Punto
primo: le canzoni di Alejandro Escovedo hanno una
qualità particolare (ne hanno molte, in realtà, ma una spicca
più delle altre), ovverosia il dono di suonare immediatamente
come la più originale tra le interpretazioni possibili.
Non è un fattore scontato; altri nomi, se vogliamo ben più
grandi, ne sono sprovvisti. Invece le canzoni di Alejandro
sembrano quasi impossibili da rinnovare, almeno a patto
di non snaturarle completamente. Del resto, quello d'aver
disegnato una forma canzone capace di contenere Velvet Underground
e Iggy Pop, troubadours texani e radici messicane, volute
orchestrali e irruenza punk, be', è un privilegio che pochi
possono vantare. Se la rivista No Depression, bibbia americana
dell'alt.country, ha eletto quest'uomo "artista della
decade" (riferendosi agli anni '90), insomma, un motivo
ci sarà. Punto secondo: il corpo di Alejandro Escovedo,
ora, è purtroppo debilitato da una rara forma di epatite
C che, in pratica, gli impedisce di registrare e di esibirsi
live con regolarità. Il trattamento medico richiesto da
questa malattia comporta costi notevoli, che il nostro non
riesce a sostenere. E' nato così il progetto Alejandro
Fund (www.alejandrofund.com),
in pratica un piccolo gruppo di volontari dediti al reperimento
e alla gestione di fondi per le cure del cantante. Altro
segnale concreto dell'interessamento ricevuto dal caso presso
la "comunità roots" americana è il tributo Por Vida
(introdotto da un sagace profilo critico di Dave Marsh),
doppio cd i cui proventi verranno destinati alle attività
del fondo.
Prescindendo per un attimo dalle tribolate vicende cliniche
di Alejandro, la cui sofferenza credo vorremmo tutti alleviare,
come definire l'operazione da un punto di vista critico?
Riuscita, senz'altro, e questo va detto subito, anche perché
non è semplice obiettare qualcosa di rilevante a 150 minuti
di musica durante i quali scorrono i nomi di Lucinda
Williams (bellissima la sua Pyramid Of Tears),
Steve Earle & Reckless Kelly (fautori di una rocciosa
Paradise), Lenny Kaye (protagonista di una
Sacramento & Polk à la Lou Reed) o Ian Hunter
(un'ottima One More Time, puntellata dalle chitarre
assassine di Andy York). Tuttavia, per riallacciarsi al
punto primo, va altresì ammesso che, vista l'eccentrica
natura dei brani oggetto di rilettura, non mancano i momenti
di stanca, le parentesi poco riuscite o alcuni veri e propri
guazzabugli stilistici scarsamente efficaci. Tra chi ha
pensato di riproporre tali e quali le proprie costanti formali,
gli unici ad avere ottenuto un risultato pienamente positivo
sono Cowboy Junkies (Don't Need You, rallentata,
asciugata e severa), Calexico (la magnetica Wave)
e Son Volt (una roccata Sometimes), tutti
e tre in possesso di una cifra stilistica altamente personale,
peculiare, inconfondibile, tale da rendere massimamente
naturale l'appropriarsi di composizioni altrui. Non impressionano,
invece, il Bob Neuwirth di Rosalie, l'accoppiata
Jon Langford/Sally Timmis alle prese con Broken
Bottle, la Jennifer Warnes di Pissed Off 2am,
la Rosie Flores di Inside This Dance o il
Charlie Musselwhite di Everybody Loves Me,
in quanto le loro riletture sembrano peccare di semplicismo
eccessivo rispetto a brani originali di ben altra caratura.
Anche nel folto gruppo dei traditori della lettera dell'artista,
cioè i più audaci rispetto allo stile originario delle canzoni,
si riscontrano diversi alti (notevoli) e bassi (altrettanto
notevoli). Spiazzano e convincono i violini del Section
Quartet, la cui Crooked Frame mostra disinvolta
il passo rigoroso della musica classica, così come la Nicholas
Tremulis Orchestra, che porta Velvet Guitar a
passeggio tra reggae ed Hawaii, oppure ancora l'inedito
trio composto da M. Ward, Howe Gelb e Vic
Chesnutt, assai evocativi nelle atmosfere country-noir
di Way It Goes. Piuttosto incomprensibili, al contrario,
sono la claustrofobica She Doesn't Live Here Anymore
del decano John Cale, una Last To Know tramutata
dai pur bravi Jayhawks in un poco felice groviglio
di rock'n'roll e psichedelica e una Ballad Of The Sun
And The Moon banalizzata a colpi di funky scipito da
Pete Escovedo e Sheila E.
Ciò che resta, oltre a una bellissima canzone nuova dello
stesso Escovedo (Break This Time), sono tanti, onesti
esempi di americana che, se non valgono le intuizioni di
partenza dell'artista omaggiato, regalano in ogni caso buone
e robuste e vibrazioni. E poi, non dimentichiamoci del punto
secondo: il vero motore di questa raccolta e il motivo sostanziale
per cui un pensierino sull'acquisto dovreste comunque farlo.
(Gianfranco Callieri)
www.cookingvynil.com
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