Franco Loi (“Il Sole – 24 Ore”, 24 febbraio 1991; ora presente, insieme ad altri testi critici, nell’Autoantologia di Giancarlo Majorino, Garzanti 1999)

 

“Quella contestazione formale e di sostanza che Majorino , fin da La capitale del Nord, 1959, a Provvisorio, 1984, ha perseguito, ora non sembra concentrarsi più sui composti stranianti o sulla scomposizione metrica, ma su un repertorio di un materiale elementare (da elemento materialistico primitivo e fondante), per poter tornare a dire (in senso forte) la scissione e la possibile riconciliazione” scrive Gianni d’Elia in un acuto articolo sull’ultimo libro di poesia di Giancarlo Majorino, La solitudine e gli altri.

Non che Majorino abbia di colpo relegato o rifiutato anni di esperienze letterarie, ma possiamo dire che, come accade, e deve accadere, in un tempo di profondi cambiamenti e ripensamenti come questo della decadenza occidentale, qualcosa è giunto a maturazione nell’uomo e nella sua poesia. A me pare, del resto, che Majorino si sia sempre mosso nella contraddizione, tra il canto e la frammentazione del reale, tra il dire e l’afasia del mondo in cui viviamo, tra la pochezza del senso e il ridondare delle parole. Già in Sirena, nel 1976, la sua voce aveva voluto calmarsi nei significati e nel bisogno interiore di ordine. “Pacata mente sgrano gli occhi dei minuti/ E riconosco il caso: nientetutto...”

Tuttavia permane ciò che mi sembra costitutivo del Majorino uomo e del suo “fare poesia”: l’allontanamento dalla retorica dell’italiano scritto, l’orrore per la ripetizione delle cose, degli eventi e del dire, quindi il pudore della banalità, e, infine, e mi pare il rilievo più decisivo, il cogliere l’oralità dei brevi sentimenti e il soverchiare dei piccoli eventi e delle cose. Tutto questo nella coscienza di una difficile coesistenza e contrarietà dei corpi – la passione politica, l’amore, la socialità – la lenta consunzione del discorrere, che nomina e dà vita ma spesso porta disordine alle cose, il bisogno di chiarirsi e catalogare per dare ordine, la vocazione al silenzio. Il pericolo di questa sua poesia è la caduta nella chiacchiera e nel rumore, l’assunzione del kitsch e dell’ovvio.

Un’illusione è stata comune alle avanguardie: fare delle istituzioni spezzate e dei linguaggi correnti una voce di denuncia e di barbara rivolta. Però Majorino ha compreso il grosso equivoco sperimentale, di avanguardie ben pagate e accademiche, lui che è sempre stato ai margini e tra i bisognosi: la poesia non può e non deve omologare la decadenza delle istituzioni e il tradimento della lingua. In questo libro, alla chiarezza del pensiero si accompagna la coscienza della propria poesia.

“Cose guardate/ Cose guardate per essere/ Il mondo intero è posto di cose/ Che sollevano ciglia/ Mentre voci persuadono/ I volti sono cose più complicate/ Gli occhi cercherebbero gli occhi” scrive in una sua poesia, e qui mi sembra prendere forma, semplice e non equivoca, la più importante novità di questo libro, che faceva appunto dire alla Cvetaeva l’essere la poesia voce di ciò che, negli uomini, e secondo il dettato dell’antico, anche nelle cose, vuole divenire o essere. Per ora, come lui dice, “sono brevi poesie, sono fortune”, ma pensiamo sia l’inizio di una liberazione.

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SEZIONE: critica   STATUS: completo   TEMPI DI LAVORAZIONE: 11/2002 - 4/2003

 

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