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Un viaggio nel cinema
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(A
cura di Gianfranco Callieri
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Sgombriamo il campo da eventuali equivoci:
Fahrenheit 9/11, non è, perlomeno non solo,
un documentario sulle connivenze, gli intrighi e gli opportunismi
scatenatisi, tramite la nefanda amministrazione Bush, all'indomani
della tragedia newyorchese del "september-eleven". Gli argomenti
affrontati da Michael Moore sono anche e soprattutto
altri, dalle presidenziali del 2000 scippate al candidato
democratico Al Gore alle restrizioni delle libertà individuali
causate dal famigerato Patriot Act, dalle manipolazioni
dei media relative alla (strumentale) invasione dell'Iraq
all'amara constatazione che la guerra - qualsiasi guerra
- registra le proprie vittime quasi esclusivamente tra gli
strati più bassi della società che la dichiara. Secondo
Quentin Tarantino, che ha decorato il film con il massimo
riconoscimento all'ultimo festival di Cannes, quelle di
Fahrenheit 9/11 sono "immagini straordinarie". Lo sono,
in senso etimologico, perché hanno la forza e l'evocatività
necessarie per metterci a confronto con una torbida realtà
troppo spesso alterata dai canali della comunicazione di
massa. Intendiamoci, Michael Moore non è Noam Chomsky, né
tantomeno Gore Vidal. Non sono nemmeno sicuro che il suo
lavoro, inteso come prodotto cinematografico, sia particolarmente
memorabile, visto le acrobazie logiche, le parentesi inutili
o i pietismi troppo accentuati non mancano davvero. Ma è
un'opera importante, Fahrenheit 9/11, dacché la sua rozza
foga accusatoria, rispetto a certe prolusioni sin troppo
equilibrate, riesce a dirci tante più cose sulla nostra
ignavia, sulla nostra acquiescenza e sulla nostra passiva
accettazione di modello di civiltà capitalista dove l'establishment
governativo divora e sputa a proprio uso e consumo la miseria
che esso stesso, sopraffazione dopo sopraffazione, contribuisce
a creare.
www.michaelmoore.com
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Distribuito alla chetichella in attesa dei grandi titoli autunnali,
ecco un film da non perdere. Storia di Marie e Julien,
ennesima dimostrazione di vitalità da parte dell'ultrasettantenne
maestro francese Jacques Rivette, è una di quelle poche
opere capaci di riconciliare lo spettatore con il cinema e
col concetto stesso di narrazione, negli ultimi tempi un po'
logorato da qualche tarantinismo e post-modernismo di seconda
mano. Marie e Julien s'incontrano, si amano, convivono. Nel
frattempo, lui, orologiaio, ricatta la misteriosa ed austera
Madame X; lei (la voluttuosa Emmanuelle Béart) si dedica all'arredamento
di una stanza all'ultimo piano della casa di Julien. Perché
quell'arredamento? Perché Julien possiede documenti compromettenti
relativi all'attività antiquaria di Madame X? Perché, quando
si taglia, Marie non sanguina? E cosa sono quelle sue repentine
crisi, durante le quali si immobilizza e recita parole senza
senso? Storia… inizia come il più convenzionale bisticcio
dei sentimenti in salsa francese, ma di fotogramma in fotogramma
disvela una grazia quasi soprannaturale (non è un termine
impiegato casualmente), tra il melodramma, del quale condivide
gli imprevedibili scatti emotivi, e il romance dal sapore
gotico (il gatto di casa, Nevermore, prende il nome da una
poesia di Edgar Allan Poe, il cui busto miniaturizzato fa
bella mostra di sé su di una mensola). Impeccabile l'uso dello
spazio ristretto di un villino monofamiliare, esplorato in
lungo e in largo da movimenti di macchina tanto eleganti quanto
discreti. E delizioso, nella sua candida irrazionalità, il
finale, che sembra tramutare quanto visto sinora in un tributo
affettuoso ed esistenzialista a Il ritratto di Jennie, il
piccolo, onirico capolavoro firmato da William Dieterle nel
1949. Incantevole. |
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Ben Stiller e Owen Wilson, come coppia comica,
funzionano alla grande. L'ex stella del Saturday Night Live
Will Farrell, nella parte di Big Earl, il carcerato gay, fa
scintille. Vince Vaughn, nel ruolo del villain, dimostra per
l'ennesima volta di essere uno dei migliori e più sottostimati
underplayers attualmente sulla piazza a Hollywood. La sceneggiatura
fila liscia, attraverso una serie di gag sovente supportate
da un timing metronomico. La tappezzeria vintage - macchine,
vestiti, arredamenti - che decora ogni sequenza del film è
impeccabile. La colonna sonora, abile frullato tra disco anni
'70, Barry Manilow e l'immarcescibile The Band di The Weight,
regala buone vibrazioni. Senza dimenticare alcuni caratteristi
- il Manetti di Chris Penn, il capitano Doby di Fred Williamson
- che è sempre un piacere osservare al lavoro. Allora, cos'è
esattamente che non funziona in questo contemporaneo omaggio
alle poliziottesche gesta televisive di Paul Michael Glaser
e David Soul? Verrebbe voglia dire il rapper Snoop Dogg (riserverà
la propria creatività alla produzione di video a luci rosse?
ai dischi no di sicuro) nei panni del "soffia" Huggy Bear,
ma è una battuta troppo facile. Resta quindi la non felice
constatazione del fatto che, rispetto alla media delle commedie
d'azione di un tempo, qualsivoglia blockbuster odierno necessita
d'una trafila di ammiccamenti sessuali a dir poco avvilente,
dell'inutile presenza di qualche starlette femminile buona
giusto per mostrare due o tre centimetri di coscia e di un
soggetto abbastanza insulso perché il pubblico delle multisale
non abbia la sensazione di impegnarsi troppo. Starsky
& Hutch, il remake targato 2004? Mala tempora currunt,
amici miei. |
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Certo cinema inglese, così come certo cinema francese, appare
oramai preda d'una pletora di stereotipi. Tutti abbiamo amato
la rabbia blue-collar di Ken Loach o Mike Leigh, ma negli
ultimi tempi personaggi e situazioni codificati da questi
due registi sono state ripresi, nonché abusati, da troppi
colleghi privi di talento, slancio o inventiva. Il pur onesto
Shane Meadows intendeva chiudere, con questo C'era
una volta in Inghilterra una trilogia sulla working-class
delle Midlands scozzesi iniziata col ben più meritevole 24-7
e proseguita con il traballante A Room For Romeo Brass, ma
stavolta l'ispirazione sembra essersi volatilizzata del tutto.
Non bastano il "fuck-off" spiantato e proletario di Robert
Carlyle, la timidezza impacciata di Rhys Ifans, la mimica
incontenibile di Kathy Burke o le svisate country&western
di Ricky Tomlinson (peraltro divertentissimo nel ruolo di
Charlie Nashville, one-man band ogni martedì sera di scena
al pub) per fare un film, né basta caratterizzare all'esagerazione
ogni personaggio per intelaiare una trama che regga, che sia
credibile e che sia avvincente. A parte una forzata e fastidiosa
retorica del miserabilismo purtroppo endemica in simili copioni,
provoca un certo sbigottimento la morale conciliatrice che
ammorba il dipanarsi dell'intero film, perché l'idea che queste
famiglie disastrate, orgogliose di partecipare alle trasmissioni
della Maria DeFilippi britannica di turno oppure popolate
da bambini tristi e troppo maturi per la loro età possano
essere più felici di altre non la mette in discussione nessuno;
però, se i plumbei sobborghi popolari (ottimamente fotografati
da Brian Tufano), le interminabili serate al bingo e il lavoro
minorile ispirano ancora gratuito pietismo piuttosto che volontà
di riscatto… be', signori, come si dice, aridatece i Clash
e Billy Bragg. |
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