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La Stella del Mattino

Laboratorio per il dialogo religioso

nuova serie – trimestrale

n. 4 – ottobre/dicembre 2002

 

 

Sommario

 

Presentazione

Nelle proprie mani

 

In cammino

Eihei Doghen

Ottenere il midollo prestando obbedienza (Raihai tokuzui)

Preceduto da Shoboghenzo segreto di Mauricio Y. Marassi e Introduzione di Stanley Weinstein

Luciano Mazzocchi

Maestro e discepolo nella via cristiana

 

Canzoniere

Federico Battistutta

Natale

 

Fabula

Roberto Carifi

Lettera sugli angeli

 

Voci

Cesare Viviani – Angelo Casati

La fine di mediazioni e doppiezze. Due lettere

Jiso Forzani

Pensieri in viaggio

 

Schede

a cura di Alberto Braida, Giuliano Burbello e Valeriano Massimi

 

Notizie

 

 

Redazione: Federico Battistutta, Giuseppe Jiso Forzani (coordinatori), Alberto Braida, Giuliano Burbello, Luciana Della Flora. Mauricio Yushin Marassi e Silvia Papi

Sede: via Gaffurio 11, 26900 Lodi

Tel. e fax: 0371.424801

E-mail: laequilibrista@libero.it

Sito web: web.tiscalinet.it/stellamattino, a cura di Andrea Zaniboni

Abbonamento ordinario: Euro 15,50

Abbonamento sostenitore: Euro 25,90

Conto corrente postale: 41527219 intestato a Associazione Culturale L’Equi-librista

Stampa: Cooperativa sociale "Eredi Gutenberg", Piacenza

Autorizzazione del Tribunale di Lodi n. 334/02 del 5.4.2002

Direttore responsabile: Federico Battistutta

Proprietà: Associazione Culturale L’Equi-librista

 

 

Arretrati:

 

Opuscolo di gennaio - marzo 2001

Opuscolo di aprile - giugno 2001

Opuscolo di luglio - settembre 2001

Opuscolo di ottobre - dicembre 2001

Opuscolo di gennaio - marzo 2002

Opuscolo di luglio - settembre 2002

 

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Presentazione

 

Nelle proprie mani

 

Un racconto appartenente alla tradizione indù riferisce di un uomo considerato dalle genti che incontrava lungo il cammino una persona saggia, un vero maestro. Gli aneddoti su di lui si diffondevano in ogni dove, alcuni più attendibili, altri meno. Due giovani, insofferenti a ogni tipo di reverenza, si accordarono per giocare un tiro mancino all’uomo. Presero un pulcino, così piccolo da stare comodo nel palmo di una mano, con l’idea di porre all’uomo un quesito all’apparenza elementare: "Il pulcino chiuso nella mano è vivo?" Se la risposta ottenuta fosse stata affermativa sarebbe bastata una minima pressione della mano per farlo morire. Invece se il loro interlocutore avesse risposto negativamente, era sufficiente aprire delicatamente la mano e lasciare andare il pulcino per la sua strada. Decisamente non c’erano vie d’uscita. Detto fatto si diressero dall’uomo, pregustando la sconfitta e la derisione dell’avversario. Giunti in sua presenza, mentre uno teneva il pulcino chiuso nella mano, l’altro fece la domanda. Finito di ascoltare, l’uomo guardò con intensità gli occhi irrequieti dei due giovani e la mano fremente che teneva il pulcino. Fu un attimo: aveva compreso. Allora, emise un sospiro leggero e disse: "Amico, la risposta è nelle tue mani".

Non c’è maestro senza discepolo; sembra un’affermazione banale ma talvolta è bene ribadire l’ovvio. Così come un discepolo ha il maestro che si merita e viceversa. Maestro e discepolo sono termini e ruoli che ricorrono con frequenza quando si parla di cammino religioso. Ma, contrariamente a quanto afferma certa manualistica religiosa, maestro non è colui che è arrivato per primo in fondo a un cammino e poi per magnanimità torna indietro per spiegare la strada a quelli rimasti indietro, come fosse una guida alpina o il primo della classe in mezzo a tanti ripetenti. Non c’è primogenitura né imitazione ma solo un camminare insieme, una relazione quantomai viva e dinamica, capace di comprendere al suo interno tutte le ricchezze e le miserie umane, in cui entrambe le persone si riconoscono innanzitutto discepoli di quella grande via che mentre la si percorre non cessa di esaurirsi.

 

Tutto ciò per introdurre alcuni interventi che compaiono su questo numero e che, molto probabilmente, verranno toccati, ripresi e sviluppati in seguito. Il primo testo che incontriamo è la traduzione di un testo fondamentale di Eihei Doghen, figura centrale del buddhismo zen e spesso ricordata sulla "Stella del mattino". La lettura di queste pagine ribalterà certi luoghi comuni a cui sopra si faceva riferimento, rimettendo la domanda nelle nostre mani proprio quando volentieri, come fosse una patata bollente, la scaricheremmo su altri, su maestri, veri, presunti o supposti. Dobbiamo chiedere insegnamento agli alberi e alle rocce, ai campi e ai villaggi, ponendo le nostre domande a un pilastro e praticando intensamente con un muro, così ci viene detto da Doghen in un passaggio significativo.

Anche Luciano Mazzocchi affronta il medesimo discorso scandagliando questa volta l’argomento all’interno della sensibilità cristiana. Partendo da una meditazione su alcuni versetti evangelici sul tema ("Non fatevi chiamare maestri…"), ci accompagna a cogliere le varianti e le numerose sfumature sul tema che possiamo incontrare in ambito ortodosso, protestante e cattolico.

Connesso, seppure tangenzialmente, a questo ordine di riflessioni è lo scambio epistolare che pubblichiamo tra Cesare Viviani e p. Angelo Casati. In esso è forte l’interrogazione su un annuncio che sappia essere universale e al contempo non attenui la radicalità e la sovversione contenuta nel messaggio evangelico. Non basta più stare all’interno delle chiese – dice nella chiusa della sua lettera don Angelo -, dobbiamo riprendere il gusto di attraversare le città, ascoltando le voci e il vuoto.

Invece il diario di viaggio di Jiso Forzani contiene alcune osservazioni scaturite da un recente viaggio in Giappone compiuto dall’autore, partendo da incontri casuali o dettagli all’apparenza insignificanti. Il tono sembra faceto, ma non facciamoci ingannare poiché troviamo toccate, sotto le sembianze di rapidi aforismi o di quadretti di viaggio, questioni cruciali per le religioni (secolarizzazione, inculturazione…).

Un racconto, una poesia e alcune note di lettura contribuiscono ad arricchire e a completare il numero.

F. B.

 

 



In cammino

 

 

Ottenere il midollo prestando obbedienza

Eihei Doghen

 

Shoboghenzo segreto

Mauricio Yushin Marassi

 

Quella che segue è la traduzione italiana della traduzione inglese di un capitolo, o sezione, dello Shoboghenzo. Ne offriamo una versione snella e per quanto possibile semplificata. Questa scelta è dovuta sia ai limiti di tempo che ci siamo imposti nel realizzare la traduzione sia al non aver voluto appesantire il lettore con lunghe e particolareggiate annotazioni o chiose. Il testo originale è stato consultato, grazie alla dotta mediazione di Jiso Forzani, solamente in quei pochi casi in cui la traduzione inglese non era sufficientemente chiara nella forma o nel contenuto.

Le parentesi quadre sono del traduttore americano, le parentesi tonde sono del traduttore italiano.

La prima parte del testo è dedicata alla caratterizzazione del maestro secondo la corretta collocazione nel rapporto col discepolo e viceversa. Attraverso gli esempi, molti dei quali hanno per protagonisti le donne, Doghen traccia una figura dove l’elemento principale consiste nell’insegnare al discepolo ad essere tale attraverso l’esempio personale. Ovvero l’insegnamento della maestria consiste nell’atteggiamento da discepolo nei confronti di tutta la realtà, della propria pratica, degli oggetti inanimati, degli animali, delle persone che hanno realmente qualche cosa da insegnarci, siano esse più giovani di noi, di sesso femminile o il nostro maestro spirituale. L’atteggiamento da discepolo si estrinseca e vive nella forma del rispetto e dell’ascolto.

Questo e non altro è da sempre insegnato nella tradizione buddista: a nessuno viene insegnato a comportarsi da "maestro" o a pretendere atteggiamenti di sudditanza e obbedienza. L’obbedienza si insegna con l’esempio personale e non pretendendola. A sua volta, imparare l’obbedienza, il rispetto, la venerazione dell’insegnamento e della sua fonte, senza discriminazioni, è l’unico modo di apprendere. Per questo è l’unico modo insegnato.

La seconda parte, assente nell’edizione standard dello Shoboghenzo, è un testo sorprendente in senso assolutamente positivo, per chi conosca la cultura giapponese e per chi sia al corrente del modo in cui in Giappone, sia nei monasteri buddisti che nella società laica, è affrontato e risolto il problema della dignità della donna e delle pari opportunità tra i sessi. Ci siamo chiesti se il motivo per cui questa parte sia stata inserita nel cosiddetto "Shoboghenzo segreto" e poi tenuta nascosta per alcuni secoli non risieda proprio nel fatto che neppure a Doghen è stato concesso di parlare della donna in termini di sostanziale parità. Se in seguito troveremo a questo dubbio una risposta surrogata da testimonianze storiche ne faremo partecipi i lettori. Nel frattempo apprezziamo l’occasione che ci offre questo testo di leggere il buddismo zen anche sotto il profilo socio-antropologico proprio attraverso le parole di Doghen, qui insolitamente e appassionatamente impegnato nel difendere il buddismo, i buddisti, uomini e donne, dalla discriminazione e dalle mentalità basate sull’esclusione. Senza dimenticare che il suo parlare deve essere sempre contestualizzato all’interno della comunità buddista. Non può quindi essere inteso come un manifesto politico o un invito all’attivismo sociale schierato sul fronte della parità dei sessi.

Doghen non afferma una presunta uguaglianza tra i sessi, insostenibile sotto qualsiasi profilo, ma nel suo discorso distingue due ambiti: il mondo del risveglio da un lato, e dall’altro lato pone questo mondo pieno di limiti, di sofferenza e di differenze. Riferendosi al mondo del risveglio dice: "Dal momento che una persona che ha raggiunto il dharma non è altro se non un vero e antico buddha, quando incontrate quella persona non dovete far caso se nel passato fosse un uomo o una donna. Quando [un antico buddha] vi vede vi tratterà come qualche cosa di nuovo e speciale". Ed anche: "Che tipo di persona dimora su quella montagna? Moshan disse: Non con la forma di un uomo, non con la forma di una donna".

Riferendosi al lato mondano della vita ed alle differenze che lo caratterizzano, Doghen ribadisce la varietà di forme di vita fra coloro che fanno parte dell’assemblea del buddha, elencando, secondo la tradizione antica, quattro gruppi: i monaci, le monache, i laici e le laiche. Non è un nuovo modo per reintrodurre la discriminazione dopo averla scacciata dal regno del buddha, è l’elenco, secondo caratteristiche salienti, delle diverse persone tenendo conto del corpo da loro ricevuto alla nascita e delle loro scelte di vita rispetto all’ordine monastico. Naturalmente l’interesse di Dogen è focalizzato sull’altro versante, "il vasto reame dei buddha" dove, raggiunta l’altra sponda "quegli stessi buddha ci accolgono a braccia aperte" e nel quale non ha alcuna importanza né il sesso, né il ceto, né l’età. Addirittura, non ha più importanza neppure la specie ("…quando uno di loro raggiunge l’illuminazione i monaci itineranti si radunano per prestare obbedienza e cercare istruzione, come farebbero con un maestro che avesse lasciato la sua casa per entrare nell’ordine. E così deve avvenire sia con una donna sia con un appartenente al mondo animale…"), quando un essere non è altro se non un vero e antico buddha.

 

Introduzione

Stanley Wenstein

 

Il titolo di questo brano riecheggia una storia molto nota. In essa si narra che Bodhidharma chiese a quattro suoi discepoli di esprimere la loro comprensione del Buddhismo. Dopo di che Bodhidharma specificò il livello di comprensione di ciascuno di loro. Al primo, chiamato Daofu, disse: "Tu hai ottenuto (realizzato) la pelle"; al secondo, una monaca di nome Zongchi, disse: "Tu sei giunta sino alla carne"; al terzo, Daoyu: "Tu hai conquistato le mie ossa". Il quarto discepolo, Huike [che diventerà il successore di Bodhidharma], alla domanda del maestro non aveva detto nulla ma si era inchinato sino a terra di fronte a lui. A Huike Bodhidharma disse allora: "Tu hai conquistato (realizzato, raggiunto) il mio midollo (l’essenza del mio insegnamento)".

Il testo di questo scritto di Doghen esiste in due versioni: una versione ridotta ed una estesa. La prima appare nello Shoboghenzo in 75 capitoli, considerato comunemente l’edizione standard. La seconda, quella più lunga, è conservata solamente nel cosiddetto "Shoboghenzo segreto", in 28 sezioni, mantenuto nascosto ad Eiheiji per molti anni. La parte aggiuntiva, presente solo nella versione più lunga fu poi incorporata nell’edizione in 95 capitoli dello Shoboghenzo realizzata ad Eiheiji all’inizio del milleottocento. Offriamo qui la traduzione della versione più lunga, con la seconda parte separata dalla prima.

 

Ottenere il midollo prestando obbedienza (Raihai tokuzui)

Eihei Doghen

I

Quando pratichiamo la suprema e perfetta illuminazione, l’impresa più difficile è trovare una guida, un insegnante. Questo maestro non consiste nella forma di un uomo o di una donna ma piuttosto lo troveremo in una persona di grande determinazione; potrà esserlo solo una tale persona. Il maestro non è una persona del passato né una persona del presente. Piuttosto sarà uno spirito di volpe ad essere il buon amico. Questa è la sembianza che ottiene il midollo; la tua guida, il tuo benefattore. L’insegnante non sarà nelle tenebre a proposito di causa ed effetto; il maestro puoi esser tu, io o qualcun altro.

Dopo aver incontrato una persona che vi sia da guida e da insegnante dovete mettere da parte le mille distrazioni e, senza perdere un istante, dedicarvi energicamente a seguire la via. Dovete praticare, sia pure usando la mente che non usando la mente, come pure usando metà della mente.

Perciò dovete imparare a praticare con la stessa urgenza che usereste nello spegnere un fuoco che si trovi sulla vostra testa o se vi trovaste in equilibrio con una gamba sollevata [per prestare omaggio ad un buddha]. Se vi comporterete in questo modo non sarete assaliti dalle legioni di Mara che vi trascinano nell’errore. L’antenato che si tagliò un braccio per ottenere il midollo non è qualcun altro, il maestro che vi insegnerà a spogliarvi di corpo e mente è già in voi. Raggiungere il midollo e ricevere il dharma sempre dipende dalla più completa sincerità e dalla fede. La fede sincera non è qualche cosa che viene a voi dall’esterno, e neppure che muove verso l’esterno da dentro di voi, significa semplicemente stimare e onorare il dharma mentre facciamo di noi stessi luce. È voltare le spalle al mondo e considerare la via come propria dimora. Se di voi stessi pensate di essere, anche di poco, più preziosi del dharma, il dharma non passerà in voi e neppure lo raggiungerete. Non vi è neppure un esempio di qualcuno che abbia considerato il dharma come qualche cosa di prezioso. Sebbene voi non abbiate alcun bisogno di ricorrere agli insegnamenti altrui, vi illustrerò alcuni esempi istruttivi.

Tenere in considerazione il dharma è proteggere e preservare il grande dharma; sia pure un pilastro, una lanterna, tutti i buddha, un volpacchiotto, un demone, un uomo o una donna. Se avete colto il mio midollo vi prenderete cura dei buddha per l’eternità, usando il vostro corpo e la vostra mente come un seggio per loro. Ricevere un corpo ed una mente umani è semplice quanto il diffondersi delle piante di riso, della canapa, del bambù e dei giunchi per tutto il mondo. Ma incontrare il dharma è qualche cosa di veramente raro.

Sakyamuni buddha disse: "Quando incontrate un insegnante che parla dell’illuminazione suprema non dovete prendere in considerazione la sua casta; non dovete dar peso al fatto che il suo aspetto sia piacevole oppure no, non dovete ridicolizzare le sue insufficienze, non dovete pensare al suo comportamento. È precisamente perché tenete in gran conto la sua saggezza che gli/le permettete di mangiare ogni giorno cibi che valgono quanto centinaia o migliaia di once d’oro. Dovete fare offerte al vostro insegnante con il donare cibi paradisiaci; dovete rendere omaggio spargendo petali di fiori celestiali. Ogni giorno, per tre volte dovete prestare obbedienza e rispettosamente rendere omaggio al vostro maestro e non permettere che si sviluppino in voi sentimenti di disprezzo o di tedio verso di lui. Quando vi comportate in questo modo [nei confronti del vostro insegnante], certamente apparirà la via dell’illuminazione. Poiché ho praticato in questo modo sin da quando per la prima volta ho assunto la risoluzione [di realizzare la buddità], oggi sono giunto alla suprema e perfetta illuminazione."

Perciò dovete chiedere [insegnamento] agli alberi ed alle rocce, dovete cercare [l’insegnamento] nei campi e nei villaggi. Dovete porre le vostre domande a un pilastro e praticare intensamente con un muro. Molto tempo addietro una divinità chiamata Taishaku prese come insegnante un cucciolo di volpe al quale prestò rispetto ponendo interrogativi a proposito del dharma. Quindi Taishaku ricevette il titolo di "grande bodhisattva", che è un livello spirituale che non raggiunse semplicemente come risultato del karma del suo passato.

Tuttavia quegli ignoranti che non ascoltano gli insegnamenti dei buddha, dicono: "Io sono un monaco anziano e non mi devo inchinare di fronte ad un monaco più giovane che abbia raggiunto il dharma; io ho praticato per un lungo periodo di tempo e non devo prestare rispettoso omaggio di fronte a qualcuno che abbia iniziato lo studio tardi negli anni ma che abbia raggiunto il dharma; mi è stato assegnato il titolo di "maestro del dharma" quindi non devo prestare ascolto e rispetto a chi non ha tale titolo. Io ho l’incarico di sovrintendente del monastero e non devo manifestare umiltà di fronte ad altri monaci che abbiano realizzato il dharma; io sono un alto prelato e non devo pormi in ascolto rispettoso di laici, uomini e donne che abbiano raggiunto il dharma. Io ho realizzato i tre livelli di conoscenza o i dieci nobili livelli [sulla via del bodhisattva] e non devo chinare il capo di fronte ad una monaca neppure se questa ha realizzato il dharma. Appartengo alla stirpe imperiale e non devo prestare omaggio a coloro che sono ministri dello stato o membri di famiglie dalle quali provengano primi ministri, neppure se costoro hanno realizzato il dharma". ("inchinarsi di fronte, prestare rispettoso omaggio di fronte a, prestare ascolto e rispetto, manifestare umiltà, pormi in ascolto rispettoso, chinare il capo di fronte, prestare omaggio" sono i vari modi con cui abbiamo tradotto l’espressione giapponese "raihai", che compare nel titolo. Nella traduzione inglese in questi casi compare sempre la forma "do obeisance before". N.tr.it.). Tali ignoranti mai vedono e ascoltano il buddhadharma perché hanno lasciato la casa del padre per vagare invano lungo le strade di un altro mondo.

In una lontana epoca del passato, durante la dinastia Tang, il grande maestro Zhaozhou, dopo aver preso la ferma risoluzione [di cercare il dharma], intraprese un viaggio a piedi [alla ricerca di un maestro]. Le sue parole furono: "Se incontrerò qualcuno superiore a me, persino se sarà un bimbo di sette anni chiederò [a proposito del dharma]. Se incontrerò qualcuno inferiore, avesse pure cento anni d’età, sarò lieto di istruirlo".

Anche una persona anziana, quando chiede del dharma ad un bimbo/a di sette anni deve mostrare rispetto e obbedienza (raihai). Questo dimostra una grande e rara determinazione, è la risoluzione mentale di un vecchio buddha. Quando una monaca che ha raggiunto la via e che ha raggiunto il dharma compare nel mondo, se un monaco in cerca del dharma, che si dedica alla pratica ed allo studio si unisce alla sua comunità, dimostra obbedienza (raihai) e le chiede a proposito del dharma, è una meravigliosa conquista come quando un assetato trova finalmente l’acqua.

Il maestro cinese della tradizione Chan chiamato Zhixian era un venerabile monaco che praticava sotto la guida di Linji (Rinzai, in giapponese). Una volta accadde che Linji lo incontrò e all’improvviso lo afferrò immobilizzandolo. Al che maestro Zhixian disse: "Comprendo". Linji lo liberò dicendo: "Va bene, questa volta eviterò di bastonarti". In seguito a quell’occasione Zhixian divenne un discendente di Linji. Successivamente Zhixian lasciò il monastero di Linji e si recò presso la monaca Moshan che gli chiese: "Da dove sei appena venuto?". Zhixian replicò: "Dall’entrata della strada". Moshan disse: "Perché non sei venuto dopo averla chiusa?". Zhixian non ebbe parole. Immediatamente prestò obbedienza (raihai) e la salutò come un discepolo riconosce il proprio insegnante. Zhixian pose una domanda a Moshan: "Che cos’è Moshan?". Moshan rispose: "La sua sommità non può essere vista". Zhixian disse: "Che tipo di persona dimora su quella montagna?". Moshan disse: "Non con la forma di un uomo, non con la forma di una donna". Il maestro Zhixian disse: "Allora perché non ti trasformi?". Moshan replicò: "Non sono uno spirito di volpe, perché dovrei voler cambiare?". Di nuovo Zhixian prestò omaggio (raihai).

Zhixian si risolse fortemente [nel conseguire il risveglio] e per tre anni prestò servizio [in un monastero] come supervisore dell’orto. In seguito, quando assunse il ruolo di maestro, disse all’assemblea: "Ho ricevuto mezza cucchiaiata presso papà Linji e mezza cucchiaiata presso mamma Moshan, insieme fanno una cucchiaiata intera. Da allora, dopo averla ben digerita, sono stato soddisfatto appieno".

Ascoltando queste parole e riflettendo con cura sulle tracce lasciate da questi grandi maestri, vediamo che Moshan era stata uno dei principali discepoli di Gaoan Dayu e possedeva il potere trasmesso nelle vene [di un lignaggio di insegnanti] per diventare la "mamma" di Zhixian. Linji, erede nel dharma del maestro Huangbo Yun, possedeva il potere trasmesso in grazia di strenui sforzi per diventare "papà" di Zhixian. Il fatto che il maestro Zhixian prestò obbedienza (raihai) e chiese di essere istruito dalla monaca Moshan Liaoran è una splendida concretizzazione della sua determinazione [di raggiungere l’illuminazione]; è un atto di pura onestà che dovrebbe essere ben chiaro a coloro che iniziano i loro studi quando sono già avanti con gli anni. Questo è ciò che è chiamato "assalire le barriere e sciogliere i nodi".

La monaca Miaoxin era una discepola di Yangshan. Quando Yangshan si occupò di scegliere il responsabile dell’accoglienza e dei rapporti esterni del monastero chiese ai monaci più anziani ed ai vari responsabili attualmente in carica quale persona sarebbe stata adatta per ricoprire quell’incarico. Dopo uno scambio di domande e risposte, alla fine Yangshan disse: "Sebbene [Miao] Xin, il "cucciolo" della [regione fluviale] Huai, sia una donna, ella possiede la determinazione di una persona di grande risoluzione. Ella è certamente la persona qualificata per servire come direttore dell’ufficio degli affari secolari".

Tutti si trovarono d’accordo. E quando, poi, Miaoxin fu incaricata come direttrice dell’ufficio degli affari secolari del monastero, i grandi draghi e gli elefanti tra i discepoli di Yangshan non ebbero alcuna diffidenza. Sebbene non si trattasse di un incarico particolarmente importante, se ne occupò con diligenza come si addice a qualcuno che sia stato scelto [per un incarico di alta responsabilità].

Una volta, mentre Miaoxin svolgeva il suo incarico di responsabile degli affari esterni, diciassette monaci provenienti da Shu formarono un gruppo con l’intento di porsi alla ricerca di un insegnante al quale chiedere la via. Pensando di recarsi sul monte Yangshan, al tramonto chiesero ospitalità nei quartieri predisposti per gli ospiti nell’ala distaccata in cui si trovava l’ufficio per gli affari esterni. Verso sera, dopo il tempo dello studio, mentre stavano riposando qualcuno ricordò la storia di Caoqi Gaozu e delle sue parole a proposito del vento e della bandiera (nella quale Caoqi, a due monaci che discutevano se fosse la bandiera a muoversi oppure il vento, disse: "Nessuno dei due: è la vostra mente che si agita".N.tr.it). Ma i commenti di ciascuno dei diciassette monaci furono tutti lontano da una buona interpretazione del significato. Miaoxin, che si trovava nella stanza a fianco, li udì e disse: "Quanto siete pietosi, voi diciassette asini ciechi! Quanti sandali di paglia avete sprecato [nell’inutile ricerca del dharma]? Il buddhadharma non lo avete ancora visto neppure in sogno!". Un postulante, che aveva ascoltato le parole di riprovazione di Miaoxin nei loro confronti, le riferì al gruppo dei diciassette monaci. Costoro non si offesero per la disapprovazione di Miaoxin. Anzi, si vergognarono della inadeguatezza delle loro parole e comportandosi nel modo appropriato, accesero incensi, offrirono obbedienza (raihai) e rispettosamente domandarono [a proposito del dharma].

Allora Miaoxin disse: "Fate un passo avanti!". Come i diciassette monaci si mossero verso di lei, Miaoxin disse: "Non è il vento che si muove, non è la bandiera che si muove, non è la mente che si muove".

Istruiti in questo modo tutti i diciassette monaci sperimentarono il risveglio. Espressero la loro gratitudine, stabilirono formali legami di maestro e discepolo e subito tornarono verso [la regione] Shu occidentale. In conclusione, nessuno di loro salì più sul monte Yangshan (al monastero di Yangshan). Veramente, questa [impresa] non è qualche cosa che potrebbe essere facilmente compiuta persino da qualcuno nei tre stadi di saggezza o nei dieci nobili livelli. È la pratica della via secondo l’ininterrotta trasmissione da parte dei buddha e dei patriarchi.

E così, anche oggi, quando in un monastero è vacante il ruolo di abate o di capo dei monaci, a ricoprire quei ruoli può essere chiamata una monaca che sembri aver raggiunto il dharma. Di quale utilità potrebbe essere rivolgersi ad un monaco anziano con molti anni di pratica se egli non avesse colto il dharma? Coloro che sono nella posizione di responsabili nelle comunità monastiche devono fare affidamento sul loro occhio chiaro. Invece accade che alcuni, sprofondati (caduti) nel corpo e nella mente di un villano, siano degli ostinati, spesso oggetto di derisione anche da parte delle persone del mondo. A maggior ragione non meritano alcun riconoscimento nel buddhadharma. Certamente vi sarà anche qualcuno che non intende prestare omaggio (raihai) ai maestri che trasmettono il dharma e che sono donne allo stato laico o monache. Poiché costoro non hanno alcuna conoscenza e neppure si sono impegnati nello studio, sono simili agli animali e lontani dai buddha e dai patriarchi.

Quando qualcuno, dal profondo del proprio essere, si pone come obiettivo personale di gettare con abnegazione corpo e mente [nella pratica del buddhadharma], il buddhadharma avrà sempre compassione per quella persona. Persino le persone ignoranti e gli dei hanno un lato che risponde alla sincerità. Come potrebbe essere che il vero dharma insegnato dai buddha possa mancare della compassione che ricompensa [quella sincerità]. Anche la terra, la pietra, la sabbia e la ghiaia hanno un’essenza spirituale che è sensibile alla sincerità.

Attualmente, nel Grande Paese dei Song [Cina], vi sono monache che praticano nei monasteri. Se una di loro ha la reputazione di aver raggiunto il dharma, le autorità emetteranno un editto che la nominerà badessa di un convento. Subito si recherà nella sala del dharma del monastero [per tenere un sermone]. Tutti i monaci in piedi, a partire dall’abate sino all’ultimo, ascolteranno la sua esposizione dell’insegnamento. E saranno i monaci a porle domande. Questa è stata la regola a partire dai tempi antichi.

Dal momento che una persona che ha raggiunto il dharma non è altro se non un vero e antico buddha, quando incontrate quella persona non dovete far caso se nel passato fosse un uomo o una donna. Quando [un antico buddha] vi vede vi tratterà come qualche cosa di nuovo e speciale. E quando vedete [l’antico buddha], dovete dargli ascolto subito, quel giorno stesso. Se una monaca ha ricevuto e detiene il tesoro dell’occhio del vero dharma, allora gli arhat, i pratyeka-buddha, quelli nei tre stadi di saggezza e nei dieci nobili livelli [del cammino di un bodhisattva] verranno, le presteranno omaggio (raihai), le faranno domande sul dharma e la monaca riceverà quel tipo di obbedienza (raihai). Che cosa c’è di particolarmente esaltante in un uomo? Lo spazio è lo spazio, i quattro elementi sono i quattro elementi, i cinque aggregati sono i cinque aggregati. Per una donna è la stessa cosa. Nel raggiungere il dharma, tutti raggiungono il dharma ugualmente. Tutti dovrebbero offrire omaggio e avere stima di chi ha raggiunto il dharma. Senza tenere in conto se si tratti di un uomo o un donna. Questa è la meravigliosa legge del buddhadharma.

Per di più, quello che nella Dinastia Song [in Cina] è chiamato "laico" è un giovane gentiluomo che non ha ancora lasciato la casa (non è ancora entrato nell’ordine monacale). Alcuni vivono in piccole capanne assieme alla loro moglie, altri vivono soli e si mantengono casti. Sebbene si debba dire che si trovano ancora nelle dense foreste dell’illusione (dell’abbaglio), quando uno di loro raggiunge l’illuminazione i monaci itineranti si radunano per prestare obbedienza (raihai) e cercare istruzione, come farebbero con un maestro che avesse lasciato la sua casa (per entrare nell’ordine monacale). E così deve avvenire sia con una donna sia con un appartenente al mondo animale.

Quando qualcuno non ha ancora visto la verità del buddhadharma neppure in sogno, sebbene costui possa essere un monaco dell’età di cent’anni, non raggiunge il livello di un laico o di una laica che abbia raggiunto il dharma. Non dovrebbe essere riverito (raihai) ma trattato secondo le regole del galateo che governano la relazione tra un ospite e il suo ospitante. Ma quando qualcuno pratica il buddhadharma ed espone il buddhadharma, anche si trattasse di una bambina di sette anni, quella persona è una guida ed un insegnante per i quattro gruppi e un padre compassionevole per tutti gli esseri viventi. Una tale persona dovrebbe essere paragonata alla figlia del Re dei Draghi che realizzò la buddità. Dovrebbero esserle fatte offerte e dovrebbe essere porto rispettoso omaggio pari a quello accordato ai buddha e ai tathagata. Questa è un’antica regola nel buddhadharma. Coloro che non comprendono ciò, che non hanno ricevuto la singola (corretta) trasmissione, sono da compatire.

Sezione 28 dello Shoboghenzo.

Scritto a Kannon Dori Kosho Orinji nel giorno della [festa] Seimei, nell’anno kanoe-ne [dell’era] En’o. [5 Aprile 1240].

(La traduzione dal giapponese in inglese è di Stanley Wenstein ed è apparsa sul numero 10 di "Dharma Eye", semestrale edito dal Soto Zen Center di San Francisco. La seconda e ultima parte della traduzione apparirà sul prossimo numero de "La Stella del Mattino").

 

 

Maestro e discepolo nella via cristiana

Luciano Mazzocchi

 

Due scene

Anche questa mattina, sia dopo lo zazen e l’ascolto del Vangelo, sia dopo la preghiera di lode, si è ripetuta la stessa scena. Terminata la funzione religiosa, Raffaele, un giovane italiano che da mesi è qui da noi, si affretta a salutare con l’inchino il luogo sacro e per primo sguscia fuori, soddisfatto di non aver ostruito ad altri il passaggio e di affrettarsi a fare qualcosa di utile in cucina. Invece Shuujuu, il giovane monaco giapponese che pure da alcune settimane vive con noi, si ritira nell’angolo della stanza, fa spazio al sottoscritto, si inchina al mio passaggio e solo per ultimo saluta a sua volta la stanza con l’inchino ed esce. Nel frattempo Raffaele è già all’opera con in mano il pentolino per riscaldare il latte. Questi due comportamenti possono fungere da introduzione alla riflessione sul rapporto maestro e discepolo di questo articolo. Anch’io nella vita mi sono comportato alla guisa di Raffaele; anzi, perfino ho ritenuto che la deferenza verso chi è più anziano o chi è maestro per me non deve mai sorpassare la democraticità, valore che invece ho considerato come il primo per ogni uomo moderno. Ciononostante, all’inchino quotidiano di un giovane giapponese venuto a vivere alcuni mesi con me, anche questa mattina non posso non percepire il richiamo a svolgere con impegno la mia parte verso di lui e verso gli altri. Mi è come uno stimolo di incoraggiamento a essere ciò che sono chiamato a essere. Mi infonde anche un senso di pace e di armonia, conciliandomi con la mia posizione nel tutto.

Dopo aver a mia volta, con queste parole di omaggio, fatto l’inchino allo stile religioso che il rapporto maestro e discepolo ha costruito nei popoli orientali, in particolare in quelli visitati dal Buddismo, voglio descrivere un’altra scena, che credo pure assai bella: una scena che sboccia nell’humus della religiosità cristiana, soprattutto nella sua confessione cattolica. Una quindicina di anni fa’ mi trovai a sostituire il parroco della parrocchia della Risurrezione in piazza Kennedy, a Secondigliano di Napoli. La parrocchia era allora l’unico edificio sacro nel popoloso quartiere detto "La 167", perché costruito in seguito alla ratifica della legge che porta quel numero, per ridare una casa agli sfollati del terremoto dell’Irpinia e anche ad altri sprovvisti di un tetto. Così sorsero quei casermoni squallidi dove decine e decine di famiglie di cultura campagnola si trovarono a vivere in spazi angusti, senza un angolo di cortile, senza un animale domestico da accudire, senza una manciata di terra in cui coltivare il basilico o un fiore. Il parroco, un santo sacerdote nipote del medico Moscati, aveva ricreato nella parrocchia il clima della naturalezza dei rapporti umani, dove ciascuno era considerato importante per l’altro. In tale clima era risorta la bellezza della vita solidale. Ogni mattina alle 9.00 si celebrava l’eucaristia a cui partecipavano centinaia e centinaia di persone, di cui una metà che noi diremmo normali e l’altra metà che invece diremmo buoni figli, quelle persone che non hanno le loro capacità intellettive o volitive sviluppate al completo. Eppure la celebrazione era molto partecipata, con le preghiere dei fedeli veramente tali, elevate spontaneamente da tanti perorando il bene di tutti. Alla fine della messa si formavano tanti gruppetti, di normali e di buoni figli, che, dopo un breve incontro programmatico, partivano a svolgere servizi di volontariato presso anziani soli e altri bisognosi dell’immenso quartiere. Ma l’esplosione della solidarietà avveniva nel pomeriggio, quando alcune decine di universitari volontariamente si prendevano cura del doposcuola dei ragazzi che a casa loro non trovavano l’ambiente adatto per studiare e fare i compiti. Allora l’ampia chiesa diventava una agorà disseminata di tanti piccoli gruppi di ricerca. Nel frattempo il parroco stava in un banco della chiesa e pregava. Sembrava non esserci, mentre c’era con tutta la sua presenza di maestro. I ragazzi facevano tante domande e i volontari davano altrettante risposte: l’ambiente era saturo di quel vociare continuo, per cui al contrario l’ambiente sembrava perfino silenzioso, come quando ci si siede vicino alla corrente di un fiume per riposare. "Il prossimo sabato hai quattro matrimoni da celebrare, ma li ho distanziati due ore l’uno dall’altro, perché potrebbero esserci anche dei funerali, nel qual caso li frammezzi ai matrimoni". Così dicendo il parroco mi diede le consegne della parrocchia. Quel sabato i funerali furono cinque, fra cui due fratelli ammazzati dalla camorra. Mi è rimasta vivida nella mente la scena di quella ventina di buoni figli che, guidati da alcuni normali, correvano qua e là a sostituire drappi neri al tappeto rosso, ceri ai mazzi di fiori, per ben cinque volte. Da parte mia mi sforzavo di avere la stessa snellezza nel passare dalla condivisione della gioia degli sposi novelli a quella del dolore dei parenti e amici della persona defunta. Per ambedue quelli erano momenti unici e irripetibili. Mi sovvenne la raccomandazione di Paolo: "Rallegratevi con quelli che sono nella gioia, piangete con quelli che sono nel pianto. Abbiate gli stessi sentimenti gli uni verso gli altri" (Lettera ai Romani 12,15-16). Io, il maestro preposto alla liturgia della vita e della morte, mi sentivo un piccolo discepolo, semplicemente tenuto per mano dai miei fratelli, soprattutto dai buoni figli.

 

Uno solo è il vostro maestro

"Ma voi non fatevi chiamare "rabbì'', perché uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate nessuno "padre" sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo. E non fatevi chiamare "maestri", perché uno solo è il vostro Maestro, il Cristo. Il più grande tra voi sia vostro servo; chi invece si innalzerà sarà abbassato e chi si abbasserà sarà innalzato" (Mt 23,8-12).

Ma chi è il Cristo, l’unico maestro? "Ora io vi dico la verità: è bene per voi che io me ne vada, perché, se non me ne vado, non verrà a voi il Consolatore; ma quando me ne sarò andato, ve lo manderò.[…] Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera" (Gv 16, 7-12).

Il Cristo è quell’Altro da me che mi incammina nello Spirito. Nello Spirito io sono me stesso, sono libero, sono carità. Quindi, guidandomi nello Spirito, il Cristo si ritira e mi restituisce al mio cammino, affinché anch’io sia il Cristo per qualcun altro. Il Cristo è colui che precede e guida il discepolo; ed è colui che si ritira spingendo il discepolo a fungere a sua volta da Cristo per altri. Il Cristo è carità viva e personale che scorre, mai catalogabile in una sola forma, mai riducibile a un solo aspetto. Scorre lungo la via; o, meglio, con il suo scorrere crea la via. Come ognuno di noi ha sperimentato quando, bloccatosi in una difficoltà, la carità di qualcuno, gli ha restituito la fiducia a camminare. Quel qualcuno era il Cristo.

"In verità, in verità vi dico: anche chi crede in me, compirà le opere che io compio e ne farà di più grandi, perché io vado al Padre" (Gv 14,12). "Sorse anche una discussione, chi di loro poteva esser considerato il più grande. Egli disse: "I re delle nazioni le governano, e coloro che hanno il potere su di esse si fanno chiamare benefattori. Per voi però non sia così; ma chi è il più grande tra voi diventi come il più piccolo e chi governa come colui che serve. Infatti chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve"" (Lc 22,24-27).

Ogni essere umano è la sua individualità e, come tale, è separato dagli altri; ma sul piedistallo dell’individualità sta nobile la sua stessa persona: questa, come un’antenna vivente e religiosa, attua la comunione della propria individualità con l’universo. La persona è l’universo che vibra attraverso le fibre dell’individualità, ed è l’individualità che vibra il rapporto con l’universo. La persona è già, nel suo intimo, maestro e discepolo; è infatti incontro. Nel cammino cristiano il maestro è il Cristo persona divina e umana, che vibra nella comunione con tutte le esistenze. Il Cristo è il maestro di ciò che esiste e ciò che esiste è il maestro del Cristo. Un giorno una donna cananea, quindi pagana per gli ebrei, supplicò Gesù di soccorrere sua figlia gravemente inferma. Gesù, ebreo e quindi nemico dei Cananei, le negò l’intervento, perché "Non è bene - rispose - prendere il pane dei figli per gettarlo ai cagnolini". Ma la donna con il suo cuore più grande dischiuse a Gesù la visione universale, oltre le barriere etniche e religiose: "É vero, Signore, disse la donna, ma anche i cagnolini si cibano delle briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni" (Mt 12,21-28).

Maestro e discepolo nella via cristiana! Tutti i cristiani concordano nel riconoscere che il maestro è uno solo: il Cristo; mentre gli uomini sono tutti discepoli. Ma chi è, e come è il Cristo? Nell’interpretare la funzione del Cristo le varie confessioni cristiane hanno sviluppato sensibilità religiose differenti. La chiesa ortodossa ha coltivato il rapporto fra maestro e discepolo con una cura particolare. L’humus umano del Medio Oriente è particolarmente segnato dal platonismo, per cui il cammino religioso è compreso più come un contemplare la perfezione dell’idea piuttosto che come l’affrontare i limiti della realtà storica. Il monaco, con la scelta del distacco dal mondo e votandosi all’armonia divina, è il testimone principale nella chiesa ortodossa; ne è l’icona. Il popolo lo segue e lo ama. Tra la gente del popolo, anche i sacerdoti ortodossi guardano al monaco per conoscere la via. I sacerdoti ortodossi, per lo più uomini del posto e coniugati, nella comunità fungono piuttosto da incaricati delle funzioni liturgiche. Il monachesimo è la via dell’uomo che si sente fondamentalmente monos davanti a Dio e al creato; è la solitudine esistenziale di ogni essere umano divenuta via religiosa. L’uomo giovane, in religiosa solitudine, segue le orme dell’uomo anziano che gli cammina davanti, in religiosa solitudine. Nell’ortodossia, dalla corrispondenza fra il maestro e il discepolo, lungo il sentiero del loro viaggio in solitudine, sono nate alcune opere molto significative che tutt’oggi illuminano il cammino umano verso la patria divina. Alludo alla Filokalia, a Il pellegrino russo, ecc.

Le chiese protestanti, al contrario, hanno diffidato del maestro inteso come uomo in carne e ossa, riconoscendo tale compito e tale autorevolezza solo al libro delle Scritture. Nessuno può ergersi fra il fedele protestante e le Scritture che egli legge e medita. Le Scritture sono il filo diretto che comunica con il Cristo. Nel protestantesimo la figura che si erge a simbolo di cammino è quella del profeta. Egli non ha discepoli suoi, ma semplicemente a sua volta è il discepolo della via che egli testimonia a tutti, guardandosi bene dal radunare e trattenere qualcuno attorno a sé. Il profeta abita il vuoto attorno a sé; spesso anche la contraddizione e il rifiuto. Un recente profeta del protestantesimo che ha testimoniato la via all’uomo moderno fu Bonhoeffer.

Nella chiesa cattolica il rapporto maestro e discepolo nel Cristo si configura nella comunione dei santi, come recita il credo apostolico. Il Cristo incontra l’uomo nel calore del cammino comunitario. Questo, per eccellenza, è la Chiesa. La Chiesa al suo interno costituisce coloro che occupano i posti di guida, i quali non hanno niente in più di ciò che la Chiesa ha. Il papa non ha niente in più di ciò che ogni fedele ha; semplicemente lo ha nel modo che gli compete per esercitare nella Chiesa la funzione che gli è affidata. Questa comprensione ha maturato nella Chiesa cattolica le sue testimonianze più belle; ma, anche i suoi errori più sofferti, quando ha abusato del mandato comunitario trasformandolo in potere.

Il rapporto maestro e discepolo nella Chiesa cattolica può essere descritto con due immagini evangeliche: la porta stretta e la fractio panis. Con l’immagine della porta stretta indico il rapporto maestro e discepolo in forma personale, a due; rapporto che pur sempre scaturisce dalla comunione ecclesiale, in essa si svolge e per essa si compie. Con l’immagine della fractio panis indico la qualità comunionale del rapporto maestro e discepolo che è carisma nella Chiesa, dentro cui risiede anche il rapporto sotto l’immagine della porta stretta. Nella Chiesa primitiva fractio panis indicava la comunione eucaristica: il sedere tutti attorno alla tavola a mangiare il corpo del Cristo nel cibo e berne il sangue nella bevanda.

 

La porta stretta

L’immagine evangelica della porta stretta è riferita al rapporto maestro e discepolo nella forma personale, a due, che la Chiesa custodisce tuttora nella sua prassi religiosa, in cui il discepolo deve obbligatoriamente confrontarsi con il maestro che egli non ha scelto, ma che la Chiesa stessa gli mette davanti. Il maestro è una persona umana in carne e ossa, con pregi e limiti. Il confronto quindi comporta la sfida a riconoscere l’ideale illimitato della perfezione, della libertà e della carità, in altre parole a riconoscere Dio nel limite di un altro con l’iniziale minuscola, ma così intenso e sincero da incontrarvi l’Altro con l’iniziale maiuscola: il Cristo. Quella sfida conduce a incontrare il Cristo, che è l’Altro attraverso il quale io divengo me stesso secondo il pensiero di Dio. A questo punto è naturale ricordare l’espressione di Doghen: "come versare tutta l’acqua di un recipiente così com’è in un altro" (Bendowa – Il cammino religioso). È il rapporto maestro e discepolo che assomiglia a una generazione religiosa: un rapporto unico, insostituibile, diretto, quotidiano, in cui non si sceglie il padre o la madre che ti deve generare. Ritorno a sottolineare che nella Chiesa tale maestro è costituito dalla Chiesa e opera nel nome della Chiesa. La storia narra che nei primi secoli cristiani, quando ancora l’Impero Romano perseguitava il Cristianesimo, uomini santi si stabilivano nel deserto e là accoglievano i giovani che avevano abbandonato il mondo. Spesso il nuovo venuto, dopo un lungo cammino di sequela, succedeva al suo maestro nella conduzione dell’eremo, oppure a sua volta ne fondava un altro. Nel quinto secolo, mentre si sfaldava la struttura politica dell’Impero Romano, altri giovani si radunavano attorno all’abate per costituire il monastero benedettino. Ogni giovane monaco conservava un rapporto personale con l’abate, ma contemporaneamente viveva in comunità, condividendo la preghiera e il lavoro. "L’abate… fa in monastero le veci di Cristo… Ai discepoli capaci esponga a voce l’insegnamento di Dio; a quelli, invece, duri di cuore e agli animi semplici mostri i precetti divini con il suo esempio… ami tutti nella stessa misura: mantenga nei riguardi di tutti una uguale condotta" (Regola di S. Benedetto).

Il fedele sperimenta un assaggio della porta stretta in occasione della confessione sacramentale. Lì egli confida la sua situazione al sacerdote che l’ascolta nel nome di Cristo e della Chiesa; accoglie le parole che il sacerdote gli rivolge quali parole di Cristo, quindi riceve il sacramento del perdono e del rinnovamento di vita. Il Concilio Vaticano II ha prescritto che i confessionali siano ambienti luminosi e ampi per favorire, anche se in un breve arco di tempo, un vero incontro tra il sacerdote e il penitente.

Il rapporto maestro e discepolo come porta stretta è praticato in modo speciale nei noviziati delle congregazioni religiose, per uno o due anni a seconda delle regole di ogni istituto. Il giovane che intende emettere i voti religiosi deve seguire l’esclusiva guida del maestro dei novizi e non può far riferimento ad altre guide. Il noviziato per sua natura non può essere interrotto o prolungato, né è permesso far ritorno a casa per un periodo, né proseguire altre attività o studi oltre i doveri del noviziato. Nel noviziato saveriano si studia una lingua straniera, perché l’eventuale indisponibilità ad apprendere altre lingua sarebbe il segno evidente che il giovane non è fatto per la via saveriana che comporta il dialogo con popoli di altre culture e religioni. È un po’ come la porta stretta per un confronto vivo e intenso, garanzia di un ingresso autentico nella congregazione. Stralcio dalle costituzioni della congregazione dei Missionari Saveriani alcune norme che riguardano il noviziato: "I novizi facciano, due volte al giorno, la meditazione almeno per mezz’ora, al mattino e alla sera; e così pure due volte al giorno l’esame di coscienza: prima del pranzo e prima del riposo. Pure due volte al giorno facciano la lettura spirituale per venti minuti, in comune od in privato a giudizio del maestro, il quale, tanto nell’assegnare le letture come le meditazioni, procuri di coordinarle per modo di esaurire in un anno tutta una trattazione delle discipline spirituali, giovandosi in questo degli autori migliori per integrità di dottrina e praticità della vita spirituale. Almeno due volte alla settimana, il maestro tenga ai novizi un’istruzione o conferenza intorno alla vita ed ai doveri propri del missionario, al valore ad all’obbligo dei voti religiosi, alle regole e alle costituzioni del nostro istituto, acciocché vengano informati da uno stesso tenore di vita. Per far profitto nella perfezione manifesteranno candidamente al maestro dei novizi i movimenti, le tendenze del proprio cuore, le tentazioni, i dubbi, le angustie a cui vanno soggetti. Ne avranno così lumi e consigli preziosi per vincere … delle cattive inclinazioni... Venga fissato un orario che distribuisca convenientemente il tempo, in modo che in ogni ora del giorno il novizio sappia quel che deve fare, sia in quanto alle pratiche di pietà che alla ricreazione e alle altre occupazioni. Tale orario deve poi armonizzare coll’orario comune nei punti in cui la vita viene a coincidere. Fuori del tempo di ricreazione i novizi osservino il silenzio. Non si permettono visite, se non raramente… Ciò valga anche per  i sacerdoti che entreranno in noviziato".

 

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Canzoniere

 

Natale

Federico Battistutta

 

Siamo già nati

nella caverna, nella paglia?

La povertà ci è compagna

nel segreto del velo

per un attimo

schiarito dal lume;

nella nostalgia nuova,

quando chiudi gli occhi

e apri le mani

e dici: "Eccomi,

terra più grande della terra,

alba e tramonto,

spiga e melograno:

ti ho amata, vita che nasci".

 

 

Fabula

 

Lettera sugli angeli

 

Roberto Carifi

Pubblichiamo questa breve prosa che apre e dà il titolo all’ultimo libro di Roberto Carifi (Lettera sugli angeli e altri racconti, Pistoia, Edizioni Via del Vento, 2001, con una postfazione del filosofo Sergio Givone). Carifi è poeta, saggista e traduttore. Tra le sue più recenti pubblicazioni ricordiamo le sillogi poetiche Europa (Milano, Jaca Book, 1999), Amore e destino e altre poesie (Milano, Crocetti, 2000) e il saggio Nomi del Novecento (Firenze, Le Lettere, 2000). E’ redattore della rivista "Poesia".

 

Tu li conosci, Adrian, loro non tornano indietro, quando decidono è per sempre. Sono luminosi, lo sono troppo. Sarà la vicinanza del sole, Adrian, dove hanno dimora. Ah, loro non piangono, non sorridono, non sono indifferenti. Parlano, a orecchi poco esercitati sembrerà silenzio, un mutismo cupo e ostinato. Per questo, Adrian, ho fatto di tutto per fuggirli, ho cercato rifugio in questa musica che mi martella, per fuggire quel silenzio innaturale. Ecco la mia casa, Adrian, ammesso che lo sia davvero, ammesso che questo mio passaggio somigli vagamente a un soggiorno. Sono stato rintanato per anni nella scrittura, tra poche lettere disfatte come lenzuola. Poi mi sono abituato a una parete bianca, a una preghiera senza Dio, malgrado Dio, rare vertigini notturne, rare illuminazioni. Sono caduto, Adrian, da un giorno all’altro sono precipitato. Questo in genere accade a coloro che restano, che non prendono congedo, quelli che non lasciano andare i morti per la loro strada. Sapresti dirmi, Adrian, perché ci attacchiamo alla vita come sanguisughe? Ha un senso la nostra adesione? Li hai visti, Adrian, sai dirmi qualcosa del loro Regno? Sono caduto, Adrian, smarrito da quei letti sfatti, dall’odore inarrestabile del mare, dagli amori anonimi e furtivi. Da tutto quel parlare, parlare per scongiurare il loro silenzio, la loro trasparenza. Forse li vorremmo opachi, come noi, più stupidi e familiari. Ricordi, Adrian, le nostre lunghe veglie? Se non ci fossero stati loro, da qualche parte, credi che ci saremmo tormentati, credi che l’indicibile avrebbe distrutto le nostre vite? Sono rimasto, Adrian, a differenza del tuo corpo assottigliato, impalpabile, a differenza dei tuoi occhi che ora vedono la trasparenza, senza per questo costringersi a soffrire. Attento, Adrian, non lasciarti ingannare dal mio dolore, sai bene che alla terra siamo disperatamente congiunti, ma tu prendi il meglio dal tuo distacco, tutta la gioia che te ne può venire. Se la felicità esiste sono certo che ti appartiene, che appartiene a tutti voi. Quaggiù gli inverni ricominciano presto, dopo brevi parentesi di corse e di respiro, e di nuovo le preghiere si spiaccicano sulle pareti bianche, senza parole e suoni, e soprattutto senza Dio, malgrado Dio. Avrai sentito parlare di questa rovina, delle guerre che vengono combattute per nulla, senza cause e senza eserciti. Tutto ti apparirà remoto, un’altra storia, un altro tempo. Lo capisco, Adrian, e ti vorrei raggiungere. Intanto mi sto abituando al silenzio, ogni giorno mi esercito all’addio.

 

Voci

Per il testo di "La fine di mediazioni e doppiezze. Due lettere"

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Pensieri in viaggio

Jiso Forzani

 

Quanto segue sono appunti di un recente viaggio in Giappone. Soliloqui che seguono il movimento del viaggio: aerei, treni, panorama in continuo movimento, poco sostare, tanto scorrere: non va cercato, qui, il risultato del lavorio di una riflessione sistematica; ci si può invece trovare, forse, la scia dell’attimo fuggente, che coglie al volo uno lampo d’immagine (fisica e mentale), finestra su un mondo intravisto in corsa e descritto (ritrascritto) a memoria della traccia che ha lasciato. Un graffio sulla coscienza registrato prima che si rimargini e scompaia, e che è occasione allo sbrigliarsi di pensieri.

Il primo pensiero. Chi dice che il solo vero viaggio è quello interiore, probabilmente non ha mai viaggiato davvero, né dentro né fuori: non c’è come lo spostamento del corpo, l’immersione in abiti inusitati (altro clima, altra lingua, altri cibi, altri modi di dormire, pensare, evacuare, sedere... fare insomma le cose normali ab norma - fuori dalla norma) per facilitare il rinnovamento dello sguardo con cui guardar le cose che avvengono, ovunque, dentro e fuori di noi. Consiglio, soprattutto a chi è convinto a priori di trovare tutto il mondo dentro di sé o fra le mura di casa, e in quella culla si appaga, di fare ogni tanto un giretto fra i polverosi sentieri del mondo a rimescolare l’ordine costituito delle proprie idee.

 

Zen-zero….

Il Giappone, quello nuovo, all’altezza dei tempi, si annuncia subito, prima ancora che l’aereo si stacchi dalla pista della Malpensa (il quale aereo, invece, è rigorosamente alitaliano: due ore di ritardo per sciopero degli addetti....più una non annunciata per imprecisati problemi tecnici). L’aereo è pieno zeppo, i passeggeri sono al 90% giapponesi che rientrano da viaggi organizzati. La ragazza seduta alla mia sinistra è una giovane giapponese, che dormirà poi per tutto il viaggio (13 ore) ma prima facciamo a tempo a fare due chiacchiere. É di Kagoshima, all’estremo sud del Giappone, ma vive a Tokyo e lavora per un’agenzia turistica, porta avanti e indietro gruppi organizzati per tutta Europa, domattina atterra a Tokyo e dopodomani sarà già di nuovo indietro, a Parigi. É incuriosita dal fatto che so il giapponese e sono pelato, me ne chiede il motivo. Quando mi sente dire che sono buddista, che ho vissuto in Giappone e ci torno per "motivi religiosi" il suo stupore aumenta: che senso ha che un uomo nato e cresciuto in un Paese saldamente cattolico come l’Italia sia buddista? Sarebbe, di per sé, una domanda non del tutto peregrina, ma per tutt’altri motivi da quelli che incuriosiscono la fanciulla. Le chiedo se la religione le dice qualcosa, mi risponde di no, categorica (mattaku kankei nai - assolutamente niente a che fare). Suo padre era un devoto shintoista, sua zia è una suora cattolica, ma lei, tetragona a tanto esempio famigliare (o forse proprio in virtù di esso?) è semplicemente disinteressata al fenomeno religioso. Poi lapida il buddismo col seguente giudizio: si tratta, per quanto ne sa, di una religione mortuaria, nel senso che si occupa solo della gestione dei defunti: il funerale, poi la commemorazione del settimo giorno dal decesso, poi quella del primo mese, e via a seguire quelle del primo anno, del terzo, del quinto....cosicché nel frattempo un altro della famiglia prende il volo e si ricomincia da capo, in un intreccio di litanie funebri e di commemorazioni senza soluzione di continuità, che affatica e confonde il devoto e ingrassa il prete officiante. Una critica radicale, non c’è che dire, ancorché sommaria, da consegnare, comunque, ai prelati dello zen giapponese, perché ci facciano un pensierino, sull’idea che di loro hanno le giovani generazioni e su cosa fanno o non fanno per sfatarle. Faccio notare alla mia compagna di viaggio che il buddismo, a quanto ne so, è roba per i vivi e non per i morti, ma non sembra crederci neppure un po'. La conversazione continua: certo, ha sentito parlare dello Zen (bella forza! in Giappone ci sono circa 20.000 templi Zen, è quasi impossibile non averne uno nel quartiere di casa) e crede sia una religione sincretistica che mischia e amalgama di tutto un po': buddismo, cristianesimo e quant’altro... Non riesco a capire dove sia andata a prendere questa curiosa idea e lei me lo spiega: Zen non vuol forse dire "tutto" e quindi lo Zen non è forse la religione che mette insieme tutte le religioni? Bisogna sapere che al suono Zen corrispondono in giapponese numerosi ideogrammi, ognuno con un significato differente, e uno di essi vuol dire appunto "tutto". Il fatto è, però, che l’ideogramma "Zen" dell’omonimo buddismo niente ha a che fare, né graficamente né come significato, con l’ideogramma "Zen" che vuol dire tutto: come confondere "amo" (io voglio bene) con "amo" (da pesca). Mi ritrovo così a far vedere a una giapponese, scarabocchiando su una salvietta dell’Alitalia, come si scrive Zen in giapponese! O tempora.... anche solo dieci anni fa sarebbe stato impensabile che una giovane giapponese acculturata (la ragazza parla quattro lingue) potesse confondere due ideogrammi di uso tanto comune, e ignorasse persino l’abc (è il caso di dirlo!) dello Zen che, valenza religiosa a parte, è comunque un elemento fondante della cultura tradizionale giapponese. È un segno dei tempi che mi impressiona, e non stupisca il mio stupore per quel caso isolato: se un giovane giapponese pensa e reagisce in un modo, ciò significa che quel modo è di tutti i suoi coetanei o quasi - in Giappone non esistono casi isolati, quei pochi si riconoscono a vista e la mia vicina non reca i segni dell’anomalia. Verifico così, dal primo approccio, quanto in tanti mi dicono: non c’è quasi più traccia di educazione religiosa in Giappone, esclusa per legge dalla scuola dopo la fine della guerra, in mezza generazione è svanita una sensibilità tradizionale che aveva retto per secoli. Oggi la sola religione del Paese del Sol Levante è il progresso economico e tecnologico: qui tecne ha trionfato, senza bisogno del substrato della filosofia occidentale di matrice greca e della complicità, più o meno volontaria, della religione cristiana. Il mezzo elevato a fine trova qui la sua realizzazione individuale e collettiva: che può esserci oltre, se non la rottura, per usura, del mezzo, e quindi la fine tout court? Chissà... Comunque c’è di che riflettere per gli apologeti della secolarizzazione. È certo un bene che la religione getti la maschera, si sbarazzi dei suoi volti falsi e posticci, e lasci a Cesare ciò che è di Cesare: è un bene che il secolo si riappropri di competenze che gli appartengono e che le religioni istituzionali tendono a usurpare. Ma con giudizio: il furore iconoclasta non è che l’alter ego dell’idolatria: nella foga della spoliazione si può arrivare a credere che nulla di ciò che è sia pertinente a Dio, perché Dio (la religione) è oltre (o prima di) tutto. Questo modo di vedere implica che tutto ciò che è sia di Cesare, implica di lasciare a Cesare tutto. Il corpo del re, se denudato, diviene invisibile, perché non ha forma propria, e allora quasi tutti, bisognosi di vedere "qualcosa", si voltano a guardare il mucchio inerte dei vestiti smessi. Mi viene di pensare, mentre l’aereo vola nella notte e la mia vicina ristora nel sonno la sua noncurante ignoranza, che è meglio forse un vestito leggero, a dare forma al corpo etereo del re, piuttosto di un’incompresa nudità, che invita a cercare ciò che è là dove non c’è.

 

…e vecchi merletti.

Mi pare di averne una conferma nel prosieguo del mio viaggio. Risiedo per qualche giorno in un monastero che è anche un semmon sodo, vale a dire monastero di formazione dei monaci ufficialmente riconosciuto dalla tradizione del Soto Zen. Ciò significa che al termine di un periodo di permanenza più o meno lungo, viene rilasciata apposita certificazione che dà diritto a svolgere determinate mansioni in ambito monastico: sono una ventina, in Giappone, i monasteri di tal genere, e tutti i monaci giapponesi del Soto Zen prima o poi vi compiono il loro periodo di training. Questo, dove mi reco, ha fama di essere particolarmente serio, non tanto per la severità della pratica, quanto per il fatto che i monaci che vi si recano non lo fanno solo o soprattutto per ottenere la certificazione di cui sopra, ma per seguire l’insegnamento che viene impartito. Ne è prova il numero elevato di residenti stranieri, i quali di solito sono meno interessati dei giapponesi alle certificazioni, e il fatto che molti si fermano molto a lungo (il più anziano è qui da ventisei anni) mentre la media di permanenza negli altri semmon sodo non supera i due anni, il minimo necessario per ottenere la minima certificazione.

Il tuffo nella vita monastica, dopo tanti anni di vita "mondana" ha su di me un effetto corroborante: capisco e apprezzo in modo nuovo cosa vuol dire poter dedicare tutto il tempo e le energie alla pratica di vita religiosa comunitaria, senza distrazioni, senza preoccupazioni di altro genere, senza particolari aspettative che non si esauriscano nell’andare a dormire ogni sera. "Al mattino saluto la via, alla sera muoio contento" dice un vecchio adagio. Ma non è di questo che intendo parlare.

Lo stile di vita del monastero è quanto più diverso si possa immaginare dalla vita "fuori": mentre il Giappone rincorre e anticipa, freneticamente e ossessivamente, tutto ciò che è nuovo, moderno, up to date, qui il tempo si è fermato secoli fa, con qualche piccola irruzione di modernità: la luce elettrica, poca e bassa, il telefono nella stanza comune, le lavatrici all’esterno per i panni sporchi…. Per il resto tutto procede indipendentemente, inalterato da ciò che accade all’esterno. Gli abiti, i gesti, i modi di fare le cose e le cose che si fanno sono gli stessi di quando il monastero è stato fondato, nel seicento, sul modello di una regola ancora precedente. C’è molto anacronismo nella vita monastica Zen in Giappone, che risalta soprattutto nel vestiario e negli aspetti cerimoniali, distribuiti lungo tutto l’arco della giornata. I giapponesi hanno voluto significare la continuità della tradizione mantenendo inalterate le forme. Così l’abito monastico ha stratificato come le ere geologiche, ma all’incontrario, dall’esterno all’interno: sopra a tutto la veste più antica, di origine indiana, una semplice stola, sotto il koromo cinese, con le maniche ampie fino a terra e sotto ancora il kimono giapponese, che però nel Giappone di oggi nessun maschio indossa più. Tutto questo applica una specie di patina sull’insieme della vita quotidiana, che nel migliore dei casi è una patina antica, ma spesso è solo un’impressione di vecchio e di stantio.

Eppure quel pochissimo che resta dello Zen in Giappone, escluso il buddismo mortuario di cui sopra che con lo Zen nulla ha a che fare, è attaccato qui, a questo e a pochi altri luoghi, aggrappato agli anacronistici paludamenti come una cimice che si arrampica fra le pieghe delle vecchie vesti monastiche. Senza queste aree protette, forse la specie sarebbe già estinta, e quel che resiste di religiosità, di spiritualità, di vita comunitaria non basata sull’interesse in Giappone sarebbe ancora più marginale e ignorato. Del resto è giusto così: le forme religiose che trionfano cavalcando il trionfo del mondano sono religioni mondane, venute a patti con qualcosa da cui, per il solo esser venuti a patti, si è inglobati e sconfitti. La religione dovrebbe essere la testimonianza, nel tempo, di ciò che il tempo non intacca. In tempi di resistenza, piuttosto che adeguarsi allo spirito dei tempi, tanto vale forse mantenere viva la testimonianza che era fresca in passato e che oggi inevitabilmente denuncia l’usura del tempo.

 

Ipocrita inchino

Passeggio nel cimitero che risale la montagna alle spalle del monastero. Le tombe sono parallelepipedi di pietra grigia, molto simili l’una all’altra, distinguibili solo per il nome della famiglia, inciso in verticale nel marmo. Si inseriscono senza dare troppo nell’occhio fra i pini, i bambù, gli arbusti. La montagna sta cambiando colore, come ogni autunno, è la fantastica tavolozza dei colori di un pittore: schizzi di rosso, giallo, verde, nero, marrone... Mi giro a guardare il monastero, sotto di me: architettura leggera e pesante insieme: grandi tetti di tegole grigie, orientali e ricurvi, posati su una struttura di legno e carta che sembra doversi piegare sotto quel peso a ogni soffio di vento. L’architettura giapponese, sia quella bella, piacevole all’occhio, tradizionale che si trova ancora nelle campagne e nei piccoli paesi, sia quella orrenda, cubi di cemento ammassati a caso negli immensi agglomerati urbani, ha una caratteristica comune: è un unico monumento alla transitorietà, al provvisorio: sembra posata lì, senza fondamenta, quasi a dire siamo di passaggio nel paesaggio, stiamo poco, ce ne andiamo subito. Sarà perché siamo su un’isola (su molte isole) in mezzo al mare, circondati dall’onda, scossi da continui piccoli e grandi terremoti, dove la montagna occupa gran parte della terra-non-ferma e si sgretola e smotta a ogni pioggia e nevicata: sta di fatto che qui si capisce bene che impermanenza non è un concetto ma una descrizione. I pensieri vanno a spasso: mi viene in mente quanto diversa è la nostra architettura europea, e in particolare italiana, trionfo della pietra, inno litolatrico alla stabilità e alla durata, sfida al tempo, alla corrosione, all’oblio. Da dove verrà questa voglia di durare, come e più delle montagne? Certo non dalle radici cristiane, di cui oggi si sente discutere. In effetti i primi a non voler sentir parlare di radici cristiane, a ribellarsi all’improprio addebito dovrebbero essere i cristiani, prima di tutto perché la fede religiosa in genere, e quella cristiana in particolare, implica il non mettere radici in nessun terreno, in nessun ambito umano, per poter essere vento che soffia al soffio dello spirito, e poi perché non c’è nulla di più lontano dallo spirito cristiano del mondo occidentale contemporaneo. Mi chiedo quale strabismo o quale malafede possano indurre a pensare che l’Europa che oggi vuol darsi una carta comune abbia nel cristianesimo il proprio fondamento. La radice del cristianesimo, se così la vogliamo chiamare, è senz’altro nel Vangelo. Che è quanto di più lontano si possa immaginare da un invito a mettere radici: "il mio Regno non è di questo mondo", "il Figlio dell'uomo non ha dove posare il capo", "non fatevi tesori in terra, dove la ruggine..." "guardate gli uccelli del cielo: non filano e non ammassano in granai", "non passerà questa generazione...", "chi non perde la sua vita...", "lascia tutto e seguimi", "date a Cesare"....sono continui i richiami a non stabilirsi da nessuna parte, a non cercar dimora, a intendere la vita come passaggio e continuo cammino, una tunica e una bisaccia e un bastone, anzi no, neppure quello. Pensare che da lì siano venute le concezioni e le ideologie del vivere e convivere civile che oggi dominano in Occidente, con il loro corollario di costituzioni, di leggi codificate, di categorie mentali date per scontate; pensare che la storia, quella fatta di aggressioni e difese, di progresso verso miraggi di mete, di consolidamento dell’acquisito sia il terreno dove quella radice attecchisce e prospera; pensare che le città, i palazzi, le cattedrali e i monumenti "perenni", le ostentazioni di potere, le ideologie economiche e sociali che sistemano il mondo, le sorti progressive del genere umano.... pensare che tutto questo abbia nel Vangelo la propria radice, mi appare, da qui, da questo pezzo di sughero sballottato dalle onde, come la più grande mistificazione, come l’ultimo e più raffinato tradimento, perfidamente travestito da tributo e da inchino.

 

Maschere e facce

Si inchina il controllore entrando nel vagone, chiede permesso mentre avanza per fare il suo lavoro: si volta e si inchina quando esce dal vagone, scusandosi del disturbo arrecato. Sorride e si inchina l’impiegata dell’ufficio postale, un ufficetto di periferia, mentre tira fuori la vasta gamma di scatole in dotazione a ogni ufficio per la spedizione, mentre mi dà copia del prezzario bilingue (giapponese e inglese) con tutte le diverse opzioni e possibilità a seconda del peso, della distanza, del vettore, mentre chiude lei stessa con apposita corda la scatola, la pesa, le applica l’etichetta (farà lo stesso, inchinarsi e sorridere, l’impiegato di analogo ufficio postale di un paesino sperduto, preposto al servizio extra-orario, alle due del pomeriggio di una domenica qualunque: basta suonare l’apposito campanello e compare). Sorride gentile l’impiegata della banca, il commesso del grande magazzino, il bigliettaio della immensa stazione, la passante cui chiedo informazioni. Ringrazia chi scende l’autista in guanti bianchi dell’autobus, la voce registrata che annuncia l’arrivo del treno al capolinea, e quella che annuncia il nome della prossima stazione del metrò e le coincidenze. S’inchina e sorride ognuno che svolge una pubblica funzione in Giappone, mentre ti dà l’impressione (confermata dai fatti) che si sta davvero occupando di te, del tuo immediato benessere, per facilitarti l’esistere lì, in quel momento. D’accordo, sarà una maschera, una facciata. Ma perché, tutte le volte che vado in Giappone (sono al mio ottavo viaggio nell’arco di 23 anni) mi sembra di andare in un luogo gentile e, soprattutto, perché ogni volta che torno in Italia mi par di tornare nel Paese del grugno? Perché là sembran tutti (quasi tutti) cortesi e qui tutti (quasi tutti) incazzati? Quelli, intendo dire, che qui e là fanno gli stessi lavori, svolgono le stesse mansioni? Possibile che qui faccia schifo ciò che là sembra piacevole? Sarà pure una maschera, che nasconde la faccia, il volto verace: ma perché mai un sorriso sarebbe una maschera e un grugno il vero volto? Da che dipende una visione così pessimistica dell’autentica fisionomia dell’umana faccia? E se invece pur sempre di maschere si tratta, di facce di facciata, di facciate di faccia, allora non val meglio sorridere che grugnire? Ammesso e non concesso che di cattivo gioco si tratti, perché non ingentilirlo con un buon viso? Non sarà che a forza di far viso cattivo ci si convince che anche il gioco lo è?

E poi, non eravamo noi i custodi e i testimoni dell’amore per il prossimo, dell’attenzione al vicino, della convivialità fraterna; noi, alfieri del riguardo affettuoso per l’altro, a fronte dei freddi infidi orientali, che si occupano solo del proprio piccolo grande sé egocentrico e onnipervadente e ignorano il valore intrinseco del tu? Mah!

 

Che fai tu luna in ciel?

poema termale

 

Immerso fino al collo nella pozza

d’acqua sulfurea calda fra le rocce

fuori solo la testa all’aria fredda

pungente di novembre: guardo in cielo

profondo nero, la luna, sola, piena:

strappo nel buio

bianco buco ammaliante

che risucchia la vista:

siamo certi che brilla

d’impropria luce?

 

 

 

 

 

Schede

 

 

 

Pietro Barcellona, Le passioni negate. Globalismo e diritti umani, Troina, Città Aperta Edizioni, 2001.

 

Un utile testo di approfondimento, Le passioni negate raccoglie quattro diversi saggi di Pietro Barcellona, membro laico del Consiglio Superiore della Magistratura tra il 1976 e il 1979, deputato al Parlamento tra il 1979 e il 1983, attualmente docente di Diritto all’Università di Catania.

Il lavoro in questione si connota come il tentativo di fornire un’interpretazione multidisciplinare e una riflessione critica circa alcune grandi tematiche che caratterizzano il mondo contemporaneo, tra cui la globalizzazione, l’attuale statuto della "conoscenza" nel suo rapporto con la scienza, la grande questione dei "diritti umani" come elemento che maschera il trionfo "innominato" del potere politico (a sua volta unicamente retto dallo strapotere della "macchina tecnologica"), la negazione delle passioni nella società della tecnica.

Un materiale, questo, che si presenta sicuramente variegato e che risente, a volte, di quella non organicità propria di testi che raccolgono contenuti provenienti da ambiti di indagine diversificati, ma che ciò nonostante restituisce un approfondimento di tratti importanti che interessano l’attuale vivere sociale e personale, che l’autore stesso connota come vivere che sempre più a fatica riesce a trovare le opportune chiavi di lettura per "comprendersi", per leggere cioè la storia non solo delle comunità o dei gruppi nazionali, ma anche la storia dei singoli individui.

Nel saggio che introduce il volume, la riflessione di Barcellona mette a fuoco il concetto di "modernità" (inteso come "negazione" delle passioni umane) e il problema del "governo sociale delle differenze". L’attuale scenario delle società occidentali è così descritto come una "macchina totale", costruita sul calcolo, sul mercato, sulla tecnologia, la quale, se in ogni dove dell’immaginario esalta l’individuo nella sua singolarità e globalità, di fatto si risolve invece nella tendenza alla distruzione delle peculiarità umane, dell’ "essere", delle passioni appunto. Accade così che il liberalismo (in ambito politico) si saldi sempre più al sapere tecnologico ( ormai considerato come forma privilegiata di sapere umano), portando con sé il rischio, per ognuno, di smarrire la possibilità di viversi come "esperienza" di relazione, di gruppo, di comunità, in vista di un dover essere esclusivamente inteso in termini di "singolarità assoluta", di totale autarchia dell’io. E sono proprio le continue domande di senso su "che cosa sia l’uomo", su quali possano essere le basi che garantiscano una autentica ricerca di libertà all’interno delle comunità sociali, a costituire il crocevia di tutte le tematiche affrontate nei quattro saggi (Lo statuto della conoscenza, Mito e ragione, L’universalismo giuridico e la violenza anonima, Globalizzazione ed Europa): si passano così in rassegna i motivi remoti della crisi degli Stati (vedi anche i diversi movimenti "federalisti"…), questa "…impossibilità della sintesi, questa impossibilità della conciliazione che rende sempre più ipotetico il progetto politico moderno di uno Stato e di un nuovo ordinamento" (citazione da M. Cacciari), capaci di restituire autentica libertà ai singoli.

Nello scenario che così si va delineando, la via di salvezza sembra trasferirsi altrove: "…qui appunto il processo sembra compiersi nell’avvento dell’era della Tecnica. Il compimento del destino della libertà sembra portare fatalmente all’esito dell’organizzazione tecnologica, di un sistema totalmente pianificato dell’agire individuale e collettivo in cui la libertà ridiventa pura contingenza priva di forma e di nome". "Via di salvezza", appunto. Anche questa via di salvezza ci obbliga, comunque, al confronto, ci incanta quotidianamente con tutte le soluzioni prospettate dai mille amplificatori di questa "universo" dall’"unico colore" che , neanche tanto lentamente, intride delle sue tonalità anche i nostri giorni. Di passaggio, accenno appena all’interessante paragrafo dal titolo "L’indifferenza del mondo e il mito degli analgesici", dove si sondano le ragioni che hanno condotto all’ultima frontiera della ricerca di analgesici per la psiche, proposti al consumo di massa come soluzione alla realtà del dolore…( contenuto nel saggio "Mito e ragione", indagine sul peccato originale della filosofia occidentale, sul destino dell’Occidente e altro ancora… ), come pure alle pagine conclusive dell’ultimo saggio, nelle quali Barcellona esprime un invito ad approfondire lo studio del meglio della cultura mediterranea (vedi il paragrafo "Il Mediterraneo come ‘luogo sacro’") come apporto alla comprensione ed alla soluzione delle problematiche in precedenza delineate.

A conclusione della ricognizione proposta si offre un’interessante bibliografia che consente di approfondire i diversi contenuti appartenenti agli ambiti politico, giuridico, filosofico, sociologico…, gusti che forse si ritrovano, in qualche pagina, accostati in modo che può apparire talvolta eccessivo, ma sempre, mi permetto di osservare, conditi con intelligenza.

Giuliano Burbello

 

 

Niccolò Ammaniti, Io non ho paura, Torino, Einaudi, 2001.

 

Con questo suo quarto libro, Ammaniti può dirsi arrivato a un’espressività matura e ormai ricca di modelli. Con questa prova, infatti, Ammaniti acquista una prosa quasi vicina ai classici francesi dell'ottocento.

Ammaniti è stato l'antesignano e il maggior rappresentante della letteratura pulp in Italia; quindi questo complimento, per lui, potrebbe anche essere fuori luogo. Non pochi dei suoi fans della prima ora, abituati ad una scrittura frammista di sesso sangue e sfottò a certa letterarietà, si saranno sicuramente sentiti traditi. Il cambiamento, tuttavia, è la regola universale delle cose scritte e vissute.

Michele Amitrano, nove anni, in questa ultima uscita decisamente post-pulp, è il protagonista di una esperienza così intensa che lo segnerà nel profondo. Questa storia, tinta di mistero, si sovrappone alla doppia storia, concomitante e desolante e misera, sì anche repellente, degli adulti.

Michele si trova di fronte ad un segreto. Grande e terribile da non riuscire a raccontarlo. Gli adulti invece, in una campagna desolata e sperduta, tentano il gran colpo, che li farà cambiare vita. Michele, nelle sue gite tra le cascine diroccate, trova un "fantasma": all'insaputa di tutti.

Gli adulti, grandi illusi, gestivano lo stesso segreto, meno misterioso e più delinquenziale.

Nella campagna di un sud d'Italia non meglio identificata, nell'estate torrida, tra colpi di scena sapientemente distribuiti, Michele, attraverso il rischio più estremo, trova in sé l'energia che ci fa lottare contro i mostri; è anche un addio necessario all'età dei giochi e dello stupore. Gli adulti, di cui è tracciato un indimenticabile campionario di insensatezza e insensibilità, sul finire saranno ripescati, sulla soglia della tragedia, sotto i lampeggianti dei carabinieri.

Valeriano Massimi

 

Théodore Monod, Il viaggiatore delle dune, Torino, Bollati Boringhieri, 2002

 

"Come farò, dopo aver costeggiato tanto a lungo il deserto, a lasciarne le frontiere prima di averle potute varcare, a rientrare con questo desiderio inappagato, questa curiosità insoddisfatta?…

 

Ah, carovane, supplicavo, almeno una volta, prendetemi!…

 

Il 15 ottobre 1923 le cupe solitudini del Souehel el Abiod vedevano sorgere dal fondo dell’orizzonte occidentale una piccola truppa. Nell’estremo calore, la carovana, al passo cadenzato dei cammelli, avanzava con ritmo regolare sulla piana grigia e ghiaiosa, disseminata delle cupole scintillanti delle barkane: dieci cammelli, una donna, diciannove uomini, fra cui io. Mi hanno preso, sono stato esaudito."

 

Questo scrive Theodore Monod nel primo capitolo del libro Il viaggiatore delle dune.

E’ il 1923, Monod si trova sulla costa sahariana della Mauritania per compiere le sue ricerche in qualità di oceanografo e biologo marino, è sul confine che separa due oceani: quello d’acqua e quello di sabbia e pietre. Avviene il passaggio "da un mare all’altro", una carovana diretta a sud fornisce a Monod, al tenente B. e ai suoi uomini l’opportunità di raggiungere il Senegal via terra. Inizia così per Monod l’avventura del deserto, avventura che continuerà per tutta la sua lunghissima vita, novantotto anni, al punto che l’anno prima della sua morte era alle prese con l’organizzazione di un viaggio nel Tibesti. Ma andiamo per tappe.

Theodore Monod nasce a Rouen in Francia nel 1902 in una famiglia di pastori protestanti.

Dopo essersi laureato in Scienze Naturali compie i suoi primi viaggi in Africa e all’età di ventun anni è già nel deserto della Mauritania.

Non vado oltre nel raccontare i viaggi e le imprese compiute da quest’uomo straordinario perché sono narrate splendidamente da lui stesso in questo libro, Il viaggiatore delle dune. Monod viene definito come "l’ultimo dei naturalisti", passa infatti dall’essere biologo a geologo o zoologo con estrema conoscenza delle varie scienze, ma il suo grande fascino sta nel fatto che dal suo modo di trattare e di scrivere "da scienziato" traspare chiaramente una sensibilità mistica che si sviluppa e si manifesta soprattutto nelle opere della maturità. Grande sostenitore, fin dalla giovene età, della vita semplice ed austera ( che senza dubbio vive e pratica nel deserto) sviluppa una visione universalista grazie all’incontro con i popoli e i mistici del deserto e mette per iscritto numerose tradizione orali dei popoli del Mali in particolare quella di Tierno Bokar anziano mistico del deserto.

Nel libro Monod racconta i suoi viaggi con lo stile del viaggiatore, la precisione dello scienziato, l’entusiasmo dell’uomo innamorato della natura in ogni sua forma e manifestazione, addirittura, in alcuni passaggi, con la sensibilità del poeta e la profondità del mistico. Il tutto è ancora più avvincente grazie all’uso sapiente che l’autore fa dell’ironia e dello humour.

Nell’opera Così parlò Zarathustra Nietzsche scrisse :"Da sempre i veridici, gli spiriti liberi, hanno abitato il deserto, signori del deserto…". Théodore Monod è stato veramente uno spirito libero uno dei grandi viaggiatori del secolo scorso. Il suo libro "il viaggiatore delle dune", come tutta la sua opera, è "un elogio della vita e del rispetto per tutti e tutto", un grande esempio di libertà.

Alberto Braida

 

 

 

Notizie

 

Seminari, ritiri e incontri presso la casa di Galgagnano (Lodi)

 

1. Seminario di studio condotto da p. Luciano Mazzocchi e da Jiso Forzani: Questo tempo e il cammino religioso

Ogni seminario ha inizio il venerdì sera e termina la domenica mezzogiorno. Sabato: pratica mattutina e serale, studio e lavoro; Domenica mattina: solo pratica (zazen e Vangelo - eucaristia). Per adesioni tel. 0371.68461 o 0371424801. Si sono già svolti i primi due incontri.

III° Incontro (28 febbraio – 2 marzo): Leggere i segni di questo tempo: sistema globale, mondializzazione e cammino religioso.

IV° Incontro (30 maggio – 1 giugno): Vivere creativamente nella propria interiorità i segni di questo tempo e la domanda religiosa: quale cammino?

V° Incontro (4 – 9 agosto): La Grande Legge delle religioni e la ricerca della libertà nell’uomo contemporaneo ". (N.B. il seminario di agosto dura una settimana e, oltre al ritiro, comprende il tempo dedicato allo studio e al confronto).

  1. Ritiri e corsi guidati da p. Luciano Mazzocchi, missionario saveriano

 

Il ritiro (zazen – Vangelo – lavoro – studio – eucaristia) inizia il venerdì sera e termina con il pranzo della domenica; si raccomanda la prenotazione (tel. 0371.68461).

Periodo ritiri: ogni fine settimana che precede la prima domenica del mese e non già occupato dai seminari (vedi sopra): 30 agosto/1 settembre; 4/6 ottobre; 30-31 gennaio/2 febbraio; 4/6 aprile; 2 /4 maggio.

Date particolari per accoglienza:

29 dicembre/1 gennaio - 15/20 aprile.

3. Ritiri guidati da Jiso Forzani, missionario zen

Il ritiro inizia il venerdì sera e termine con il pranzo della domenica; si raccomanda la prenotazione (tel. 0371.424801).

Periodo ritiri: ogni fine settimana che precede la terza domenica del mese (eccetto dicembre e aprile):

13/15 settembre; 18/20 ottobre; 15/17 novembre; 17/19 gennaio; 14/16 febbraio; 14/16 marzo; 16/18 maggio; 13/15 giugno; 18 /20 luglio.

 

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