Giorgio Luzzi, Il poetico violato (“L'immaginazione”, 12 luglio 1996)

 

Difficile, da qualunque parte vi si entri, non fare i conti con il poetico e con la sua perpetrata violazione di queste cinquantotto sequenze senza nome che fanno corpo e danno corpo alla nuova esperienza in versi di Giancarlo Majorino, Tetrallegro. Eppure non vi è nulla di più lontano da un'ipotesi poematico-narrativa, anche nel senso che la serie di febbri insensate, di condizioni senza direzione, di psichi ridotte a destini pavloviani che viene qui messa in scena non conserva neppure più una dignità di figura, una individuale pretesa di essere qualcosa, comunque, di non confondibile con l'altro da sé. La tenebrosa euforia di Tetrallegro sta nel fatto che ormai le situazioni hanno perduto il nome, non sono più individuabili nemmeno per qualche crepa o smagliatura di quell'anonimato urbano che, almeno fino a La solitudine e gli altri (1990), dava non solo corpo ma nome appunto ai soggetti, storicamente indicativi e resistenti, dal poeta milanese. Ora sembra che il progetto della pura descrivibilità, la tensione con la quale i singoli atti e comportamenti e consumi devono venire fissati, quantomeno in tipologie di gruppo e di massa, si debba garantire il "lusso" di tagliare la nominalità: c'era qualcosa in grado di confermarci che Tizio non fosse uguale a Caio, che la garanzia di un nome regnasse sulla evaporante dignità del soggetto; ora non è possibile altro che rappresentare il puro impulso, l'animale istinto divoratore, la contesa mortale per il margine.

Non è impossibile definire tragico questo nuovo atto di Majorino. Certo è doveroso ammetterlo come cinico, almeno nel senso impressionante della registrazione della incoerenza e della velocità dei mutamenti (e delle mutazioni), della perdita di direzione che non ammette rispecchiabilità reciproche e possibili conseguenze intrecciate di consultazione sui fini non individuali. E' sintomatico che tendano qui a organizzarsi in modo nuovo gli spazi caricaturali, in una parola il comico (anche in senso gaddiano) capace di dare un senso alla antropologia delle figure: nel nome era la connotazione, il lato ilare, ma anche la rassicurazione del mascheramento come riconoscibilità differita. Ora ci troviamo in presenza di un ritmo motorio che è rappresentativo e corrosivo della cultura del semaforo, dello spot, della comunicazione deambulante, di un vagotecnico eros, senza che il carattere perturbante di tutto ciò possa dirsi rappresentato nel nome di un Io. C'è una perfezione tagliente nel modo con cui Majorino finge di montare strutture cariche di senso, pseudoapparati microstorici, mentre invano gli chiederemmo un giudizio, una pausa, una rottura dell'incubo.

E' per questo che il messaggio profondo del libro sta probabilmente nel proprio autorappresentarsi; e che la sfida dell'autore sia propriamente diretta a riaffermare la non deperibilità della poesia come genere mi sembra a sua volta da non escludere. Nel punto acuto della crisi dell'istituto letterario più esposto alla non traducibilità in merce, la sua risposta è una provocazione: soltanto intensificando l'energia delle specifiche risorse formative il testo sarà in grado di rilanciare la propria credibilità. Non già cedendo a ibridazioni o a semplificazioni, ma rafforzando l'identità, riassumendola anzi in una memoria della propria tradizione che risulti costantemente rivelata al proprio interno procedurale, il "destino" della poesia non si troverà a procedere con la testa rivolta all'indietro, come accade per gli indovini danteschi che si inondano il dorso di lacrime.

La curva di tensione linguistica è in Tetrallegro costantemente clonata, ma una serie di impulsi endogamici percorre in direzione opposta (è possibile pensare a un grande progetto metonimico) le singole sequenze, sino a convertirle in situazioni di forza, revocato ora, almeno in apparenza, il residuo di solidarietà affettiva che emergeva dalle figure dotate di un nome; e che il nome fosse puramente implicito non fa grande differenza. Qui si è indotti a pensare anzitutto a un campo strutturato e autoreferenziale, con la situazione del referente storico e psicologico che sembra sempre in procinto di entrare e in realtà viene tagliato via come un ambiguo fattore di disturbo: in sua vece scattano modalità euforiche (l'<allegro>) che sono situate nell'orizzonte del ritorno in sé del linguaggio poetico, mentre la falsa demenza del mondo, la finta contraddizione, non sembra essere che la pallida ripetizione (il <tetro>) dell'identico.

Ma proprio questa indifferenza del referente storico, la sua non identificabilità se non in termini di impulso, è in grado di rassicurare il testo rispetto alla mimesi sociologica o alla semplice degustazione ambientale; e contemporaneamente si fa luce la conferma che la perdita del nome e della direzione dei comportamenti sia frutto di un potere sempre più lontano (sfuggente, non responsabilizzabile) e ubiquo (incombente, capillarizzato). Agghiacciante che sia, questo mondo-monstrum in scena senza pregiudizi né sovrainvestimenti da Majorino finisce poi con il vantare una sua retrostante, perfida e doppia, dicibilità in una serie keatoniana di immagini antigraziose, di ritmi puntati e circuitanti, di spregiudicate innovazioni di tono e di lessico, scarica disciplinata e organizzata di eventi che non sarebbero inscenabili senza pensare di ricorrere polemicamente alla forza evoluta e disponibile delle risorse di linguaggio e alla vigilata fertilità e ampiezza della sua crisi.

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SEZIONE: critica   STATUS: completo   TEMPI DI LAVORAZIONE: 11/2002 - 4/2003

 

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