande povertà delle loro città,
quale è Roma, dove i loro parenti mica controllavano la salute dei
figli, controllavano le valigie.
Con
la guerra, seppure in un periodo oscuro e amaro, le donne hanno
dimostrato che sono alla pari degli uomini, che se la sanno cavare e
sono capaci di fare la parte maschile, avendo dovuto anche fare
quelle mansioni quotidiane solitamente giudicate dell’altro sesso.
Inoltre gli uomini erano entrati nella lotta partigiana perché vi erano
costretti, piuttosto che andare al fronte oppure venire uccisi dai
nazifascisti che andavano di casa in casa, mentre le donne non erano
obbligate, erano volontarie.
|
|
Spettacolo
teatrale “San Martino sotto le bombe”
Due
bravissimi attori, un uomo e una donna, hanno dato vita ad uno
spettacolo teatrale che rievoca fatti e avvenimenti avvenuti durante la
Seconda Guerra Mondiale, importanti, tragici ma non da dimenticare,
validi nel presente come nel futuro.
Dopo un mese di ricerche negli archivi storici della zona, dopo un mese
di stesura del copione e dopo un altro mese per le prove, i due hanno
riunito faccende accadute in Emilia e le hanno concentrate
simbolicamente in un paese, di loro invenzione, fra le montagne,
denominato San Martino di Sotto.
Tutto
comincia l’otto settembre e a San Martino di Sotto, fra le montagne,
incombe la vera guerra. Il disordine diplomatico fra la gente fa
precipitare il paese nel caos. A pochi chilometri più a sud viene
costruita dai tedeschi la linea gotica e i bombardamenti diventano
episodi quotidiani. Pippo, il bombardiere americano, sgancia le bombe
sui piccoli paesini montani. A S. Martino tutti scappano e corrono in
casa a cercar rifugio e quando si ritorna allo scoperto balzano agli
occhi solo macerie e polvere. E morte.
Faticano ad arrivare i rifornimenti di alimentari e quel poco da
mangiare che si dovrebbe ricevere (fa fede qualsiasi tessera annonaria)
viene negato da quei rari negozianti rimasti: “Non c’è più niente!
E’ finito tutto!”
Ma si dice che il fronte tedesco stia cedendo e poi ci sono i
partigiani… i partigiani! Venivano ogni tanto al paesino, avevano
combattuto i tedeschi, sabotato macchinari, fatto saltare ponti, e
venivano a chiedere da mangiare, ma, si sa, di mangiare nessuno ne aveva
tanto.
Però i tedeschi li si stava cominciando a cacciar via. E un bel giorno,
dopo tanti e tanti di attesa incollati alle radio clandestine, delle
nuove persone arrivano nelle piazze, verso Natale. Gli americani!
Finalmente sono arrivati!
E in
quei giorni nessuno riportò alla mente i morti sotto le macerie degli
edifici bombardati dagli americani; tutti erano impegnati nei
festeggiamenti natalizi e per la festa di capodanno ormai alle porte:
c’era chi cuciva, chi preparava festoni, chi organizzava… Inoltre
gli stranieri avevano portato straordinarie invenzioni, quali potevano
essere i masticoni e i cibi liofilizzati.
Nella tenda allestita in piazza si ballò tutta la notte del trentuno, e
ai bambini un uomo in rosso distribuì regali. Nascevano anche nuove
amicizie e già fioccavano le promesse di matrimonio fra i soldati e le
ragazze del paese.
Insomma, gli americani avevano portato novità e felicità, e per
fortuna che erano arrivati.
Poi la guerra finì completamente e loro se ne tornarono da dove erano
venuti, alcuni anche portandosi dietro la nuova fidanzata.
A San
Martino di Sotto cominciò la rinascita. Il primo passo fu
l’istituzione della scuola, arrangiata come si poteva: all’aperto e
con pochissimi oggetti o strumenti di lavoro.
Tutto
lo spettacolo è documentato con interessanti fotografie dell’epoca, e
le azioni e le sensazioni sul palco vengono mostrate e trasmesse agli
spettatori con le armi della bravura, qualche sedia e qualche luce.
|
|
Il
Grande Dittatore
Regia
di Charlie Chaplin
Durante
la prima Guerra Mondiale, un combattente salva la vita ad un ufficiale
chiamato Schulz. L’aereo dove si trovano si schianta e il piccolo
soldato viene ricoverato in un ospedale dove rimarrà vent’anni,
all’oscuro dei cambiamenti avvenuti nel mondo. Hynkel diventa
dittatore di Tomania, perseguitando gli ebrei.
Dimesso, il soldato è colpito da amnesia e ritorna nella sua bottega di
barbiere nel ghetto dove incontra Hanah, della quale si innamora. Nel
frattempo Schulz ordina alle sue truppe di lasciare in pace il barbiere
che vent’anni prima gli aveva salvato la vita.
Si vive un po’ la storia del barbiere e del dittatore, Hynkel, che
vuole a tutti i costi il mondo ai suoi piedi.
Di questo film è da ricordare il discorso finale del barbiere:
Il
barbiere: Speranza… Sono desolato, ma non voglio essere imperatore,
non mi interessa. Non voglio né conquistare né dirigere nessuno. Nella
misura del possibile voglio aiutare tutti, ebrei, cristiani, pagani,
bianchi e neri .Noi tutti vogliamo aiutarci vicendevolmente. Gli esseri
umani sono fatti così. Vogliamo vivere della reciproca felicità. Non
vogliamo odiarci e disprezzarci. Al mondo c'è posto per tutti. E la
buona terra è ricca e in grado di provvedere a tutti. La vita può
essere libera e bella, ma noi abbiamo smarrito la strada: la cupidigia
ha avvelenato l 'animo degli uomini, ha chiuso il mondo dietro una
variegata di odio, ci ha fatto marciare, con il passo dell'oca, verso
l'infelicità e lo spargimento di sangue.
Abbiamo aumentato la velocità,
ma ci siamo chiusi dentro. Le macchine che danno l'abbondanza ci hanno
lasciati nel bisogno. La nostra sapienza ci ha resi civici;
l'intelligenza duri e spietati. Pensiamo troppo e sentiamo troppo poco.
Più che di macchine abbiamo bisogno di umanità. Più che di
intelligenza abbiamo bisogno di dolcezza e di bontà. Senza queste doti
la vita sarà violenta e tutto andrà perduto.
L'aereo e la radio ci hanno avvicinati. E' l'intima natura di queste
cose a invocare la bontà dell'uomo, a invocare la fratellanza
universale, l'unità di tutti noi. Anche ora la mia voce raggiunge
milioni di persone in ogni parte del mondo, milioni di uomini, donne e
bambini disperati, vittime di un sistema che costringe l'uomo a
torturare e imprigionare gli innocenti.
A quanti possono udirmi io dico: non disperate.
L'infelicità che ci ha colpito non è che un effetto
dell'ingordigia umana: l'amarezza di coloro che temono la via del
progresso umano. L'odio degli uomini passerà, i dittatori moriranno e
il potere che hanno strappato al mondo ritornerà al popolo. E finché
gli uomini non saranno morti la libertà non perirà mai. Soldati! Non
consegnativi a questi bruti, che vi disprezzano, che vi riducono in
schiavitù, che irreggimentano la vostra vita, vi dicono quello che
dovete fare, quello che dovete pensare e sentire! Che vi istruiscono, vi
tengono a dieta, vi trattano come bestie e si servono di voi come carne
da cannone.
Non datevi a questi uomini inumani: uomini-macchine con una macchina al
posto del cervello e una al posto del cuore!
Voi non siete delle macchine!
Non siete degli schiavi!
Siete degli uomini! Con in cuore l'amore per l'umanità!
Non odiate! Odiate solo ciò che è inumano, ciò che non è fatto
d'amore.
Soldati! Non combattete per la schiavitù, battetevi per la libertà!
[…]
Voi, il popolo, voi che avete il potere, il potere di creare le
macchine, il potere di creare la felicità. Voi, il popolo, voi che
avete il potere , il potere di rendere questa vita libera e bella, di
rendere questa vita una magnifica avventura.
E allora, in nome della Democrazia, usiamo questo potere, uniamoci
tutti. Battiamoci per un mondo nuovo, un mondo buono, che dia agli
uomini la possibilità di lavorare, che dia alla gioventù il futuro e
alla vecchiaia una sicurezza.
Promettendo queste cose i bruti sono saliti al potere. Ma essi mentono!
Non mantengono questa meravigliosa promessa. Né lo faranno mai! I
dittatori liberano se stessi ma riducono il potere in schiavitù.
Allora, battiamoci per realizzare le loro promesse, battiamoci per
liberare il mondo, per abbattere le barriere nazionali e quelle della
razza, per eliminare l'ingordigia, l'odio e l'intolleranza.
Battiamoci per un mondi ragionevole, un mondo in cui la scienza e il
progresso conducano alla felicità di tutti. Soldati uniamoci in nome
della Democrazia!
[…]
|
|
Il
Nepal
SCHEDA
DEL PAESE
Superficie:
145.391 chilometri
quadrati.
Terreno: Prevalentemente montuoso.
coltivato 14 %
pascolo 13%
foresta 32%
Popolazione: 16.500.000 circa (la metà
sotto i 21 anni).
Governo: Monarchia
Capitale: Kathmandu (popolazione300.000
ab., zona metropolitana
800.000).
Popoli: Gruppi tribali,
tra cui Gurung, Limbu, Magar,
Newari, Rai, Sherpa, Tamang,
Taru, e diverse tribù minori.
Numerosi indiani e tibetani vivono stabilmente nel Paese.
Lingue: Nepali 58% (lingua
ufficiale), Newari 3% (specialmente
a Kathmandu), lingue indiane
20% (spec. nel Terai), oltre a
numerose altre lingue e
dialetti meno importanti.
Religione: 90% Induista,
8%
Buddista,
2%
Islamica (dati ufficiali).
Località più elevata: Monte Everest,
chiamato anche Sagarmatha (8.848
m.); il punto più alto della Terra.
IL
TERRITORIO
Più
di un quarto dell'area del Nepal si eleva oltre i 3.000 metri. Vi si
trovano ben otto
cime oltre gli 8000 METRI: l'Everest,
il Kanchenjunga, il Lhotse,
il Makalu, il Cho
Oyu, il
Dhaulagiri, il Manaslu,
e l'Annapurna. Numerosi fiumi
che scorrono in profonde gole tagliano la catena montuosa, per
poi precipitare nelle valli più basse. A novanta chilometri a sud della
grande catena, i monti del Mahabharat Lekh raggiungono altezze comprese
tra i 1.500 e i 2.100 metri. Ampie valli dal clima tropicale si trovano
letteralmente incastrate nel complicato profilo della catena, attraverso
la quale scorrono soltanto tre fiumi.
Immediatamente più a sud sorgono le colline Siwalik, che si staccano
improvvisamente dalla piana del Terai per raggiungere altezze comprese
tra i 750 e i 1.500 metri. Il terreno secco e brullo consente a malapena
la sopravvivenza alla scarsa popolazione che vi si è insediata.
Nel nord-ovest del paese
una catena transhimalayana segna il confine tra il
Nepal e il Tibet. A trentacinque chilometri a nord del rilievo
principale sorgono cime
tra i 6.000 e i 7.000 metri, fortemente erose dal vento e caratterizzate
da un profilo
meno aspro.
A sud si trova il Terai,
l'estensione nepalese della vasta pianura del Gange; dal confine
meridionale questa regione pianeggiante si estende in larghezza tra i 25
e i 40 chilometri ed è in netto contrasto con l'aspro rilievo del resto
del paese.
Fino a poco tempo fa
questa regione era una giungla impenetrabile infestata dalla
malaria, mentre oggi è diventata la zona più
popolata del Nepal. La maggior parte
delle industrie è concentrata nel Terai, mentre le pianure
costituiscono il terreno ideale per la coltivazione del riso e di
altri cereali.
Nel Terai l'estate è calda, con temperature che spesso possono superare
anche i 38°C.
e l'inverno notevolmente freddo, con temperature che scendono fino a 10°C..
Le
piogge, più copiose a est, arrivano principalmente nella stagione dei monsoni
che va
da giugno a settembre.
La capitale del Nepal, Kathmandu, è
una città di circa 300.000 abitanti, allo stesso tempo
medievale e moderna.
Essa gode di un clima mite nonostante si trovi a 1331 metti sul livello
del mare. D'estate la temperatura massima è di circa 30°C. e in
inverno la temperatura media si aggira intorno ai 10°C..
L'inverno è talvolta molto rigido, ma secco e senza nevicate, mentre
durante la
stagione estiva dei monsoni piove abbondantemente.
Questo clima mite consente, inoltre, di ottenere tre raccolti all'anno
intervallati da piccole
semine. A nord di Kathmandu, sulle montagne, i temporali sono frequenti
e le gelate invernali
limitano l'agricoltura, tuttavia le
patate vengono coltivate fino a 4.000 metri, e l'orzo
anche a quote più elevate.Negli altopiani al di sopra dei 4.000 metri
si ha un clima alpino. L'estate è breve, l'inverno rigido e secco, con
abbondanti nevicate e forti venti.
CENNI
STORICI
Le
origini del Nepal sono avvolte nella leggenda: la valle principale del
Nepal sarebbe stata in antico un grande lago, in cui il grande dio
Vishnu avrebbe aperto un varco con la spada. Nell'VIII-VII secolo a.C.
la tribù dei
Kirhati, costituita da guerrieri e commercianti di origine
mongola, fondò un potente regno. La leggenda tramanda che il potente re
Yalambar abbia
addirittura partecipato alla famosa battaglia del "Mahabharata",
durante la quale morì. Sembra inoltre che nel VI secolo a.C.,
nell'attuale villaggio di Lumbini, fosse nato il Buddha. L'apogeo del
buddhismo si ebbe nel III secolo a.C., al tempo del sovrano indiano Ashoka.
Verso il 200 a.C. Kirhati vennero cacciati dai Licchavi,
provenienti dall'India settentrionale.
Assai
vaghe anche le notizie di questo periodo. Reperti scoperti nelle città
che costituirono le capitali dei successivi principati nepalesi e
notizie confermate nei racconti dei pellegrini buddisti cinesi accennano
alle dinastie dei Licchavi e dei Malla.
Durante il regno di Amshuvarma,
il Nepal raggiunse un periodo di grande floridezza, mantenendo la
propria indipendenza dall'India e dal Tibet, con cui allacciò intensi
scambi economici e culturali. Questo sovrano, infatti, sposato con una
principessa cinese, combinò il matrimonio tra sua sorella e un principe
indiano e fece sposare la figlia con il potente re del Tibet Songtsen
Gampo. La potenza dei Licchavi declinò nel IX secolo. Dopo tre
secoli di periodo oscuro, nel 1200 i Malla,
popolo audace e guerriero, dominarono dall'XI al XIV secolo tutte le
vaste terre desertiche a nord dell'Himalaya. Controllando perfino le
strade dei pellegrin, sfruttando i ricchi giacimenti d'oro di Tok-Gialug;
i Malla ebbero il monopolio assoluto dei
traffici intercorrenti tra India
e Tibet. Veri indù, benché adorassero Shiva, tolleravano i
seguaci del buddhismo. Alla morte dell'ultimo re Malla, Yaksha
(1428-1482), il regno venne diviso tra i figli, che diedero vita a
diversi principati, che sopravvissero e prosperarono per tre secoli.
Nel
1810 scoppiò la
guerra tra nepalesi e inglesi. In seguito al
"Trattato di amicizia" del 1816, il Nepal perse tutti i
territori ad est e ad ovest dei confini attuali, compresa la maggior
parte del Terai, mentre gli inglesi
ottennero anche il diritto di sistemare un proprio residente a Kathmandu.
In seguito, i rapporti tra Nepal e Gran Bretagna furono piuttosto buoni:
la politica di Londra mirò ad instaurare una collaborazione
con il governo nepalese per assicurarsi il confine himalayano e
garantirsi un appoggio contro eventuali moti indiani. Il governo
nepalese fornì truppe ai britannici nelle guerre afghane e birmane e
nella repressione contro la rivolta indiana del 1857; il reclutamento di
guerrieri ghurka
come reparti scelti a carattere mercenario divenne normale per le
milizie inglesi. La figura che contribuì di più ad instaurare la
collaborazione con gli inglesi fu Jung
Bahadur, primo ministro dal 1846 al 1877. Superando turbinosi
intrighi di palazzo, riuscì ad ottenere la restituzione delle terre
cedute dal Nepal nel 1816. A lui si deve l'instaurazione di un
particolare regime di amministrazione, in vigore fino al 1951: per esso,
le funzioni di governo erano monopolizzate ereditariamente dalla
famiglia Rana,
di cui Jung Bahadur era fondatore. Il membro più anziano della stirpe
ricopriva automaticamente la carica di primo ministro, avendo in
appannaggio larghi feudi, vari privilegi per sé e per gli altri membri
della famiglia, oltre al titolo di maharaja. Il
potere politico ed economico perciò era nelle mani dei Rana,
mentre la figura del sovrano era puramente rappresentativa. L'equilibrio
che manteneva i Rana al potere venne rotto nel 1947, con l'indipendenza
dell'India e la sostituzione dell'influenza indiana al protettorato
britannico. Venne avviato quindi un processo di trasformazione della
vita politica del paese che privò i Rana del potere e ripristinò la
figura del re, gettando alcune basi per una democratizzazione dall'alto
e per una modernizzazione dell'economia. Nel 1963 venne promulgata una Costituzione
che instaurava la democrazia parlamentare; ciò nonostante, negli ultimi
trent'anni vennero più volte promulgate leggi di emergenza, ordinato il
bando dei partiti politici, organizzate serie repressioni. Solo nel 1991,
a seguito di imponenti manifestazioni e tentativi svariati di riscrivere
la Costituzione, si sono tenute le prime elezioni pluripartitiche, dopo
più di tre decenni, vinte con esigua maggioranza dal Partito del
Congresso del Nepal.
LE
RELIGIONI
Induismo
e Buddismo sono le maggiori religioni
presenti in Nepal. Spesso è
difficile distinguere i due culti, e il risultato è una proliferazione
di fedi, divinità, e celebrazioni, con
caratteristiche non riscontrabili in
nessun'altra parte della Terra. La tolleranza
religiosa è essenziale per la convivenza di un numero così
grande di culti diversi. Una persona, diventando seguace di Buddha non
cessa di essere induista. Le divinità che formano la Trinità induista,
e cioè Brahma, Shiva, e Vishnu, vengono considerate dai buddisti avatar
del Buddha Primordiale e occupano importanti posizioni nella
cosmogonia buddista. Allo stesso modo, gli induisti considerano il
Gautama Buddha un'incarnazione di Vishnu. I leader politici della Valle
di Kathmandu sono sempre stati induisti, ma non si sono mai opposti allo
sviluppo di altre fedi religiose. I nepalesi sono molto devoti nei
confronti di Vishnu, ma è Shiva "il distruttore" l'oggetto
delle maggiori attenzioni. Quelli che adorano Shiva non lo fanno per
amore della distruzione, ma perché l'uomo deve accettare che ci sarà
un fine a tutto e che da quella fine avrà origine un nuovo inizio. La
giornata del nepalese trascorre regolata dalle funzioni religiose e
dalle cerimonie istituite in onore delle molteplici divinità. La festa
più popolare è il Durga-puja, che dura dieci giorni durante i quali
centinaia di bufali vengono decapitati in onore della dea Durga. I riti
religiosi spesso sono accompagnati da danze: le maschere che coprono il
volto dei danzatori si ispirano all'arte tibetana per i buddhisti, a
quella nepalese per gli induisti.
Shiva
è una divinità multipla. E' distruttore e Creatore, e allo stesso
tempo la fine e l'inizio di tutte le cose. Nelle sue manifestazioni
terribili è Bhairav ("Il Crudele"), o Rudra, o Ugra, o Shaya
("li Cadavere"); in quelle pacifiche è Mahadeva ("Il
Grande Dio"), o Ishwara ("Il Signore"), o Pashupati
("Il Signore degli Animali"). Solitamente Shiva viene
personificato come un uomo dalla carnagione chiara con la gola blu e con
cinque facce, quattro braccia e tre occhi. Impugna un tridente (simbolo
del fulmine), una spada, un arco, e una mazza con un teschio fissato
all'estremità superiore. Unitamente al figlio Ganesh, il dio dalla
testa di elefante, è venerato nella Valle come la divinità più
benigna, anche se, allo stesso tempo, può essere la più terribile.
Oggi molti suoi fedeli provenienti dall'India e dal Nepal, si recano una
volta all'anno a Pashupatinath, in
marzo e in febbraio, per celebrare la festa di Shivaratri. E' questo il
più sacro dei templi nepalesi dedicati a Shiva, costruito nel
1696.
Il complesso religioso è formato da un insieme piuttosto tetro
di tetti di lamiera ondulata
raggruppati intorno ai
tetti dorati del tempio. A fianco del complesso scorre il fiume
sacro
Bagmati.
L’ARTIGIANATO
L'artigianato
nepalese, pur risentendo dell'influenza indiana e tibetana, ha
un'impronta personale. Nella parte nord-occidentale del paese è diffusa
l'arte di intagliare il legno con molta abilità: tutti gli spazi sono
ricoperti con fregi, arabeschi, figure, in un groviglio di teste e di
mani, che rammenta la visione caotica di un mondo primordiale. I
prodotti tessili sono degni di tutto rispetto: non è difficile trovare
maglioni di lana tibetano-nepalese, topi
(cappelli), guanti fatti a mano, calzettoni di lana, abiti
tibetani che si abbottonano su un fianco, maglie da uomo di cotone che
si allacciano diagonalmente con i nastri posti sul petto. I
topi sono di due tipi: quelli neri, più sobri, e quelli
multicolori. Sono l'equivalente orientale della cravatta e tutti i
nepalesi devono fame uso quando si recano negli uffici pubblici. Le
coperte di lana sono un prodotto tipico del Nepal. I tappeti nepalesi
sono spesso di buona fattura: i disegni sono tibetani, tibetano-nepalesi
o geometrici. Oggetti tipici nepalesi: ricordiamo il khukri,
il coltello nazionale che viene portato alla cintura e talvolta
è riccamente decorato; il saranghi,
una piccola viola a quattro corde ricavata da un unico pezzo di
legno e suonata dai gaine
(menestrelli) con un archetto di crine di cavallo.
ASPETTI
ECONOMICI
In
base al reddito medio annuo pro capite, il Nepal si inserisce nella
fascia dei Paesi molto poveri.
Agricoltura
- Utilizzo
dei suolo:
seminativi e
colture legnose 18,9%,
prati
e pascoli 14,2%,
foreste e boschi 17,6%,
incolti
e improduttivi
49,3%.
Prodotti
principali
-
cereali
(riso, mais,
frumento,
miglio), tabacco,
canna
da zucchero,
iuta,
legname.
Allevamento - Bovini,
bufali, caprini, ovini, suini.
Risorse minerarie
- Inesistenti.
Esportazioni
- Riso,
prodotti alimentari, prodotti
dell'allevamento,
iuta, legname.
Dopo
secoli di autoisolamento, attualmente l'industria più redditizia è
quella turistica, che
interessa soprattutto la vallata di Kathmandu e i sentieri del trekking.
La seconda attività del Nepal è la fabbricazione di tappeti,
esportati su vasta scala. Essa deve il suo successo all'intraprendenza
dei rifugiati tibetani che si stabilirono a Kathmandu dopo essere
fuggiti dal Tibet nel 1959.
LE
CITTA'
La
valle di Kathmandu, a 1300 m di altezza, è il cuore del Nepal, è
abitata da 1.702.000 persone.
Kathmandu sorge
alla confluenza del Bagmati col Vishnumati e
ha il suo centro monumentale nella Durbar
Square dove si trovano
il palazzo
reale, il palazzo della Kumari,
la dea vivente, il tempio di Narayan,
una pagoda a cinque piani e a tre
tetti dedicata a Vishnu e l'edificio di Kastha
Mandap, l'antico
centro di ricovero di pellegrini e di mercanti che costituì
il primo nucleo dell'intera città. La dea vivente viene scelta
tra un gran numero di bambine di quattro o cinque anni, tutte
appartenenti al clan degli orafi e degli argentieri. Il corpo della
kumari deve essere perfetto e conforme a 32 requisiti ben precisi. La
fase finale della selezione consiste in una terribile prova che si
svolge all'interno del tempio: uomini mascherati da demoni cercano di
spaventare le bambine, intorno alle quali vengono poste teste di bufali
ancora sanguinanti. La bambina che mostra di non aver paura è
senz'altro la dea stessa. La prescelta vivrà in questa casa, che rimarrà
la sua casa fino alla pubertà. Potrà uscire solo per alcune festività
religiose e dovrà essere portata su una portantina poiché le è
proibito toccare il suolo con i piedi. Quando giungerà il tempo di
scegliere un'altra kumari,
la ragazza lascerà il tempio con una ricca dote e sarà libera di
sposarsi.
La
città di Patan
(Lalitpur) si trova su di un altopiano a circa 5 km da Kathmandu con cui
forma ormai un'unica conurbazione. Il suo Durbar ( la piazza principale
) è certo il più suggestivo della valle con il palazzo reale e le
pagode a più piani. Bhagadaon (Bhaktapur)
sorge a 14 km da Kathmandu ed è collegata
alla capitale da una linea filoviaria. Anche il suo Durbar
è ricchissimo di monumenti. Ricordiamo fra gli altri l'antico palazzo
reale, un capolavoro dell'architettura civile in mattoni e in legno.
Tutte le sue 55 finestre sono minutamente intagliate nel legno.
|
|
|
|
|
- super
berluska - Fernanda Rossi - stupidità
dal mondo - portfoglio -
libri - trucchi pc & play -
disegni
- fotogallery - lego -
film - link -
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|