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MoviesHighway >>Le nostre immagini
Un viaggio nel cinema
( )

Fahrenheit 9/11
(Michael Moore
)

USA 2004
112'


Sgombriamo il campo da eventuali equivoci: Fahrenheit 9/11, non è, perlomeno non solo, un documentario sulle connivenze, gli intrighi e gli opportunismi scatenatisi, tramite la nefanda amministrazione Bush, all'indomani della tragedia newyorchese del "september-eleven". Gli argomenti affrontati da Michael Moore sono anche e soprattutto altri, dalle presidenziali del 2000 scippate al candidato democratico Al Gore alle restrizioni delle libertà individuali causate dal famigerato Patriot Act, dalle manipolazioni dei media relative alla (strumentale) invasione dell'Iraq all'amara constatazione che la guerra - qualsiasi guerra - registra le proprie vittime quasi esclusivamente tra gli strati più bassi della società che la dichiara. Secondo Quentin Tarantino, che ha decorato il film con il massimo riconoscimento all'ultimo festival di Cannes, quelle di Fahrenheit 9/11 sono "immagini straordinarie". Lo sono, in senso etimologico, perché hanno la forza e l'evocatività necessarie per metterci a confronto con una torbida realtà troppo spesso alterata dai canali della comunicazione di massa. Intendiamoci, Michael Moore non è Noam Chomsky, né tantomeno Gore Vidal. Non sono nemmeno sicuro che il suo lavoro, inteso come prodotto cinematografico, sia particolarmente memorabile, visto le acrobazie logiche, le parentesi inutili o i pietismi troppo accentuati non mancano davvero. Ma è un'opera importante, Fahrenheit 9/11, dacché la sua rozza foga accusatoria, rispetto a certe prolusioni sin troppo equilibrate, riesce a dirci tante più cose sulla nostra ignavia, sulla nostra acquiescenza e sulla nostra passiva accettazione di modello di civiltà capitalista dove l'establishment governativo divora e sputa a proprio uso e consumo la miseria che esso stesso, sopraffazione dopo sopraffazione, contribuisce a creare.

www.michaelmoore.com

 

Storia di Marie e Julienne
(Jaques Rivette)

Francia 2003
156'



Distribuito alla chetichella in attesa dei grandi titoli autunnali, ecco un film da non perdere. Storia di Marie e Julien, ennesima dimostrazione di vitalità da parte dell'ultrasettantenne maestro francese Jacques Rivette, è una di quelle poche opere capaci di riconciliare lo spettatore con il cinema e col concetto stesso di narrazione, negli ultimi tempi un po' logorato da qualche tarantinismo e post-modernismo di seconda mano. Marie e Julien s'incontrano, si amano, convivono. Nel frattempo, lui, orologiaio, ricatta la misteriosa ed austera Madame X; lei (la voluttuosa Emmanuelle Béart) si dedica all'arredamento di una stanza all'ultimo piano della casa di Julien. Perché quell'arredamento? Perché Julien possiede documenti compromettenti relativi all'attività antiquaria di Madame X? Perché, quando si taglia, Marie non sanguina? E cosa sono quelle sue repentine crisi, durante le quali si immobilizza e recita parole senza senso? Storia… inizia come il più convenzionale bisticcio dei sentimenti in salsa francese, ma di fotogramma in fotogramma disvela una grazia quasi soprannaturale (non è un termine impiegato casualmente), tra il melodramma, del quale condivide gli imprevedibili scatti emotivi, e il romance dal sapore gotico (il gatto di casa, Nevermore, prende il nome da una poesia di Edgar Allan Poe, il cui busto miniaturizzato fa bella mostra di sé su di una mensola). Impeccabile l'uso dello spazio ristretto di un villino monofamiliare, esplorato in lungo e in largo da movimenti di macchina tanto eleganti quanto discreti. E delizioso, nella sua candida irrazionalità, il finale, che sembra tramutare quanto visto sinora in un tributo affettuoso ed esistenzialista a Il ritratto di Jennie, il piccolo, onirico capolavoro firmato da William Dieterle nel 1949. Incantevole.
     

Starsky & Hutch
(Todd Phillips)


USA 2004
100'


Ben Stiller e Owen Wilson, come coppia comica, funzionano alla grande. L'ex stella del Saturday Night Live Will Farrell, nella parte di Big Earl, il carcerato gay, fa scintille. Vince Vaughn, nel ruolo del villain, dimostra per l'ennesima volta di essere uno dei migliori e più sottostimati underplayers attualmente sulla piazza a Hollywood. La sceneggiatura fila liscia, attraverso una serie di gag sovente supportate da un timing metronomico. La tappezzeria vintage - macchine, vestiti, arredamenti - che decora ogni sequenza del film è impeccabile. La colonna sonora, abile frullato tra disco anni '70, Barry Manilow e l'immarcescibile The Band di The Weight, regala buone vibrazioni. Senza dimenticare alcuni caratteristi - il Manetti di Chris Penn, il capitano Doby di Fred Williamson - che è sempre un piacere osservare al lavoro. Allora, cos'è esattamente che non funziona in questo contemporaneo omaggio alle poliziottesche gesta televisive di Paul Michael Glaser e David Soul? Verrebbe voglia dire il rapper Snoop Dogg (riserverà la propria creatività alla produzione di video a luci rosse? ai dischi no di sicuro) nei panni del "soffia" Huggy Bear, ma è una battuta troppo facile. Resta quindi la non felice constatazione del fatto che, rispetto alla media delle commedie d'azione di un tempo, qualsivoglia blockbuster odierno necessita d'una trafila di ammiccamenti sessuali a dir poco avvilente, dell'inutile presenza di qualche starlette femminile buona giusto per mostrare due o tre centimetri di coscia e di un soggetto abbastanza insulso perché il pubblico delle multisale non abbia la sensazione di impegnarsi troppo. Starsky & Hutch, il remake targato 2004? Mala tempora currunt, amici miei.
 

C'era una volta in Inghilterra (Once upon a time in the Midlands)
(Shane Meadows)

Gb/Germania/Olanda 2002

104'


Certo cinema inglese, così come certo cinema francese, appare oramai preda d'una pletora di stereotipi. Tutti abbiamo amato la rabbia blue-collar di Ken Loach o Mike Leigh, ma negli ultimi tempi personaggi e situazioni codificati da questi due registi sono state ripresi, nonché abusati, da troppi colleghi privi di talento, slancio o inventiva. Il pur onesto Shane Meadows intendeva chiudere, con questo C'era una volta in Inghilterra una trilogia sulla working-class delle Midlands scozzesi iniziata col ben più meritevole 24-7 e proseguita con il traballante A Room For Romeo Brass, ma stavolta l'ispirazione sembra essersi volatilizzata del tutto. Non bastano il "fuck-off" spiantato e proletario di Robert Carlyle, la timidezza impacciata di Rhys Ifans, la mimica incontenibile di Kathy Burke o le svisate country&western di Ricky Tomlinson (peraltro divertentissimo nel ruolo di Charlie Nashville, one-man band ogni martedì sera di scena al pub) per fare un film, né basta caratterizzare all'esagerazione ogni personaggio per intelaiare una trama che regga, che sia credibile e che sia avvincente. A parte una forzata e fastidiosa retorica del miserabilismo purtroppo endemica in simili copioni, provoca un certo sbigottimento la morale conciliatrice che ammorba il dipanarsi dell'intero film, perché l'idea che queste famiglie disastrate, orgogliose di partecipare alle trasmissioni della Maria DeFilippi britannica di turno oppure popolate da bambini tristi e troppo maturi per la loro età possano essere più felici di altre non la mette in discussione nessuno; però, se i plumbei sobborghi popolari (ottimamente fotografati da Brian Tufano), le interminabili serate al bingo e il lavoro minorile ispirano ancora gratuito pietismo piuttosto che volontà di riscatto… be', signori, come si dice, aridatece i Clash e Billy Bragg.

 

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