Restavano
aperte molte domande sul futuro di Willy DeVille all'indomani
della pregevole formula acustica, inaugurata con il doppio disco
dal vivo. La voce si era plasmata sulle tonalità più profonde, alternando
rauchi blues notturni e romanticherie da esperto crooner. Crow
Jane Alley è una possibile risposta, nel senso che ci restituisce
il DeVille più familiare, camaleontico nell'attraversare gli stili
musicali che lo hanno forgiato, ma allo stesso tempo lascia un sapore
di parziale delusione in chi, come il sottoscritto, vagheggiava
un approccio più crudo e rurale, proprio sulla falsariga delle sue
esibizioni live. Tornato nelle braccia dell'amata New York, Willy
ha sfoderato il solito charme e una buona dose di mestiere. La sostanza
del suo pachuco rock non è cambiata di una virgola, tanto
è vero che Crow Jane Alley potrebbe passare per un riassunto dei
suoi ultimi dieci anni di carriera. Il fatto poi che la produzione
sia affidata a John Philip Shenale (tastierista con cui aveva
già lavorato in Loup Garou e Backstreets of Desire) conferma la
sensazione di un disco "fedele alla linea". Più colorato e fantasioso
di Horse of a Different Color, e di conseguenza anche più convincente,
offre proprio quello che la vecchia guardia dei suoi sostenitori
si aspetterebbe. Ai posteri decidere se questo sia un limite che
peserà presto sul futuro. Willy però ha già dato e molto per giunta:
perché allora non godere di un artista sincero come pochi e di una
delle rare voci che ancora sanno emozionare?
Si può partire comodamente dalle sinuosità latine di Chieva,
che mischia le chitarre spanish con gli incastri blues dell'armonica,
in un brano degno dei Los Lobos (e guarda caso compaiono come ospiti
David Hidalgo e Alex Acuna). Un cocktail latineggiante
che è un marchio di fabbrica a cui Willy non rinuncia facilmente:
lo ripropone in versione mariachi (accordion nelle mani di Hidalgo)
con la border song Downside of Town e nella cover di Come
a Little Bit Closer, una Hey Joe meno fascinosa, aggiornata
al 2004. E non poteva mancare di contorno una manciata di ballate
dall'animo soul, ora adagiate su brillanti chitarre rock (Right
There, Right Then, classica fin dalle prime note), altre volte
imbevute di quel gusto sixties che riporta ai suoi primi dischi
(My Forever Came Today). È il Deville che abbiamo imparato
ad amare, capace di incantare con dolceza prima di affondare la
lama con la rude elettricità del blues (Muddy waters Rose Out
of Mississippi Mud) e di un rock'n'roll sudaticcio (Trouble
Comin' Everyday In A World Gone Wrong….parole sante Willy).
Quello che non ti aspetti invece è sorprenderlo a sussurrare un
country-soul di rara eleganza in Crown Jane Alley (For Jake),
dedica speciale al vecchio amico Jack Nitzsche, e speziare il tutto
con un pizzico di Louisiana in Don't Have A Change of Heart.
Due lampi di classe sopraffina che bastano a farcelo amare come
il primo giorno
(Fabio Cerbone)
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