ANTICO COMUNE DI VISSO - USI CIVICI, STORIA E NATURA GIURIDICA dalle ricerche e dalle pubblicazioni del Dr Felice Venanzoni (1902-1967) |
Scrive il
Pirri: “Fin da remota età spiccava a ridosso di un poggio del Monte
Rotagna o Grotagna nel territorio di Visso, il castello di Macereto,
appartenente ad una famiglia di feudatari che estendevano i loro possessi sopra
un’estesa zona di luoghi circostanti. Poco dopo la metà del 1200, periodo
critico del feudalesimo locale, a scusa del rapido affermarsi dei comuni urbani
e rurali, i signori di Macereto vendettero questo castello”. Anzi, questo
castello figura in due distinti atti di vendita: quello con il quale un tal
Tiboldo di messer Farolfo di Nocria, in nome proprio e della madre Emperia,
cedette il 24 settembre 1255 al Comune di Visso la propria porzione di Macereto
e dei vicini villaggi della Valle Castellana (Nocelleto, Pietralata, Nocria,
Gualdo e Vallinfante) nonché del poggio e dell’Aschio, unitamente ai diritti
feudali ed ai vassalli dei luoghi predetti. L’8 gennaio 1259, cioè meno di
quattro anni dopo la vendita di cui sopra, messer Magalotto di Pietro Magalotto
vende al Comune di Camerino il Castello di Fiastra dove egli abitava, nonché
quelli d’Appennino, Poggio o Serra e di Macereto. Quest’ultimo doveva essere
quasi abbandonato perché nel contratto viene detto che il Magalotti vendeva
anche i vassalli ovunque dimoranti e si diceva pronto ad offrire il suo braccio,
ad oste e parlamento in pro del comune acquirente in ordine al libero possesso
di quel Castello. Tale cessione venne rinnovata tre giorni dopo. Ed a proposito
della cessione di Macereto, furono riservati al Magalotto i “servizi debitali
dei vassalli”, il diritto di abitare nel castello e di tenere questo come
custode del Comune di Camerino, con proibizione agli uomini di Appennino di
costruire fabbriche in posizioni elevate (in aliquo podio) dal vocabolo
Acqua bona sino al Monte Fiegni: cioè da una località sita in territorio del
Comune di Visso sino al Monte Fiegni in località del Comune di Fiastra.
Le due
cessioni avvenute a così breve distanza senza che dagli atti relativi risulti
espressamente il titolo che le giustificava non meravigliano se inquadrate nello
spirito dei tempi. I Comuni cercavano in ogni maniera di eliminare i feudatari
ancora superstiti comprandone i diritti ed impegnandoli in tutte le maniere.
Quindi le due vendite si spiegano supponendo che il Tiboldo non vantasse su
Macereto diritti pieni ed esclusivi come su Nocria, Gualdo ed Aschio di cui
nell’atto di vendita elenca anche le famiglie di sua spettanza, ma vi
esercitasse un semplice condominio derivante dal lato materno, forse a titolo
dotale. La proprietà diretta doveva forse appartenere esclusivamente ai
Magalotti dalla cui stirpe forse discendeva la madre di Tiboldo, Emperia. Quindi, se
tale ipotesi è giusta, le due vendite a due diversi comuni stanno a dimostrare
contrasti fra gli interessati che, non potendoli comporre direttamente e
pacificamente, li lasciarono per la risoluzione ai due comuni acquirenti. Dice l’atto
dell’8 gennaio 1259 (cioè vendita del Magalotti a Camerino): “item dedit et concessit dictus
Domnus Magaloctus ipsi sindico nomine dicti comuni et pro ipso comuni
recipienti, iurisdictionem in casto Macereta, et hominibus qui fuerint de dicto
castro, ubicumque sunt.” E per
Appennino, venduto nello stesso atto si dice: “Domnus Magaloctus condam Petri
Magalocti de Fiastra per se suosque heredes et successores jure proprio dedit
vendidit tradidit et concessit domno meliorato dm. Talenti, sindico comunis
Camerini, nomine et vice dicti comunis et
pro ipsi comuni recipienti, medietatem castri Appennini s. turriset geronis,
podj et burgi, a fossis q. sunt circa ipsum burgum, et castrum infra versus
ipsum castrum, et omnes homines quos habet in ipso castro et eius curia et
districtu et omnes de Appennino, suos videlicit homines ubicumque seunt, et qui
fuerint de Appennino, et eius curis et districtu, homines ipsius domni magaloctu,
cum mansus, servitijs, et usantijs eorundem et omni jure ipsi domino Magalocto
competenti in ipsis Hominibus, et pro ipsis hominibus, et eorum mansis, et
bonis, nullo in eis riservato. Item per Macereto.” (vedi citazione di cui
sopra). E nell’atto
dell’11 gennaio 1259 (conferma del primo) per Macereto si dice: “Item eodem modo d.D.Magalottus
concessit, et submisit d. Sindico nomine
Comunis d.recipienti et dedit eidem Homines Maceretae, et qui fuerunt de
Macereta, et eius Curia, et Districtu ubicumque sunt ad plenam jurisdictionem
hostem et parlamentum, Bandera et follias dativa et collectam salvis et
reservatis sibi debitalibus servitjs ipsorum Hominum, submittendo ipsum Castrum
Maceretae, eius Curiam, et districtum in Curia, Jurisdictione, Synagita, et
districtu dicti Comunis, et promittendo ipsum Castrum Macerete tenere, et
custodire ad servituim Comunis Camerini, salva et reservata sibi, et suis filiis
et haereduìibus habitatione in dicto Castro Maceretae ed servitium et honorem
dicti Comunis”. Da questi
atti risulta evidente che le terre di Macereto, sia quelle che facevano parte
dell’antico comune di Visso, sia quelle che il Comune di Camerino acquistò
con gli atti suddetti, erano sino al 1260 terre feudali dove l’organizzazione
economica era quella caratteristica dell’epoca e poiché negli atti di
cessione di Appennino e di Macereto figurano termini che riecheggiano
istituzioni longobardiche (mansi, curia ecc), dobbiamo pensare che la feudalità
si fosse mantenuta negli schemi rigidi del passato, cioè senza quelle
iniziative di libertà che dovevano condurre alla formazione dei comuni. Da quel
momento cominciarono i contrasti anche armati tra Visso e Camerino per il
dominio preminente delle terre di Macereto (leggi la definizione dei contrasti
che ne’ Magalotto ne’ Tiboldo erano riusciti a risolvere. Nel 1277 i Vissani
conquistarono ed incendiarono il Castello di Appennino occupandone una gran
parte delle terre. Nel 1313 i Camerinesi (Guelfi) marciarono contro Visso
(Ghibellino) ed in tale occasione ripresero il Castello di Appennino ed
incendiarono quello di Macereto caduto anch’esso nelle mani dei Vissani.
Scrive il Lilj nella sua Historia di Camerino che “i Camerinesi mandarono
le loro soldatesche a quella impresa. Ma i Vissani, aiutati dai Collegati, si
mantennero in quella ribellione (alla Chiesa) sino al 1316”. Nel 1401 e
precisamente il 6 maggio, un breve di Bonifacio IX creava Conti di Macereto
Bante ed Apollonio Boncompagni ed i loro discendenti. In tale breve è detto: “Cum itaque, sicut robis relatibus
fidedignis innotint vestri progenitores de terre Rochemacerehte, Spoletane Dioc.
originum traxerunt, ipsaque terra que jam ad solum quodammodo redacta
est solempne alias fortalitium fuerit quam pluribus Nobilibus et incolis
habitatum …. prefatam terram Rochemacerete cum eius edificijs Territorio et
pertinentiis universis comitatum facimus et costituimus auctoritate apostolica
per presentes, volentes ac etiam decernentes quod dicta terra Rochemacerete cum
esiusdem edificiis, territorio, districtu, possessionibus et pertinentijs
deinceps perpetuis futuri
temporibus comitatus Roche macerete vocentur et etiam nuncupentur.”
Da questo
atto deduce il Pirri che a quell’epoca il fortilizio di Macereto era quasi
raso al suolo, ma che però vi dovevano esistere varie case abitate formanti un
villaggio (lu pagese de Macereta). Il Fumi, invece, nella sua prefazione
all’Archivio del Comune di Visso dice: “Distrutta per la guerra la rocca
primitiva, ne sorse un’altra più forte, innalzata a feudo comitale da
Bonifacio VIII; ma di essa nessuna traccia si trova nei documenti del secolo XV”.
Certamente il
Fumi voleva riferirsi al fatto che nei documenti del Comune di Visso non si
trova traccia del breve di Bonifacio VIII che eleva Macereto, e per esso i
Boncompagni che ne avevano il possesso e che erano di là originari, a Conti.
Però evidentemente trattavasi di un feudo giurisdizionale in quanto il
risorgere della fedualità stretta non sarebbe stata permessa dal Comune di
Visso che da tempo lottava con Camerino ed Appennino in modo particolare per il
riconoscimento della sua giurisdizione e possesso del territorio così
designato. Frattanto sin
dal 1356 era sorta la chiesetta che ospitava l’immagine di Maria SS.ma di
Macereto e la tradizione dice e gli atti degli archivi di Ussita e Visso lo
confermano, che in breve la chiesetta divenne meta di pellegrinaggi provenienti
dalle località circonvicine pur facenti parte di comunità diverse (Visso,
Villa S. Antonio, Ussita, Appennino, Fiordimonte, Fiastra, Acquacanina) e non
mancavano le donazioni dei fedeli in terre e danari e oggetti di valore. Ciò
acuì il dissidio tra Visso e Camerino perché ognuno contestava all’altro il
territorio dove sorgeva la chiesetta. E le questioni si protrassero nei secoli
sino a che nel 1521 il Duca di Varano di Camerino, per incarico del Pontefice
non confermò il lodo del Vescovo di Chiusi (dello stesso anno 1521) che
assegnava il Santuario di Macereto a Visso e provvedeva alla delimitazione dei
rispettivi possessi e giurisdizioni. Da questo
momento (1521) non si ebbero contestazioni circa i limiti del territorio delle
Ville di Cupi e di Appennino facenti parte delle due comunità di Visso e
Camerino rispettivamente. Si ebbero solo contestazioni, anche cruente, per la
posizione dei termini che indicavano i confini del territorio e più volte si
dovette addivenire a misurazioni delle distanze fra i termini stessi. I confini del
1521 fra Visso e Camerino o meglio tra le ville delle due Comunità che erano le
proprietarie dei terreni relativi sono rimasti inalterati. Da quanto
abbiamo potuto rintracciare nell’archivio dell’antico Comune di Visso e
dedurre dagli Statuti dello stesso Comune (1461), sull’altopiano di Macereto
erano stabilite in quell’epoca le seguenti località abitate: ·
Cupi (Villa del Comune di Visso) con le
due frazioni ora scomparse di Macchie e di Amiconi: ·
Ulmiti o Olmeto (villaggio del Comune
di Visso) oggi scomparso ubicato in prossimità della località attualmente
detta di S. Macario; ·
Macereto (paese del Comune di Visso)
ubicato secondo noi sul colle di S. Giovanni fronteggiante l’attuale Tempio di
Macereto, verso Cupi dove è memoria che esistesse un castello detto di S. Croce
con vicino un vecchio Monastero dove visse il Beato Ugolino da Fiegni; ·
Castello di Macereto o meglio la Rocca
di Macereto ubicata poco lontana dall’attuale tempio sullo sperone roccioso
che fronteggia Cupi fra il fosso della Tana ed il Rio e dove si rintracciano
resti di antiche mura. Nel complesso
nuclei importanti come popolazione, che presidiavano un’interessante posizione
strategica per le comunicazioni tra la Valle del Nera e la Valle del Chienti.
Difatti Macereto rappresentava in quell’epoca la linea naturale di accesso da
Camerino verso la Valle del Nera e la via più corta e più frequentata per le
comunicazioni tra la Marca di Ancona e l’Abruzzo e Umbria. Per Macereto
passava la strada consolare che univa la Valle del Nera a quella del Chienti ed
al Mare Adriatico. Ora è noto che in antico le vie consolari erano difese e
protette da Castelli che offrivano riparo e difesa ai viaggiatori. Da Visso la
strada consolare raggiungeva Vallestretta di Ussita e da qui per Macereto, Cupi,
Fiordimonte sboccava a Pontelatrave nella Valle del Chienti. Essa rappresentava
l’unica comoda via per uscire dalla conca di Visso e questo secondo noi può
spiegare l’etmologia del toponimo Ussita che pensiamo derivato da Uscita come
lo consentiva la strada in questione che da Terni a Visso era incassata fra
montagne sempre più elevate e che non aveva possibilità di sbocco dalla valle
di Castelsantangelo, chiusa dai Sibillini.
Solo verso la fine della valle di Ussita si profilava il valico delle
Arette, che, sorvegliato dalla Rocca di Vallestretta (ora frazione del Comune di
Ussita), indicava l’uscita da quelle montagne e da quella Valle incassata e
ristretta talvolta fra il fiume e la roccia. Tengasi
presente che le comunicazioni per il valico di Appennino (m. 816) fu messo in
valore soltanto dopo il 1881. In precedenza le comunicazioni tra Visso e
Camerino, oltre che per l’altopiano di Macereto, avevano luogo attraverso la
Forcella dell’Aschio dove passava una strada che, guardata dal Castello del
Poggio (Villa S. Antonio), proseguiva per l’Aschio e di qui per la Valle di
Tazza, sorvegliata dal Castello di Capo d’Acqua, scendeva a valle
nell’attuale punto denominato Casavecchia, proseguendo per Caspriano, dove era
un altro Castello, sino a raggiungere Pievetorina e la Valle del Chienti in
vicinanza di Muccia. Ma la comunicazione più corta rimaneva sempre la strada
consolare per Macereto, dove, in vicinanza di Cupi, si dipartiva altra strada
denominata dei Passatori per raggiungere Fiastra. Tutto questo
accenniamo per dimostrare che Macereto in antico non era un luogo deserto e
disabitato come appare oggi, ma una zona frequentata e popolata abbastanza,
relativamente ai tempi, Tanto abitata che, in un libro dell’antico Comune di
Visso, è indicato come nella prima metà del 1500 il Villaggio di Cupi avesse
oltre 100 focolari e Macereto in Sasso 39. Ciò accadeva quando era già
scomparso dalla scena il villaggio Ulmiti e lo stesso Macereto aveva perduto
molto della sua importanza in quanto molte famiglie si erano trasferite a Visso
e fra queste anche quella dei Boncompagni, Conti di Macereto, che ritroviamo fra
i Consiglieri della Guaita Plebis e fra i Priori di Visso. La ragione
dei contrasti fra Visso e Camerino vanno ricercate nella grande importanza
economica, per i tempi, e strategica di Macereto. Con la pastorizia in continuo
incremento (sono del 1500 i Capitoli dell’arte della Lana inseriti negli
statuti di Visso) e la sempre maggiore necessità di cereali per
l’approvvigionamento delle popolazioni che permanevano in loco, un vasto
altipiano come quello di Macereto con pascoli e terre seminative abbondanti
rappresentava un elemento prezioso per l’economia dei tempi. Inoltre, chi
aveva il controllo di Macereto, controllava la grande strada Consolare e Visso
non poteva dirsi sicuro se non aveva la possibilità di spingere le sue difese
avanzate ai limiti dell’altopiano di Macereto, allo scopo di evitare il facile
accesso avversario nella Valle Ussitana. Sono noti i rapporti intercorrente tra
gli abitanti della valle dell’Ussita ed i Varano i quali, com’è noto,
autorizzarono nel 1381 la costruzione del Castello di Ussita a difesa e ricovero
delle popolazioni abitanti nella Valle, e quindi si comprende come il saldo
dominio di Macereto nelle mani di Visso volesse anche significare la sicurezza
dei rifornimenti di cereali che venivano importati largamente dalla Marca per
concessione particolare dei Papi e dei Duchi che ebbero il dominio di Visso. Quale era la
posizione di Macereto ed Appennino nel periodo susseguente alle vendite fatte
dal Magalotti e da Tiboldo? Com’è noto
il territorio dell’antico Comune di Visso era diviso in cinque Guaite o
contrade con amministrazione propria dei
territori ricadenti nella loro giurisdizione e con rappresentanza ex aequo al
centro, malgrado la diversa estensione e popolazione. Il territorio
comprendente il Castello di Macereto era compreso nella Guaita Pavesorum o
Pagese e nella stessa Guaita erano compresi i Villaggi di Cupi ed Appennino fino
a quando Appennino fu sotto la giurisdizione di Visso. Che intorno
al vecchio Castello di Macereto, venduto da Tiboldo a Visso nel 1255 e dal
Magalotti a Camerino nel 1259, o nelle sue immediate vicinanze sorgesse un
centro abitato e di una certa importanza è dimostrato non solo dagli atti di
vendita, ma anche dalla logica e dalla storia che ci dicono come nella maggior
parte dei casi in vicinanza del Castello erano le abitazioni dei Vassalli e
degli altri uomini adibiti alla coltivazione delle terre del Signore. Inoltre la
costituzione in feudo comitale a favore dei Boncompagni della Rocca di Macereto
nei primi del 1400 sta a dimostrare l’esistenza di almeno un centro abitato,
altrimenti il feudo, sia pur esso di natura giurisdizionale, non avrebbe avuto
la materia a cui applicarsi. L’accrescimento
dell’importanza di Macereto nei secoli, prima con la costruzione della
semplice cappelletta ospitante la statua di Maria SS.ma di
Macereto, poi la
costruzione del Tempio Bramantesco nei primi del 1500 dopo che il lodo del
Varano riconobbe a Visso il sito dove sorgeva il tempietto di Macereto, divenne
tale che verso la seconda metà del 1500 la Guaita Pavesorum o Pagese venne
chiamata con il nome di Guaita di Macereto. Con
l’occasione precisiamo che non abbiamo notizie sull’origine del nome di
Macereto o Macereta come sin dalla più remota antichità venne chiamata la zona
di terreno interessante le Comunità di Appennino, Cupi
e Vallestretta di Ussita. Nei documenti antichi troviamo tale nome
applicato prima al Castello, poi alla rocca, poi alla Chiesa e finalmente alla
Guaita. Sappiamo per certo che il 5 luglio 1552 Paolangeli Bonanno di Sasso
(Ussita) lasciava in operibus S. Maria Macereta un terreno in monte Grotagna
vocabolo le Macere, ciò che indica l’esistenza di un toponimo di vecchia
data. Nel linguaggio locale Macera vuol dire mucchio di sassi e non sarebbe fuor
di luogo pensare che i mucchi di sassi che dettero origine all’Antico vocabolo
di Macereto traessero origine dai ruderi di antichi centri abitati distrutti o
dalla guerra o abbandonati dagli abitanti per località più sicure nei tempi
oscuri dell’invasione Longobarda e successive. Anche un gruppetto di case doveva sorgere nelle vicinanze della vecchia Chiesa: ciò è dimostrato dal testamento che nel 1524 Cristoforo Perangeli di Ussita faceva nella casa annessa alla Chiesa, nominando questa erede universale dei suoi beni con facoltà di poterli vendere per la fabbrica del nuovo Tempio. Va notato che
tra le famiglie che nel 1381 cooperarono per la costruzione del Castello di
Ussita figurano 14 foculare de Pagese Macerete a fronte delle 54 costituenti i
foculare delle contrade a S. Ippolito Infra e a S. Ippolito Supra in cui era
diviso il territorio della Valle Ussitana. Ed infine nel breve di concessione in
feudo ai Boncompagni è detto “prefatam terram Rochemacerete cum eius
edificiis”. Dobbiamo
rilevare che negli antichi documenti noi troviamo due distinte indicazioni di
Macereto come abbiamo già accennato: Macereto in Sasso e Macereto Pagese il che
sembrerebbe indicare due centri abitati aventi lo stesso nome e forse dislocati
poco lontani l’uno dall’altro e ambedue vicini al Castello. La
denominazione di Macereto in Sasso la troviamo anche nel 1815, riportata nei
“Capitoli del Bossolo” di quell’anno, dove cioè sono indicate le norme
consuetudinarie per l’elezione dei principali Magistrati del Comune di Visso e
precisamente dove è detto: ”Il priore della Guaita di Macereto se sarà
cittadino dovrà chiamare un altro cittadino, due della Villa dei Cupi ed uno
della Villa dell’Aschio. Se il Priore sarà della Villa dell’Aschio debba
chiamare due cittadini e due della Villa dei Cupi. Se il Priore sarà della
Villa dei Cupi dovrà chiamare due cittadini, uno della Villa dei Cupi ed uno
della Villa dell’Aschio. Se il Priore sarà di Macereto in Sasso dovrà
chiamare due cittadini, uno della Villa dei Cupi ed uno della Villa
dell’Aschio.” Ciò indica
l’esistenza di un centro denominato Macereto in Sasso e che i rappresentanti
della Guaita di Macereto nella carica dei Priori del Comune di Visso erano
designati di volta in volta tra le persone delle Ville costituenti la Guaita
stessa. La
particolare situazione territoriale della Guaita Pagese prima e Macereto poi
pone in pieno la questione dell’appartenenza di Appennino. Difatti,
considerando le attuali confinazioni fra il gruppo di Villaggi di Macereto e
Cupi della Guaita suddetta ed il villaggio dell’Aschio, facente esso pure
parte della predetta Guaita, non c’era continuità territoriale perché fra le
terre di Macereto e Cupi da una parte e quelle di Aschio dall’altra
s’incuneavano quelle di Appennino, il che dati i tempi non poteva essere che
fonte di gravi contrasti e di continue difficoltà che sarebbero state
completamente eliminate se il territorio di Appennino, in tutto o in gran parte,
avesse fatto parte della giurisdizione Vissana. I documenti
storici ci parlano della distruzione del Castello di Appennino effettuata dai
Vissani nel 1277. I documenti amministrativi del 1500 ci indicano invece la
posizione di Appennino che considerano incluso nella giurisdizione vissana. Infatti nella
Rubrica XV del libro I° degli Statuti di Visso nella compilazione del 1461, che
rimaneggia ed aggiorna gli Statuti anteriori del 1375, rubrica che s’intitola
“De electione Gualdariorum”, cioè dei guardiani dei boschi, si legge: “in
Guaita Paesorum sex: duos in paese Aschi, unum in paese Appennini, unum in
“paese Maceretae et duos in paese Cuporum.” Dal che si
deduce che il paese Appennini era compreso nella Guaita Paesorum del Comune di
Visso insieme a Macereta, Ascio e Cupi. Nella Rubrica
LXVI del libro IV° degli Statuti suddetti dal titolo “De forensibus
transeuntibus has senaites cum bestiis”, riguardante il divieto al
“forenses cum aliquibus bestiis in districtu terrae Vissi, in monte Grotagnae
non transeant has senaitas cum bobus aratoriis et vitulis sugentibus lac et
somariis dumtaxt exceptis” . E delle trasgressioni: “inquirat et
inquirere teneatur vicarius domini capitanei quolibet mense; et suum notarium,
et famulus mictat saltem duabus vicibus in mense, quorum relationi stetur,et
habeat medietatem banni. Et predicta notificentur sindico, et massariis de
Apennino infra mensem.” Non vediamo
per quale motivo si dovesse notificare al “sindico e ai massari di
Apennino” l’eventuale infrazione se il paese di Apennino non
faceva parte della giurisdizione Vissana. La disposizione di questa rubrica
lascia capire che Appennino faceva parte del Comune di Visso. In un
Consiglio della Comunità di Visso tenuto nel 1510 noi troviamo elencati, fra i
vari consiglieri, anche quelli del Paese di Appennino distinti e separati da
quelli della altre Guaite di Visso; nel catasto del 1475, esistente
nell’antico Comune di Visso, sotto la dizione Guaita Paesos, noi troviamo
indicati come proprietari di terre accatastate: in Appennino n. 30 = De Macereto
i Visso n. 3 = de Macereto in Sasso n. 32 = De Villa Cuporum e di Villa Aschi.
Ciò significa che nel 1475 una parte del territorio di Appennino faceva parte
del territorio della Guaita Paesos di Visso ed i proprietari relativi pagavano
la dativa a Visso. Rileviamo in questo catasto le due diversi indicazioni di
Macereto, quella di Visso e quella in Sasso, e poiché nello stesso catasto
troviamo elencate a parte nella Guaita Uxita il Villaggio di Sasso (o meglio i
Sassi), dobbiamo escludere che con la denominazione di Macereto in Sasso si
volesse indicare il Villaggio del Sasso, facente parte della Guaita di Ussita
sopra indicata. In un elenco
dei fuochi del 1500 (famiglie) troviamo indicato per Macereto in Sasso
complessivi 20 focolari contro i 39 della Villa del Sasso ed i 144 della Villa
dei Cupi. Quindi
Appennino sino alla prima metà del 1500 e forse meglio sino al lodo del Varano
del 1521 dovette far parte del Comune di Visso, o quanto meno una parte del suo
territorio era compreso nella giurisdizione di quel Comune insieme a Macereto e
quindi soggetto alle stesse norme consuetudinarie e legislative dell’epoca
riguardanti l’uso dei pascoli e delle terre seminative. Anche la rub.
67 del Libro IV° degli Statuti di Visso conferma l’esistenza nel 1461 almeno
di un paese rispondente al nome di Macereto. Dice tale Rubrica: “Item
statuimus quod homines de Macereta habentes capannas ibidem possint cum eorum
bestiis ire et redire per viam recte ad Vallem Uxitae, et apud dictas capannas
suas bestias retinere, sine paena, dum tamen has senaitas non excedat a
casarenis supra, et ad fagitum”. Qui la parola “casarenis” indica
proprio l’esistenza di un centro abitato. Come abbiamo rilevato di questo
abitato di cui tante tracce troviamo nei documenti di archivio non rimane sul
terreno traccia alcuna; con molta probabilità doveva essere ubicato sul Colle
di San Giovanni che, come abbiamo detto, è quello attualmente ubicato a fronte
del Tempio di Macereto e dove si
rintracciano notevoli mucchi di sassi, forse residuo di antiche abitazioni
distrutte. Comunque ci sembra certo che esso non poteva essere ubicato nelle
immediate vicinanze dell’attuale Tempio di Macereto perché allora la supplica
del Fattore di Macereto di essere autorizzato a vendere pane e vino ai
visitatori del tempio non avrebbe avuto ragione di essere per la vicinanza del
paese in questione. Difatti nel
rescritto del Cardinale Visconti Alfonso che nel 1602 riordinò
l’amministrazione di Macereto, risulta che la Comunità e gli uomini della
terra di Visso domandarono la moderazione fra l’altro della seguente
disposizione data dal predetto Cardinale: “Et primo circa al capitolo che
comincia non potrà vendere né pane né vino ad alcuno, si supplica che non
essendo la detta Casa collocata in luogo di passo, ma in montagna, che perciò
voglia restar servito in favore di detta Comunità concedere che uno dei
Ministri che dovrà risiedere in detto luogo possa tenere pane e vino per
servitio di coloro che vi capiteranno.” Dunque
attorno al Tempio di Macereto nel 1600 come oggi non c’erano abitazioni
all’infuori del Palazzo detto delle
Guaite, presumibilmente ancora non
completamente ultimato: quindi Macereto in Sasso doveva essere ubicato altrove,
forse ai margini della strada Consolare che dal valico delle Arette portava a
Cupi o meglio che dal trivio di Grotagna porta a Cupi passando vicino a quel
Colle di San Giovanni sopra citato. Ciò è confermato dalla rub. 66 e 39 del
Libro IV° degli Statuti più volte citati. La Rubrica 39 indica fra i confini
della Selva Plagiarum Careschi, “posita versus tribium “Grotagnae a via
qua itur ad tribium supra” e
la rubrica 66 dice: a bagno Maceretae ultra verso Maceretam, a tribio collis
gentilis citra versus tribium Grotagnae, et a dicto tribio prout trait viam quam
itur ad Villam Cuporum.” La parola
“tribium” è di origine longobarda e sta ad indicare un gruppo di case posto
all’incrocio di più vie. Attualmente, poco dopo la località Arette di
Ussita, noi troviamo un nodo stradale dal
quale si dipartono le seguenti strade: ·
una che va verso il tempio di Macereto, ·
una che va verso Cupi passando in
vicinanza del Colle di San Giovanni, ·
una terza risalente la montagna verso
la Forcatura del Tassito ed i prati di Pao, ·
una verso i Casali di Ussita. In vicinanza
di questo nodo stradale si notano molti mucchi di sassi e l’esistenza poco
lontano di aie lastricate (le così dette arette), lascia presumere un antico
centro abitato ora distrutto. Che il nodo stradale in questione possa
identificarsi con il trivium Grotagnae è suggerito anche dal fatto che gli
abitanti di Villa S. Antonio di Visso, i cui seminativi di alto monte
raggiungono Macereto, chiamano Monte Grotagna quella parte del monte che i
Vissani chiamano Careschio e che si protende verso il Tempio di
Macereto. Abbiamo
indugiato in questo esame circa la situazione di Appennino e l’ubicazione di
Macereto perché esso ci servirà per identificare le varie caratteristiche
della natura giuridica e degli usi gravanti le terre del comprensorio di
Macereto. L’EVOLUZIONE
DELLA PROPRIETA’ FEUDALE. Nel periodo
dei Re Longobardi le terre si trovarono in possesso di poche persone che
l’avevano avute in concessione o
per usurpazione, ed è largamente documentato che nel periodo Carolingio e degli
Ottoni i patrimoni dei diversi signori feudatari si era formato soprattutto ai
danni del patrimonio regio: anzi, sotto gli Ottoni, la maggior parte di esse
passò nelle mani dei Vescovi. I diplomi del X secolo non fanno menzione che di
terre pubbliche concesse ai feudatari specialmente ecclesiastici. Questi signori
erano molto gelosi di queste proprietà e si affrettavano ad ottenere la
riconferma del loro possesso quando ad un sovrano ne succedeva un altro. Le
terre di questi signori, sia che si trattasse di secolari o di ecclesiastici,
comprendevano anche le terre delle popolazioni delle quali i naturali ne avevano
avuto il dominio sino a che gli invasori non glie lo avevano tolto
violentemente. Come è noto, queste terre potevano raggrupparsi in due specie.
Di una il Sovrano aveva il pieno dominio e ne disponeva come proprietario
assoluto ed esclusivo e le utilizzava per far pascere i suoi numerosi greggi o
le dava in godimento a privati o alle popolazioni dietro corresponsione di una
tassa variamente denominata a secondo dell’usa che delle terre stesse se ne
faceva, benché non fosse infrequente il caso di concessione gratuita. Sulle
altre il Sovrano esercitava invece un alto dominio accordatogli dalla legge,
dominio comprendente anche le poche terre di natura privata. Ed era in forza di
tale suo diritto eminente che egli, in certe circostanze, ne poteva disporre a
suo beneplacito. Ma con la
decomposizione dello Stato e con il trapasso dei poteri pubblici nelle mani dei
feudatari la proprietà collettiva subì una vera e propria trasformazione.
Scomparì la distinzione tra le due specie di terre dipendenti dalla corte
Regia, ossia di quelle strettamente fiscali e di quelle appartenenti alle
popolazioni perché si fusero in unica categoria, allo stesso modo che nel
territorio feudale le diverse classi di
popolazione si erano livellate e confuse. Pertanto il Feudatario non riconobbe
più la distinzione fra le due categorie di terre e le sottopone entrambe, o
tenta di sottoporle ad un unico trattamento: l’imposizione della tassa su
tutte le terre, anche su quelle collettive. Soltanto una concessione speciale
del feudatario poteva esonerarle da tale tributo come già in precedenza si era
verificato all’epoca dei Re germanici e franchi. Tutto questo
però non avvenne pacificamente e le popolazioni cercarono di tutelare i loro
diritti in tutti i modi, ma con esito vario, come risulta dai documenti
interessanti l’Italia Centrale. La popolazione cercò in ogni maniera di
sostenere il suo diritto sulle terre e spesso gli usi civici non furono altro
che la trasformazione dell’antica proprietà collettiva provocata dal
feudalesimo. Talvolta gli usi assumono la veste di una concessione feudale e
sotto tale aspetto hanno i caratteri di concessione signorile ed in questo caso
trovano la loro origine giuridica ed economica nello stesso ordinamento feudale
e nelle nuove condizioni agrarie. E’
difficile stabilire quando l’uso civico abbia l’una o l’altra origine
perché il feudatario, diventato padrone assoluto del territorio a loro
soggetto, si affrettò a dare agli usi la forma di concessione graziosa. Però
in ogni caso, in questo periodo, l’uso non ha soltanto carattere di
integrazione dell’economia agraria (come era stato nel periodo romano) ma
assunse un carattere sociale ed economico. Difatti il
potere politico passato di fatto nelle mani del feudatario si era talmente fuso
con la proprietà delle terre da far sembrare che il territorio feudale
presupponesse ed importasse la sovranità. E di fatto il feudatario pesava sulle
popolazioni soggette come padrone delle terre e come sovrano. Nelle sue terre
tutti dovevano lavorare per lui ed ogni cosa veniva rivolta a suo profitto.
Entro i confini del suo territorio egli era lo Stato, era il Sovrano al quale
tutti dovevano fornire i mezzi necessari per la vita dell’organismo politico
ed economico che egli rappresentava. Il feudatario
dunque, padrone del suo territorio, signore delle persone in esso residenti,
alla stessa guisa che concedeva ai suoi terrazzani, a titoli diversi, porzioni
di terreno per dissodarle senza essere costretto ad impegnare alcun capitale al
di fuori della terra, faceva ai medesimi altre concessioni di carattere generale
che tendevano alla soddisfazione di altrettanti bisogni. Noi sappiamo
che, in relazione ai tempi ed alle diverse guerre ed invasioni,
sorse la necessità della difesa e quindi per la protezione dei beni e
delle persone si costruirono in punti strategicamente importanti castelli e si
rafforzarono le difese tutte delle città. Quindi le antiche corti ed i villaggi
si trasformarono in castelli ed anche i conventi, all’ombra dei quali erano
sorti borghi popolosi, si circondarono di mura e di torri entro cui se ne stava
il feudatario ecclesiastico. La fondazione e l’incremento dei castelli aveva
anche indubbiamente un carattere politico e poiché essi sorsero a preferenza
sulle strade o nelle loro immediate vicinanze, essi giovarono molto alla loro
sicurezza. In questi castelli si raccoglievano le popolazioni costituite dai
servi e rustici soggetti al signore per diritto di proprietà e dediti al lavoro
della terra o alla custodia degli armenti, nonché dei semi liberi legati al
proprietario da un contratto che li attaccava alla terra con un vincolo
restrittivo della loro libertà, anche se volontario. Risiedevano sul territorio
in una specie di consorzio di lavoro, si dividevano le contribuzioni dovute al
signore e godevano in comune terre boschive e pascolive. C’era anche una
categoria di persone libere ma dipendenti per titoli feudali che formavano una
classe economica socialmente più elevata dell’altra in quanto era costituita
da antichi arimanni (uomini liberi) costretti dalle vicende dei tempi a
raccomandarsi con la loro proprietà (allodio) al signore, o erano coloni o
servi fuggiaschi o riscattatisi, che avevano avuto in concessione o in feudo una
terra coltivabile dal signore che li aveva accolti. Queste
diverse classi, come ben s’immagina, erano in contrasto economico fra loro:
contrasti che, a seguito del movimento di rivendicazione popolare, degenerarono
in lotte anche nel campo politico determinando la formazione dei primi elementi
del comune rurale. Però con
l’incremento dei castelli feudali cominciò anche ad aumentare la coltivazione
delle terre perché i signori laici ed ecclesiastici cercarono in tutti i modi
di favorire ed estendere la coltivazione delle terre, specie di quelle incolte e
ciò fecero promettendo ai lavoratori esenzioni dai servizi feudali e con
concessione degli usi di pascolo e di legnatico e con distribuzione di terre per
costruzione di case o da coltivare. Quindi aumentò la superficie delle terre
interessate dalla coltivazione e quindi alle terre già date a colonia o a
livello agli abitanti delle corti signorili, che era sufficiente per le loro
necessità essendo dediti in prevalenza alla pastorizia, si aggiunsero le altre
terre poste a coltivazione allo scopo di aumentare i prodotti del signore e
controbattere le azioni delle prime associazioni comunali che già si
cominciavano a delineare pericolose. In dipendenza
dei diritti comuni gli uomini di una stessa terra o di terre vicine finivano per
essere legati da uno stesso vincolo associativo che variava a seconda
dell’entità dei diritti stessi. Alcuni avevano soltanto l’esercizio degli
usi sulle terre feudali, altri possedevano e godevano le terre ad essi concesse
in enfiteusi collettive, altri infine avevano un vero e proprio diritto di
proprietà sulle terre da essi possedute.
Gli associati della prima specie vivevano generalmente in quelle piccole
borgate, isolate nelle pianure e nei monti, spesso indifese e talvolta munite di
un piccolo castello che il signore non abitava abitualmente. Erano popolazioni
che lontane da ogni movimento di vita civile, anche feudale, sentivano tutto il
peso e l’oppressione del regime stesso. Lavoravano e godevano in base ai
contratti le terre del loro signore ed esercitavano gli usi civici nelle zone e
con le limitazioni da lui imposte. Erano popolazioni dove ormai diritti e doveri
si erano livellati ed erano unite in comunità oltre che dal vincolo topografico
e di vicinato, anche da quello economico derivante dall’esercizio degli usi
e dall’obbligo di corrispondere solidalmente allo stesso padrone un
tanto in denaro o in prodotti e di prestare sempre collettivamente e
solidalmente certi determinati servizi alla corte signorile, fra i quali la
Guaita o guardia. Tutto questo creava in potenza comunità rurali pronte a
diventare tali non appena si fosse pronunciato un movimento di emancipazione: ciò
che, com’è noto, si verificò
col sorgere dei Comuni. Un colpo
decisivo al feudalesimo così inteso fu dato nell’Italia Centrale dall’azione di Innocenco III che nel 1207 riuniva a
Viterbo un parlamento di tutti i Vescovi, Conti, Baroni, Podestà e Consoli
(ossia di tutti i feudatari e Comuni) dei patrimoni di Tuscia, Spoleto e Marca
di Ancona: e dopo aver fatto prestare agli intervenuti giuramento di fedeltà
alla Chiesa, promulgò uno Statuto nel quale, riaffermando i diritti della
Chiesa, indiceva la pace del territorio e riservava ai rettori pontifici
l’appello dei giudizi criminali e, mentre disarmava del tutto la feudalità,
la riconosceva e le dava una costituzione giuridica. Naturalmente
la pace rimase una pia opinione ma la feudalità fu effettivamente
irreggimentata. Però per
quanto il feudatario fosse il signore di tutto il territorio feudale, tuttavia
il suo diritto sulla terra rimaneva soggetto, come in passato, alla necessità
di assicurare agli abitanti del
feudo l’uso della terra e la possibilità di un lavoro. Gli uomini del
Castello o della Terra avevano un diritto preminente al lavoro sulle terre del
territorio del feudo pur essendo tenuti a corrispondere al signore le “partes
agrariae” di tutto quanto la terra producesse. Facevano eccezione soltanto le
terre delle “manualia”, cioè i beni allodiali del feudatario sottratti a
qualunque diritto colonico o civico, tenuti in economia dal signore che li
faceva lavorare dai servi a dai suoi terrazzani mediante le “operae” da
questi dovute. Se questi “manualia” erano costituiti da terre incolte o
boschive, venivano destinate per suo esclusivo uso costituendole in questi casi
in “bandite” o “riserve”. Nel feudo i “manualia” avevano però
estensione ristretta, mentre la grande massa delle terre formava un corpo
compatto ed unito comprendente la quasi totalità del territorio. Il principio
comune che domina queste terre è il diritto al lavoro degli Uomini del Castello
sulle terre del medesimo appartenenti in dominio e giurisdizione al feudatario. Ecco perché
negli atti di vendita di Tiboldo e di Magalotto da noi citati oltre che le terre
vengono venduti anche i vassalli e gli uomini di pertinenza del feudatario,
ovunque essi si trovino. E’ storia
che il sorgere del Comune rurale riuscì a temperare le condizioni dei
rapporti fra il feudatario e gli abitanti tenuti a corrispondergli canoni o
servizi più svariati. Ma oltre al temperamento dell’esercizio del diritto di
proprietà assoluta del feudatario, ne troviamo un altro che colpiva
direttamente e sostanzialmente il diritto stesso in quanto lo annullava o lo
demoliva notevolmente. Intendiamo parlare degli Statuti, detti nei primi tempi
comunali, Capitoli, che tolsero sempre più la possibilità di arbitri al
feudatario e sanzionarono la diminuzione delle opere richieste ed i servizi di
carattere pubblico imposti in precedenza ai vassalli. Quindi lentamente, specie
nelle Marche e nell’Umbria, dove i Vescovi non avevano il titolo di Conte ed i
signori laici erano numerosi e potenti, i Comuni vennero in possesso della
giurisdizione dei medesimi. Ed anche lentamente i Comuni rurali passarono dalle
dipendenze del feudatario all’indipendenza prima ed alla dipendenza poi del
Comune urbano dominante (nel caso nostro Camerino) e poi della Chiesa. Per quanto ha
tratto la situazione delle terre nel periodo comunale, risorse il concetto
romano di proprietà: ma nella pratica e nella realtà essa continuò come per
il passato ad essere soggetta a molte restrizioni e vincoli. Proprietà
fondiarie piene e libere nel senso classico della parola se ne ebbero poche e
l’allodio costituì l’eccezione. Il Comune, per quanto avesse cercato di
abbattere il feudatario, non vi era riuscito che imperfettamente ed in molti
luoghi lo stesso Comune non potette essere altro che il continuatore della
politica economica e sociale feudale. Inoltre nelle contrade più alpestri e più
povere dell’Italia Centrale e della Romagna, la feudalità non poté essere
assoggettata completamente e quando dovette cedere innanzi alla potenza del
Comune, il signore perdette in tutto o in parte l’antico potere politico, ma
spesso potè conservare i suoi diritti dominicali sulle terre feudali e quindi
il feudo, in questo caso, divenne un vero e proprio dominio patrimoniale, che
talvolta successivamente il Comune ebbe interesse ad acquistare. Inoltre la
politica economica dei Comuni non variò al punto da trasformare radicalmente la
proprietà e quindi, allo sviluppo dell’organizzazione comunale nelle campagne
corrisponde un analogo sviluppo nell’ordinamento delle terre, particolarmente
in quelle collettive. Nelle Università dove fu raggiunta una maggiore e più
salda organizzazione comunale, il collettivismo agrario perdette l’antica
veste feudale per trasformarsi in
altra forma collettivamente più adatta alle nuove condizioni sociali (demani
comunali). Ne va dimenticato che i nuovi fattori economici e sociali agirono
sulle terre collettive del feudo in
modo da trasformare una parte di esse in proprietà libere del Comune e, per
quelle migliorate e recinte, in proprietà private. E’ anche
facilmente rilevabile dagli Statuti medioevali e moderni come nei castelli
baronali si siano costituiti veri e propri demani comunali, ossi terre la cui
proprietà, tutela, amministrazione e disciplina spettava all’Ente Comune,
mentre il godimento, variamente limitato e regolato, rimaneva agli Uomini
dell’Università. Come abbiamo
accennato, in molti casi i Comuni riuscirono a costituire o ad ampliare i loro
demani comunali venendo in possesso di interi territori feudali con i relativi
castelli in seguito ad acquisti fatti dai Signori bisognosi o indebitati o
timorosi della crescente potenza comunale. E non è raro il caso che popolazioni
avessero a modestissime condizioni il possesso di interi territori feudali da
Signori che abbandonavano la campagna per la Città e che si trovavano nelle
condizioni di non poter più fronteggiare le continue e sempre maggiori esigenze
delle popolazioni stesse stabilite sul loro territorio. Gli acquisti
di Visso e di Camerino ne sono la chiara riprova e si inquadrano perfettamente
nel tempo, per quanto i motivi per cui Magalotto e Tiboldo cedevano i loro beni
non siano indicati nell’atto. Come si
esplicava praticamente il diritto al lavoro delle popolazioni residenti sul
territorio del feudo prima e del Comune poi? Con l’esercizio del diritto di
semina conseguente di quello di cesare, con la colonia perpetua, con il diritto
di pascolo e di legnatico nonché di altri usi minori.
Le fonti dell’uso civico di semina abbondano e sono limpide e precise
nell’età Comunale, specialmente nel Lazio, mentre nelle altre regioni dello
Stato Pontificio ebbero in modo speciale carattere di generalità gli usi di
pascolo e legnatico. Però anche nei paesi dove il “jus serendi” veniva
largamente esercitato, difficilmente se ne faceva menzione negli Statuti e nei
documenti, per la ragione che lo stesso era parte integrante del sistema agrario
dell’epoca ed essendo praticato da tempi antichissimi, continuò a conservarsi
nella consuetudine dei luoghi ed a tramandarsi senza che nessuno pensasse
minimamente a trasformarlo od a distruggerlo. Tutt’al più si giunse alla sua
regolamentazione mediante licenze e mediante corrisposte: licenze che venivano
accordate dal feudatario o dal Comune e nelle quali veniva stabilito il
terratico da corrispondersi. Quindi nel feudo e nel Comune difficilmente
troviamo regolato negli Statuti il diritto di semina appunto perché esso si
riteneva intimamente connesso con il regime terriero dell’epoca. Va segnalato
che di regola il diritto di semina si rintraccia raramente nei territori
occupati dai popoli germanici, Lazio escluso, dove l’influsso dei popoli
barbarici aveva sopraffatto ogni traccia dell’uso di semina. Nella Marche,
nell’Umbria, nella Toscana e nell’Emilia il feudo fu sotto l’aspetto
materiale la continuazione di quelle Curti e Ville Longobardiche e Franche dove
l’uso civico della semina non veniva di regola esercitato, né lo fu durante
l’epoca feudale successiva. Però tale regola non vale dove per singolari
circostanze locali e principalmente per la natura del terreno, che non si
prestava ad essere sfruttato col
sistema normale della coltura intensiva e dove il territorio feudale si mantenne
unito, come nelle montagne del Vissano, dove la mezzadria non si sviluppò od
addirittura non sorse per la povertà e la difficoltà delle coltivazioni, dove
la popolazione non si decentrò dai Castelli nelle campagne, specialmente in
quelle più isolate ed incolte e finalmente dove la pastorizia era preminente,
bisogna ammettere l’esistenza del diritto civico di semina per la necessità
del mantenimento della popolazione stessa. In queste
zone però la popolazione rurale era costretta per motivi di sicurezza e di
ordine a coltivare una zona ristretta e non distante dal Castello o dal
Villaggio, perché, nelle zone lontane, dati i tempi, non esisteva la sicurezza
di poter disporre del raccolto. Inoltre, nelle zone limitrofe agli abitati,
attraverso le enfiteusi poteva giungersi anche al miglioramento dei fondi con
piantagioni e lavori vari e sopra tutto con la recinzione della terra coltivata.
Quindi la coltura intensiva si esercitava con la coltura degli orti, delle
vigne, spesso a ridosso delle mura castellane, nelle canapine e nelle terre
arative poste nelle immediate vicinanze dove quindi la protezione poteva essere
permanente e sicura. Queste è la
ragione per cui oggi vediamo le Ville costituenti il Comune di Visso e gli altri
Comuni della montagna Umbro Marchigiana circondati da una superficie
intensamente coltivata, ma molto esigua rispetto all’estensione del territorio
di pertinenza della Villa. Al di la di questa zona si estendeva allora e si
estende ancora nella maggior parte dei casi una grande superficie di terreno
pascolivo e boschivo dove si esercitava prima ed in misura molto più ridotta si
esercita ora il diritto di semina delle popolazioni. La semina, per ragioni
agrarie facilmente comprensibili, soleva avvicendarsi con il pascolo. In alcune
località (Vissano compreso), queste condizioni non si modificarono man mano che
ci si avvicinava all’età moderna ed attuale, perché di anno in anno la
pastorizia estende sempre più il proprio dominio e le terre sterili ed incolte
costituiranno sempre la maggioranza del territorio comunale dove si eserciterà
prevalentemente l’uso civico di pascolo. Però abbisognava assicurare
l’alimentazione, sia pure scarsa, delle popolazioni in periodi in cui la
difficoltà delle comunicazioni e la loro insicurezza rendeva aleatori i
rifornimenti dall’esterno, malgrado le concessioni dei Pontefici e dei Sovrani
per le importazioni delle grasce senza gabella. E di qui la concessione di terre
per la coltivazione contro corrisposta, delle quali nell’archivio antico di
Visso si rintracciano lunghi elenchi che però vanno sempre più restringendosi
man mano che si avvicinano a noi perché, con le nuove concezioni in fatto di
proprietà, la terra inizialmente concessa finì per diventare proprietà anche
senza l’assenso del Comune. Il Comune aveva lo stesso interesse del suo
predecessore feudatario e cioè che le terre comunque occupate e possedute
venissero lavorate e gli venissero corrisposte le quote dovutegli in base alla
concessione. Però
dobbiamo osservare che in alcuni casi il diritto di semina veniva confuso con la
colonia perpetua che era l’altro modo con il quale la popolazione del feudo
prima e del Comune poi estrinsecava il suo diritto al lavoro. E questa
confusione si ritrova talvolta anche in alcuni Statuti dove la colonia perpetua
(che attribuisce al lavoratore un diritto che lo rendeva un quasi dominus,
cioè un ius possidenti ac fruendi heredique suo reliquendi), cioè un
diritto trasmissibile e cedibile viene scambiato con il ius serendi, cioè
un diritto anche esso perpetuo che però da all’utente nulli alii ius quod
habet aut locare aut vendere aut gratis concedere potest. Nelle zone
alpestri che non si prestavano a costituire grandi masse di terre lavorative, il
lavoratore preferiva scegliersi una data zona, che smacchia e dissoda colle sue
fatiche per poi seminarvi e conservarne il possesso permanente pagando al
proprietario la corrisposta stabilita. In tal modo egli diventa colono perpetuo
di tale zona e né altri potrà mai occuparla e lavorarla senza il suo permesso.
Talvolta la colonia perpetua sorge per motivi economici, specie nelle località
dove la pastorizia ha la prevalenza assoluta sull’agricoltura, in modo che
ogni sviluppo di questa porterebbe danno all’espansione della prima: quindi la
popolazione non migliora le terre, ma preferisce mantenerle a sola semina
assoggettandosi a farle rientrare nelle rotazioni agrarie. Altre volte la
colonia perpetua sorgeva per ragioni individuali per le quali il lavoratore
profittava del diritto al lavoro che aveva sulla terra, ne disboscava una parte,
il più delle volte recingendola, che destinava alla semina e la considerava
permanentemente in suo possesso. Naturalmente, in questo caso, le cese, ronchi e
novali, come si chiamavano le terre così dissodate, erano sottoposte alla
semina soltanto nel periodo in cui la così detta vicenda lo permetteva, mentre
negli altri periodi dovevano essere lasciate libere per il pascolo comune. Alcuni comuni
montani e fra questi Visso presero posizione decisa contro l’esercizio dello
“jus cesandi” che conduceva alla costituzione di cese e novali o ranchi a
non finire e che, non contenuto avrebbe finito per passare dalle terre incolte
anche a quelle prative e pascolive fondamento dell’economia comunale perché
da queste il Comune percepiva la fida, che era il suo maggiore provento. Mentre
il catasto del 1475 ed i documenti dei primi del 1500 sono pieni di indicazioni riferentisi
a “cese” appartenenti all’uno
o all’altro abitante delle diverse Guaite o Villaggi, in un Consiglio Generale
del maggio del 1514 si stabilì il divieto di fare ranco (cioè di cesare) ed in
un Consiglio Generale successivo si stabilirono condizioni severissime per la
concessione dell’autorizzazione di cesare. Con questo si limitava il diritto:
ma non era la prima volta che il Comune interveniva per regolare secondo le
proprie esigenze gli usi dei cittadini. Colonia
perpetua e diritto di semina, se applicate su terre diverse, potevano
liberamente coesistere e difatti non è infrequente il caso di rintracciare
nello stesso territorio Comunale terre soggette alla colonia perpetua e terre
soggette all’uso civico di semina. Ma mentre le terre soggette all’uso
civico di semina conservano la denominazione di “comunali” o terre comunali,
quelle sulle quali si era affermata la colonia perpetua prendevano il nome di
“possessiones” e come tali le troviamo indicate nelle fonti, negli Statuti e
nei catasti sino ai primi del 1600. La formazione di queste possessiones sul suolo oggetto degli usi delle popolazioni, sia in dipendenza
dell’esercizio del diritto di cesare, che della colonia perpetua, non poté
sempre ed ovunque sottrarsi ai vecchi diritti delle popolazioni: ciò si
risolverà in altrettanti restrizioni della proprietà privata, quando nel
movimento continuo di emancipazione giuridica ed economica le suddette
possessiones, non abbandonate, finirono per diventare in gran parte vere e
proprie proprietà individuali in ciò facilitate dalle operazioni catastali
basate principalmente sulle notizie
assunte in loco da indicatori. Però mentre
nei catasti noi troviamo sempre iscritti gli usi civici di pascolo, di legnatico
e spigatico, non troviamo mai l’indicazione del diritto di semina a favore
delle popolazioni. E ciò perché tale diritto, come abbiamo sommariamente
veduto, ebbe un’origine diversa dagli altri, perché esso, come la colonia
perpetua, si fonda sul diritto al lavoro che avevano gli uomini del feudo sulle
terre del medesimo. Però mentre l’uso civico di pascolo, legnatico ecc.
poteva subire limitazioni dipendenti dalla compartecipazione del proprietario,
dalle esigenze del Comune e dello Stato che prestabilivano e regolavano le
concessioni, nella colonia perpetua e nell’uso di semina ciò non avveniva.
Sia che si trattasse di un territorio abitato o no, si doveva garantire il
diritto al lavoro ed ecco anche perché nella legislazione e giurisprudenza
pontificia degli ultimi secoli si sono chiamate servitù gli usi di pascolo e di
legnatico,ma mai quello di semina. Nella stessa notificazione Pontificia del
1849 che abolisce le servitù civiche, non si comprendeva quella di semina. None era poi
infrequente il caso che possessiones venissero abbandonate e quindi
tornassero a far parte del territorio comunale, specie se esse si erano formate
nelle zone più lontane e più ingrate del territorio sia per clima che per
ubicazione. In tal caso gli ex coltivatori continuarono a godere tali terre non
più in qualità di coloni, ma di semplici utenti del pascolo, del legnatico o
della semina a lunghissimi intervalli, con la conseguente trasformazione di un
diritto maggiore (colonia perpetua) in uno minore (diritto di semina).
L’abbandono avveniva talvolta per motivi fiscali o perché il coltivatore e la
sua famiglia abbandonavano il Comune per trasferirsi altrove, quando fu
possibile una certa circolazione di persone da Comune a Comune, o meglio di
lavoratori da un Comune all’altro. L’esistenza
del diritto di semina è anche indirettamente provata dall’esistenza nel
territorio Comunale di particolari “bandite” o riserve per il pascolo dei
buoi aratori. Diciamo indirettamente perché in alcuni Comuni dov’è provato
che non esisteva il diritto di semina, si rintracciano invece bandite per il
pascolo di bovi aratori. Però è evidente che l’esistenza di tali bandite, in
aggiunta ad altri elementi ricavabili dagli Statuti, dai catasti e dai
documenti, diventa elemento probatorio circa la sussistenza del diritto di
semina su terre comunali. A complemento
di questa sommaria indagine sul diritto di semina sulle terre montane dell’ex
Stato Pontificio, citiamo il rapporto inviato al Ministero dell’Interno nel
1848 dalle diverse Delegazioni Apostoliche, in risposta alla Circolare del
18/1/1848 n. 22122, con la quale si chiedevano notizie sulle servitù civiche
esistenti nei rispettivi territori. Circa lo “ius serendi” la
Delegazione Apostolica di Camerino, dopo aver parlato dei diritti di pascere e
legnare soggiunge: “non mancò chi prese a sterpare e dissodare qualche
tratto di terreno più adatto che seminò ed un tale terreno o per usucapione
rimase in perpetuo al coltivatore, o per convenzione a tempo dietro corrisposta
o canone e vantaggio dell’Aggregato. Si estese fortemente in alcuni luoghi
questa industria, e, veduto che andava a restringersi il suolo pascolivo a
detrimento della pastorizia, si assegnò a quella un confine, e, ad evitare
anche i dissidi cagionati per violazione di queste proprietà ridotte a coltura,
e che intersecavano i beni comuni nel mentre si conducevano da un punto
all’altro i bestiami a pascere, convennero d’accordo che i terreni destinati
alla semina nell’agraria rotazione, ove di due, tre ed anche più anni abbenchè
per qualunque diritto passati di proprietà di terzi, non fussero
esenti dalla servitù di pascolo nelle stagioni che non vi esistevano semine o
non erano per queste preparati; e fu questa propriamente l’origine del pascolo
promiscuo, mentre pria che esistessero tali proprietà, convenientemente quei
diritti avevano l’epiteto di comuni. Quando le Comuni cedettero tratti di
bosco a dissodare e godersi a tempo, scorso questo tali fondi ritornavano in
libera proprietà comunale, che poi annualmente, dietro corrisposta, con equa
proporzionale divisione, si concedevano a seminare ai comunisti. Ciascuno aveva
diritto su di un tale reparto, e, per lodevole discrezione, preferitasi nelle
concessioni coloro che avevano braccia capaci e non altra lodevole industria e
proprietà da far fronte ai propri bisogni.Questo solo attivo diritto di semina
si conosce in questi dintorni, ed è ben distinto da quelli che sono in vigore
in alcuni luoghi dell’Agro Romano, che propriamente devono dirsi diritti
negativi, e per conseguenza di ben diversa natura ed oltremodo lesivi la
proprietà ed inceppante il miglioramento dell’agricoltura, inibendosi ai
padroni di coltivare il proprio terreno per tre o più anni, onde mantenere il
Comune nei diritti che vi ha o di pascere o di farvi pascere, e perché diritti
che pesano su fondi suscettibili di migliore coltura, cosa che non verificatasi
nei seminativi di queste montagne che sono affette dalla servitù di pascolo
promiscuo” (Rapporto del 26/2/1948 n. 702). E per la
Delegazione Apostolica di Spoleto il rapporto del 2 maggio 1848 in risposta alla
sopra citata circolare del Ministero dell’Interno Pontificio dice: “In
pochissimi luoghi della Provincia esiste il diritto di semina ed egualmente
pochissimi sono quelli che lo esercitano e, piuttosto che dagli Statuti, nasce
da un uso o abuso introdotto nelle Comunali Amministrazioni.” I due
rapporti, pur dando al diritto di semina origine e caratteristiche diverse, lo
ammettono sia pure in misura diversa nelle due Delegazioni che sono poi quelle
nelle quali sono comprese le terre di Macereto oggetto del nostro esame. Concludendo,
le condizioni necessarie per l’esercizio del diritto civico di semina, come
per qualsiasi altro uso, sono: ·
L’esistenza di un demanio feudale o
Comunale e per il Lazio il latifondo; ·
L’esistenza di una Universitas
Hominum Alle quali,
per il diritto di semina, si debbono aggiungere: ·
Una corrisposta costante e fissa ·
Il diritto di tutti gli utenti nella
ripartizione periodica della terra e, in via complementare ·
La divisione del territorio in zone
seminative · L’esercizio del pascolo dei bovi aratori. IL
DIRITTO DI SEMINA NELL’ANTICO COMUNE DI VISSO CON PARTICOLARE RIGUARDO ALLE
TERRE DI MACERETO Come abbiamo
visto le terre di Macereto, sia che esse appartenessero alla Comunità di
Appennino, o di Cupi, o di Villa S. Antonio, o di Vallestretta di Ussita o a
quella di Macereto in Sasso che, troviamo frequentemente citata nei documenti
antichi, sino alla prima metà del 1500 fecero parte del territorio e della
giurisdizione dell’antico Comune di Visso. Ed è quindi nei documenti e negli
Statuti di tale Comune che noi possiamo trovare gli elementi per riconoscere
l’esistenza o meno del diritto di semina perché, come è noto, per quelli di
pascolo o di legnatico i catasti ne forniscono la continua indicazione in
aggiunta alla regolamentazione degli
Statuti. Abbiamo visto
dagli atti del 1255 e del 1259 che prima di tale epoca le terre di Macereto
avevano natura indiscutibilmente feudale, tanto che le cessioni contemplarono
non solo le terre, ma anche gli uomini su esse stabiliti. E quindi dobbiamo
pensare che nei Villaggi e nel Castello di Macereto la vita economica si
svolgesse secondo lo schema tradizionale che noi abbiamo brevemente riassunto
nelle pagine precedenti. Si aggiungeva inoltre l’asperità delle terre, la
loro altitudine e l’importanza strategica della zona che per secoli la fecero
campo di contese anche armate fra le due maggiori Comunità di Camerino e Visso,
elementi questi certamente controproducenti per un pacifico sviluppo delle
risorse economiche del territorio. I documenti antichi ci dicono che nelle terre
di Macereto esistevano diversi boschi, denominati Selve e delle quali oggi non
si rinviene traccia perché o dissodati o ridotti a miseri cespugliati
dell’azione dell’uomo e dal pascolo per modo che la fertilità delle terre
dell’altopiano ebbe certamente a soffrirne. E non mancano nella zona bandite
per bovi aratori tutt’ora esistenti e rispettate nei tradizionali confini. Ma per
tornare al nostro diritto di semina cominciamo con l’osservare che gli Statuti
dell’antico Comune di Visso (1461) sancivano alla rub. XVIII del Libro II° la
inalienabilità delle terre del Comune e precisamente: “Quod venditor rei
per Comune rehapraehensae compellatur restituere praetium”. Dice tale
Rubrica: “Item statuimus et ordinamus quod si quis qui vendiderit, sut
quoquomodo alienaverit rem comunis Vissi, quae per ipsum comune
reapraehenderetur, sive reappraehensa fuerit, talis vendens vel alienans
summaris et de facto compellaturrestituere praetium quod recepit ab emptore,
ipsi empori, vel illud quod recepit pro alienatione praemissa”. La Rubrica
effettivamente parla di cose del Comune in generale e quindi noi possiamo
estenderla anche alle terre. Nella
seguente Rubrica XIX dello stesso Libro II° è chiaramente indicato come nel
Comune di Visso esistesse la forma
della colonia o meglio della terra “locata ad laborandum”. Tale Rubrica che
reca l’intestazione “Quod per venditionem petiae terrae colonus iure
laboritii non fraudetur” dice: “item statuimus et ordinamus quod si
quis vendiderit, vel quoquomodo alienaverit aliquam petiam terrae aliqui ad
laborendum locatam, jus laboritii de aedem petia terrae et fructum existentium
in eadem penes ipsum laboratorem partitum et incolume remaneat, et pro reservato
habeatur; esto quod per alienatorem in ipsa alienatione non fruisset expressum.” Nella Rub.
XVI del Libro IV degli stessi Statuti intitolata “Quod bona comunis
reinvesta, et reinvenienda jaceant pro comune” è sancito il divieto di
occupare “omnia bona comunalia comunis praedicti raepprehensa vel
raepprehendenda pro ipso comune” affinché
“jaceant libere ed absolute pro dicto comune; et quod nullus possit
dicta bona apprehendere, vel occupare ad poenam vigintiquinque librarum pro
qualibet vice; et nichilhominus dicta bona apprehensa, vel occupata restituire
vel relapsare teneatur, ad ditcam poenam de facto exigendam.” Ma oltre al
divieto di occupare le terre della specie di cui alla rubrica sopra citata
c’era anche l’altro divieto di lavorare le terre del Comune di Visso senza
la prescritta licenza. Tale divieto è contenuto nella rub. XVIII del libro III°
degli statuti che nella prima parte regola il caso “quod colonus si
negaverit pertiam terra esse illius a
quod acceperit ad laboritium, vel ipsius petiae terra “possessionem”
interverterit”, nella seconda stabilisce: “si quis vero laboraverit
aliquam petiam terrae spetialium personarum, vel Comunis Vissi, sine licentia
domini dictae petiae terrae, vel Comuni Vissi sine licentia sindici dicti
Comunis, poena vigintiquinque librarum condemnetur comuni pro qualibet vice. Et fructus restituire teneatur perceptos de dicta petia
terrae”. Questa di
posizione riecheggia i divieti del feudatario, ed è nello stesso tempo un
indice dell’esistenza di un abuso molto diffuso in base al quale le terre
comunali venivano occupate e lavorate senza licenza alcuna. La sanzione che
arriva alla confisca del prodotto, perché altro valore non può darsi
all’obbligo dell’occupatore abusivo di restituire tutti i frutti percepiti
dalla terra occupata e lavorata senza licenza del proprietario, sia esso privato
o sia esso Comune, indica quanto il fenomeno fosse diffuso. Ma non
bastava la sola licenza per lavorare le terre Comunali. Bisognava anche pagare
il “coptimum” o “terraticum” stabilito nelle epoche fissate. Ce lo dice
chiaramente la rubrica XCI del libro IV degli stessi Statuti intitolata “De
poena non restituentium coptimum de terris comunis” che dice “Item
statuimus et ordinamus quod laborantes de bonis comunis, teneantur restituire
dominis quinque prioribus, qui pro tempore erunt, debitum coptimum, seu
terraticum per totum mensis septembris, ad poenam decem librarum denariorum, et
nichilhominus ad restitutionem dicti coptimi compellatur …..” Ma la
necessità della licenza per la coltivazione delle terre comunali è anche
l’evidente dimostrazione del passaggio delle terre collettive da demaniali a
patrimoniali allo scopo di poterne regolamentare l’uso per la semina in
relazione agli interessi generali della Comunità. Il fatto stesso che lo
Statuto permetta di coltivare le terre comuni con la licenza e con il pagamento
della corrisposta denominata “coptimum” o “terratico” indica che ci
troviamo di fronte ad un vero e proprio “ius serendi”, tanto più che le
terre oggetto della concessione erano nella maggior parte terre seminative e
boschive che venivano dissodate e seminate. A fronte
della regolamentazione del diritto di semina troviamo negli Statuti di Visso la
regolamentazione del diritto di cesare o di fare cese o ranchi. Difatti la
Rub. XL del Libro IV degli Statuti sancisce il divieto di cesare in una zona
particolare del Comune di Visso a
confine con la vicina Norcia, la Forca di Gualdo, stabilendo “quod nullus
cesam faciat in silvis Forche de Gualdo ad poenam decem librarum ab ipso
auferendam de facto; et si quis in eisdem aliquam cesam fecissit, vel de ea
aliquid accepisset, a triginta annis citra, illud debeat relapsare, nec in eis
ulterius laborare ad dictam poenam”. Nel Consiglio
Generale del Comune di Visso del 18 marzo 1515,la cui deliberazione fu inserita
nel volume degli Statuti perché ne facesse parte integrante, è stabilito: “quod
quilibet possit facere Ranchun in sua “possessionem” sine poena, non
obstantes Reformationem olim facta: et si silva volentes facere aliquam Ranchum
fuit juxta silva comunis no possit far dicta sua “possessionem” facere
prefate ranchum si predicta silva eius no fruit terminata cum dicta silva
comunis”. Questa
deliberazione accenna ad una precedente disposizione del Consiglio Generale del
Comune con la quale si vietava di far ranco, cioè di cesare, anche nelle
“possessionem” e stabilisce le modalità con le quali si poteva effettuare
tale ranco. Si stabiliva cioè la terminazione o meglio la confinazione delle
proprietà rispettive, quando la possessione era compresa tra proprietà
comunali: ciò allo scopo di evitare usurpazioni ed appropriazioni di terre
comuni. La
deliberazione Consiliare a cui si riferisce quella sopra indicata porta la data
del 14/6/1514 e contiene il divieto di far ranco ovunque senza licenza del
Consiglio Generale del Comune. Dice infatti tale deliberazione che porta il
titolo “Ex quibus possint facere Ranchum in sua “possessionem” e
dice: “In futuro nulla persona cuiuscumque gradus et conditiones audet ut
presumere, in territorio Vissano facere rancum tam in suis “possessionem” ob
bonis quam dictus Comunis sine licentia Generale Consilio.” Anche questa
deliberazione fu inserita nel volume degli Statuti e con l’altra del 1515 si
fece un temperamento della disposizione stessa per quanto riguardava le “possessionem”,
mentre rimaneva intatta la disposizione per quanto riguardava i beni del Comune
o “possessionem” poste a confine con selve comunali. Alla
limitazione del diritto di cesare fa riscontro la proibizione di fare difese o
bandite nelle terre proprie senza licenza del Consiglio Generale del Comune per
modo che nei primi del 1500 il Comune aveva provveduto a limitare l’uso di
cesare in qualsiasi parte esso si effettuasse. L’obbligo
di alcune speciali coltivazioni è sancito nella Rubrica LXXXI del Libro IV
degli stessi Statuti dal titolo “De facindo orta per homines de Visso et
ejus districtu” che stabilisce: “quod quilibet de Visso et ejus
districtu habens terras, seu petiam terrae in plano, vel alibi in disctrictum
Vissi tantum, actas pro orto faciendo, teneatur et debeat facere ortum de
medietate unius starii tertae, infra duos menses posti aperturam paesentis
Statuti, ad poenam decem soldorum.” E nel
Consiglio del 9 ottobre 1496, la cui deliberazione fu parimenti inserita nel
Volume degli Statuti, si stabilì che chiunque facesse “laboritium” sia
tenuto a seminare ogni anno una coppa (misura locale) di fave. Le
concessione regolari erano tutelate dalle disposizioni della Rub. L del Libro
III° degli Statuti Vissani che prevede appunto la pena per i “molestantis
aliquem in tenuta”. Essa dice: “quod si quis molestaverit, vel turbaverit
aliquem in possessione alicujus rei immobilis, vel mobilis data alicui in tenuta
auctoritate curiae, si res molestata esset valoris decem librarum, et ab inde
supra, in vigenti quinque libris condempnetur: si ab inde infra in centum
solidis condemnetur, et rem relapset, et restituat possessori”. Inoltre
l’azione del danno dato assicurava la protezione per i danni arrecati
volontariamente o involontariamente ai raccolti dal bestiame e dagli uomini. E a
tale scopo “in qualibet guaita et paese, ut expedit custodes sive gualdarii
eligantur” perché le terre coltivate ad “orta, blada, vinae, terrae
canapinatae ecc. melius custodiantur.” Un vocabolo
che ricorre spesse nei catasti, negli Statuti ed in altri documenti antichi è
quello di “terras laborativas” talvolta seguito dall’indicazione del
Villaggio cui le stesse appartengono. Citiamo ad esempio la Rub. XXXIX del Libro
IV° degli Statuti dove si parla delle “terris laborativis hominum de
Uxita” e di diverse altre terre lavorative che servono a delimitare boschi
posti sotto la sorveglianza del Comune che ne regolava l’uso ed il taglio. Ed
è in questa rubrica che frequentemente il termine”terris laborativis” viene
usato insieme agli altri di “cesa”, “possessionibus spetialium personarum”,
“possessione”: il che lascia supporre che per “terris laborativis”
s’indicavano quelle terre soggette appunto agli usi di semina delle
popolazioni dei villaggi interessati, perché non è infrequente il caso che le
“terris laborativis” insieme alle possessione ad esempio di filiorum Rubi
Venturilli ed alla cesa Olim Joannis Adjuti servissero a delimitare una di
quelle tali selve elencate dalla Rub. 39 sopra citata. La coesistenza di tali
termini indica evidentemente che si trattava di terre di natura diversa. E sempre da
tale rub, 39 risulta il divieto per la selva Macchiarum posta in territorio di
Castel S. Angelo di cesare e di fare carbonare (nullus faciat cesam, vel
encoptam, sive carbonem ad poenam quadraginta soldorum). Nella zona di
Macereto, come nelle altre zone dell’Antico Comune di Visso, l’utilizzazione
delle terre per le colture agricole era libera soltanto nelle zone denominate
ristretti: cioè in piccoli spazi di terra posti nelle immediate vicinanze dei
centri abitati e recinti. Soltanto in questi ristretti c’era la possibilità
di miglioramento mediante piantagioni siano state essi di vigneti e di
fruttiferi, e soltanto in esse (vigne eccettuate) c’era la possibilità di
sottrarle al pascolo per l’intero anno. Al di fuori dei ristretti la
coltivazione delle terre era regolamentata da norme precise messe in relazione
con l’esercizio del diritto di pascolo, onde consentire l’effettuarsi
dell’industria armentizia che rappresentava l’unica risorsa del Comune. In
una dichiarazione del 30 giugno 1780 del Segretario coadiutore della Comunità
di Visso è messo bene in evidenza il turno di coltivazione delle terre,
determinato anche dal pascolo. Tale dichiarazione, dopo aver parlato delle
diverse bandite per bovi aratori delle quali era dotata ciascuna Villa, dice: “Attesto
inoltre che per dare il pascolo libero alli bestiami che sono dentro alla
giurisdizione di detta Comunità di Visso, è stile e pratica di seminare i
terreni esistenti, specialmente nei monti, a vicenda, ossia contrada, non
essendo lecito ad alcuno seminare li terreni, benché propri, in quella contrada
che più le pare e piace, ma solo può seminare in quella contrada dove
tutti generalmente seminano, altrimenti facendosi non vengono riguardate le
semenze, e li stessi padroni che qualche volta vogliono seminare qualche terreno
in quella contrada, nella quale in quell’anno non cade la semenza, vengono
convenuti ed inibiti giudizialmente conforme puol rilevarsi dagli atti
esistenti nella Cancelleria Civile di questo Comune di Visso, e tutto
ciò, come si è detto, affinché li bestiami abbiano ogni anno una
contrada dove possano liberamente pascolare”. Indubbiamente
si tratta di turni di semina teoricamente molto brevi, ma in pratica la natura
dei luoghi e le condizioni climatiche fanno si che il turno di semina per le
zone di alto monte sia effettivamente più lungo. C’è nell’uso comune il
termine “terzale” per indicare un seminativo che da tre anni non è stato più
seminato, appunto per farlo riposare e metterlo in condizioni di dare un
prodotto un po’ meno scarso del
consueto ottenibile con la semina biennale. Questo termine, che ricorda ad
orecchio i turni di terzeria delle terre seminative dei latifondi dell’Agro
Romano, dove è indiscussa l’esistenza del diritto di semina, si è venuto a
formare certamente in conseguenza di una pratica continuativa applicata per
moltissimo tempo. Com’è noto
l’antico Comune di Visso, come quello di Camerino, era la risultanza di un
certo numero di Comunità minori. Per Visso, sia che ad esso si voglia dare
origine anteriore a quella delle Ville con conseguente successiva distribuzione
delle terre comunali, com’è dimostrato che avvenne per la vicina Norcia, sia
che il Comune di Visso voglia farsi sorgere dalla riunione di più comuni minori
esistenti lungo le Valli Ussitana e Castellana che confederando in un’epoca
imprecisata, costituirono un organismo più ampio e più complesso, meglio
adatto a risolvere i problemi economici e politici comuni, risulta chiaro dagli
atti e dai documenti tutti che la proprietà delle terre spettava ai Villaggi, o
meglio alle Comunità. Difatti, nel
nostro caso, noi troviamo che il Comune di Visso per la zona di Macereto agisce
sempre per conto della Villa Cuporum et Castrum Uxitae, mentre Camerino
interviene ed agisce nell’interesse del Castrum Appennini: località tutte
facenti parte del contado dei due maggiori Comuni Camerino e Visso. Come abbiamo
avuto occasione di dimostrare in altra indagine, è indubbio che nell’antico
Comune di Visso la proprietà dei beni collettivi spetta alle Ville, che ne
curavano perciò la diretta amministrazione mentre l’esercizio degli usi era
regolato dal Centro, sentito il parere delle amministrazioni delle Ville. Sappiamo
dalla storia che con il sorgere del Comune rurale i domini collettivi entrarono
a far parte del patrimonio del Comune che ne disponeva a seconda delle necessità
dando alle terre destinazione diversa con la creazione delle difese o delle
bandite. Questa caratteristica la ritroviamo nell’antico Comune di Visso,
comune formato da più Ville (congregatio domorum sine muris) e qualche
Castello (terra muris cinta). Le Ville erano talvolta aggregate due a
due, specie nella Valle Castellana, perché antichi capitoli stabilivano che
ogni Comunità doveva avere un certo numero di “fumanti” o focolari per
essere in grado di eleggere un massaro od un saltaro (magistrati incaricati
dell’amministrazione degli affari comuni). Per conseguenza si verificarono
diverse aggregazioni di Villaggi che per se stessi non avevano il numero di
“fumanti” necessario: aggregati che eleggevano i loro massari e curavano
l’amministrazione delle loro terre. Però erano soggette alla legge Statuaria
del Comune e dovevano pagare le tasse, le dative, le multe per i danni dati
ed altri pesi fiscali come se i suoi abitanti risiedessero in un unico
centro di popolazione o dentro le mura di uno stesso Castello. Qualche Villaggio
doveva provvedere a sue spese alla nomina di alcuni magistrati che in altri
Villaggi erano a carico del Comune: ciò avviene per Cupi (Rub. 12 del Libro I°)
e nelle Rub. 12, 17 e 30 del Libro I° ed in quelle n. 32, 40, 43, 62, 68, 69,
71 e 91 del Libro IV° degli stessi Statuti si stabiliscono norme dirette a
regolare e disciplinare l’uso dei beni delle Università delle Ville. La Villa
non aveva quindi il carattere di persona giuridica come invece lo aveva il
Comune, rimaneva però una Università di individui che avevano l’uso diretto
dei beni pubblici ricadenti nel comprensorio della Villa in cui abitavano. E
quindi il Comune esercita il suo alto dominio sui beni appartenenti alle Ville
che lo componevano. In altre parole, i beni pubblici di tutte le Ville
costituivano nel loro insieme i “bona comunalia”, ma nella loro fattispecie
rappresentavano i beni della Universitatis Hominum della tale o tal’altra
Villa, che nell’ambito delle norme dello Statuto e con l’approvazione del
Comune, ne disponeva “ad libitum”. Dunque i beni
della zona di Macereto appartenevano alle Ville di Visso e di Camerino,
interessate, cioè a quelle affacciatesi sul vasto altopiano, che nell’epoca
anteriore alla costruzione del Santuario figurava in gran parte rivestito di
boschi di notevole importanza e come tali protetti. Appartenevano cioè a Cupi,
Ussita (Vallestretta) ed Appennino. Una delle
caratteristiche di questa zona è la mancanza di ristretti nelle immediate
vicinanze dei gruppi di abitazioni che ora costituiscono l’unico Villaggio di
Cupi, che attualmente è l’unico centro abitato del vasto comprensorio.
Esistono però bandite per il pascolo dei bovi aratori come quelle di Monte
Grotagna, Costa di Rena e della Frascaia oltre alla facoltà per il bestiame
grosso di pascere liberamente in tutta le Selve anche padronali. Altra bandita
per bovi aratori e vitelli da latte era ubicata nelle vicinanze della Selva di
Valle Orticaria. Non sappiamo
spiegare la mancanza di ristretti nell’unico centro abitato della zona di
Macereto. I documenti tacciono al riguardo. Soltanto nel 1467 si ha notizia di
un reclamo presentato dall’Ussitano Rainaldo di Cola contro gli abitanti di
Cupi perché questo non gli permettevano di fare la siepe ad un terreno presso
Macereto “ove già fu la vigna di messer Cataldino Boncompagni”. E nelle
moderazioni e riforme della Villa di Cupi, fatte per parte dagli uomini di detta
Villa sopra l’offizio del Danno dato, riportate nei Capitoli del Danno dato
del 1613, nella moderazione n. 4 è detto: “Item che nelli vignali e
boscali sotto Selva Grossa, vicino alla Valle, quali luoghi prima erano vigne,
ed ora si sono imboscati ed inselvati, che in detti Luoghi Vignali e Boscali per
dette bestie minute non vi sia pena alcuna, ne meno per il tagliare, perché non
se ne tiene più conto alcuno”. Quanto
precede lascia supporre che nella zona di Macereto, pertinente a Cupi, ci fosse stata una zona coltivata a vigna, quindi
facente parte dei ristretti, vigne che furono poi per ragioni che ignoriamo
abbandonate ed invase dal bosco. Comunque sta di fatto che ora le vigne sono
scomparse dalla zona di Macereto ed anche dagli immediati dintorni di Cupi non
si trova traccia di tale coltivazione: tentativi fatti per ricostruire un
vigneto nella zona sovrastante l’attuale cimitero non hanno dato i risultati
sperati. Però nella
zona di Macereto il grano doveva essere coltivato, sia pure con le limitazioni
della vicenda annuale. Ne troviamo traccia nei registri dei fattori del
Santuario di Macereto dalla fine del 1500 in poi; ne troviamo notizie nel 1510,
quando il Signore di Camerino, invaso il territorio circostante la Chiesa,
quella antica, si detter a menar guasto nei seminati e campi circostanti già
vicini al raccolto; nel 1564, quando a seguito di liti fra Vissani e Camerinesi
i primi invasero il territorio sotto la giurisdizione di Camerino saccheggiando
i raccolti, e furono dichiarati ribelli e scomunicati e privati di tutti i
privilegi, grazie, esenzioni dalla Chiesa accordate al Comune di Visso. Poi le
cose si calmarono, la scomunica venne tolta e la questione fu amichevolmente
risolta nel 1580 da certo Sperelli Sperello di Assisi, appositamente nominato da
Gregorio XIII. Riassumendo
ci sembra di aver rintracciato nella zona di Macereto tutti gli elementi atti a
dimostrare l’esistenza del diritto di semina sulle terre comunali, sia pure
regolato dal Comune: quindi possiamo concludere sull’esistenza di tale diritto
che, come vedremo, veniva ad essere esercitato sino ad epoca recente. LA
NATURA GIURIDICA DELLE TERRE DEL COMPRENSORIO DI MACERETO Da
quanto siamo andati dicendo risulta chiara la natura giuridica delle terre del
comprensorio di Macereto. Sino
alla prima metà del 1200 esse furono terre feudali, poi passarono in proprietà
ai Comuni di Visso e Camerino che le destinarono per gli usi delle popolazioni
affacciantisi sull’altipiano dallo stesso nome. Quindi verso la fine del 1400
le troviamo amministrate dalle Università degli Uomini che sulle terre stesse
hanno diritti di proprietà, sia pure sotto la tutela e la giurisdizione dei
rispettivi Comuni. Quindi nel nostro caso si tratta di terre di origine feudale
di appartenenza delle Università degli Uomini di Cupi, del Castello di Ussita e
del Castello di Appennino. Tali
terre naturalmente sono gravate da usi a favore delle popolazioni: principale
quello di pascere con bestiame appartenente ai residenti, nelle epoche fissate,
contro pagamento della fida per il pascolo interessante i mesi che vanno dal
Giugno a tutto Settembre. Il pascolo in questa zona colpisce tutte le terre
perché, come abbiamo visto, l’unico centro abitato (oggi esistente) non ha
ristretti e quindi, ad eccezione dei prati di alto monte, soggetti al pascolo
dopo la falciatura, e delle zone denominate “Le Vallicelle” e “la
Banditella” una volta affittate anche a bestiami forestieri, tutti gli altri
terreni soggiacciono alla servitù suddetta del pascolo. Per i seminativi, il
pascolo è escluso sino a quando il grano non è raccolto. Il diritto di pascolo
di cui si parla è regolarmente accatastato al Comune nel catasto Gregoriano ed
in quello Piano. Nessuna traccia se ne trova in quello attuale ed in quelli
precedenti al catasto Piano o Devoti. Ciò per le note ragioni. Dobbiamo
segnalare subito la diversa posizione giuridica dei terreni facenti parte del
territorio della Frazione di Appennino del Comune di Pievetorina, cioè di
quelli appartenenti all’antico Castello di Appennino e ricadenti nel
comprensorio di Macereto. La parte dei beni non privati, cioè i beni comunali,
appartengono alla Comunanza Agraria di Appennino, regolarmente costituita
all’epoca in cui, per le disposizioni della legge 4 agosto 1894 n. 397
(Ordinamento dei domini collettivi nelle province dell’ex Stato Pontificio),
all’antica Università degli Uomini del Castello di Appennino fu riconosciuta
la personalità giuridica, insieme a quella degli Uomini di Vari e Gabbiano,
altri centri abitati, in antico Castelli, posti in vicinanza di Appennino verso
Camerino. Durante
l’occupazione francese, Appennino con Gabbiano e Vari fu eretta in Comunità
autonoma, poi finì per diventare frazione del Comune attuale di Pievetorina.
Però la Comunanza agraria suddetta non ebbe lunga vita e finì per essere
sciolta ed i suoi beni continuarono ad essere goduti nel modo tradizionale con
il conseguente uso di pascere i bestiami degli utenti anche sulle proprietà
private ricadenti nel comprensorio della detta Comunità. Per
quanto riguarda i beni che la Comunità di Appennino, Vari e Gabbiano possedeva
nell’altopiano di Macereto e per i beni privati ubicati in tale località ma
sottoposti agli usi di pascere dei bestiami suddetti, essendo stata riconosciuta
l’origine comunicativa di essi,
nel 1954 si addivenne ad una transazione tra i rappresentanti della Comunità
Utente di Appennino, Vari e Gabbiano ed il proprietario
di allora signor Scolastici Venanzo. In tale transazione, che concludeva
le trattative condotte per oltre venti anni fra gli esponenti della Comunità
suddetta di Appennino, Vari e Gabbiano ed i proprietari vari succedutisi nel
possesso delle terre in questione, si procedeva all’affrancazione delle terre
dall’uso civico di pascolo che le gravava liquidando, mediante cessione di
parte delle terre stesse, ogni diritto di uso civico tanto sulle terre ex
comunali, quanto sulle altre terre di origine privata, che ai medesimi restano
affrancate e libere da tali diritti, le une e le altre poste entro la linea di
confine stabilita in loco con termini lapidei. Il
verbale di conciliazione relativo ebbe luogo il 30 dicembre 1957 in Pievetorina;
la conciliazione fu approvata dal Commissario per la Liquidazione degli Usi
Civici di Bologna con ordinanza del 28 febbraio 1958 e del Ministero
dell’Agricoltura e Foreste con Decreto del 3 ottobre 1958,dopo che il Geometra
Raniero Pagnanelli con lettera del 19/6/1958 n. 177 comunicò che la così detta
“Promiscuità di Appennino, Vari e Gabbiano, più volte menzionata in atti, è
in effetti un insieme di frazioni i cui abitanti esercitano in promiscuo diritti
di uso civico e che, pertanto, la legale rappresentanza spettava, per legge, al
Sindaco.” L’affrancazione
riguarda terre per una superficie complessiva di Ha 300.67.50 dei quali 118
circa rappresentano le terre ex Comunali, di qualità pascoliva con boschi cedui
in parte degradati, sulle quali ai popolani competono i diritti di uso civico di
pascolo con bestiame stazionario e di legnare per l’annuale provvista di legna
pe uso domestico. Sulla
restante superficie di Ha 183 circa, costituita da terre di natura privata
soggetta all’uso civico di pascolo promiscuo con bestiame stazionario
limitatamente, per quanto si riferisce ai seminativi, al tempo in cui sono
liberi e, se seminati, dopo tolto il primo frutto. A seguito dell’affrancatura
vennero attribuiti alla promiscuità di Appennino, Vari e Gabbiano, a titolo di
liquidazione di ogni diritto di uso civico, Ha 132.14.20 delle predette terre,
mentre le restanti per Ha 168.53.30 vennero dichiarate affrancate e libere da
diritti di uso civico, sia che esse avessero natura di ex terre comunali che
privata. Questa
transazione, molto importante per la sistemazione economica ed agraria della
zona, interessa anche una certa superficie di terre che non fanno parte del
comprensorio di Macereto da noi esaminato. Però la parte che l’affrancazione
ha resa libera interessa nella sua quasi totalità il territorio di Macereto. Il
24 novembre 1958 fu compilato il verbale di esecuzione del Decreto Ministeriale
concernente l’affrancazione di cui sopra e la Promiscuità frazionale di
Appennino, Vari e Gabbiano del Comune di Pievetorina fu immessa nel possesso
delle terre assegnatele come corrispettivo di affranco. Come
si è potuto notare nella documentazione inerente la pratica di affranco di cui
sopra si è parlato soltanto esplicitamente dei diritti civici di pascolo e
legnatico: nessun accenno è stato fatto al diritto di semina. Il motivo va
ricercato nel fatto che tale diritto, o meglio uso, non era più in vigore sulle
terre oggetto della transazione e affranco perché, essendo le terre entrate
nella sfera della proprietà privata, non importa a quale titolo, il diritto di
semina fu il primo ad essere estromesso in quanto assorbito da analogo diritto
del proprietario. La terra sottratta a torto o a ragione alla sfera di azione
del Comune non poté essere oggetto della continuazione dell’uso di semina,
specie quando gli utenti di tale diritto ne divennero proprietari. L’altra
parte delle terre del comprensorio di Macereto, site in territorio di Cupi,
Ussita e della promiscuità di Appennino, Vari e Gabbiano non è stata oggetto
di affranco e quindi su di esse sono rimasti inalterati i diritti di uso civico
spettanti alle popolazioni dei centri più vicini e cioè di Cupi, Vallestretta,
Villa S. Antonio ed Appennino. In essa non si sono costituite comunanze agrarie
di sorta e per quanto le terre stesse, come abbiamo visto, siano di originaria
appartenenza dei Villaggi summenzionati, esse vengono amministrate dal Comune in
rappresentanza degli utenti. Sicché
in questo comprensorio di Macereto le terre libere dagli usi civici sono
soltanto le seguenti: ·
Quelle affrancate nel 1958 per una
superficie di Ha 169 circa; ·
Quelle costituenti la bandita delle
Vallicelle in territorio di Cupi della superficie di circa Ha 83. Tutto
il restante territorio è sottoposto agli usi di pascere, semina e legnare in
misura diversa a secondo delle possibilità. Come
è noto le terre di Cupi e di Vallestretta di Ussita furono oggetto di due
pregevoli relazioni per l’affranco degli usi su di esse gravanti: per Cupi
quella del Geom. Raniero Paganelli, il cui progetto non ebbe seguito per
intervenute successive difficoltà di finanziamento dei lavori relativi; per
Vallestretta di Ussita quella del Geom. Piergentili Venanzo che seguì la stessa
sorte di quella di Cupi. Però in ambedue le relazioni non è cenno del diritto
di semina forse perché gli Istruttori Demaniali si fermarono a considerare
l’uso maggiormente in vigore del quale trovarono traccia molto antica e nei
documenti e sopra tutto nel catasto Gregoriano. E’ bene precisare che le terre
facenti parte del comprensorio di Macereto sono aperte ad eccezion fatta di
piccolissimi appezzamenti vicini al Santuario di Macereto ed all’abitato di
Cupi, adibiti ad orti. Altre zone recinte le troviamo prossime alle abitazioni
di Cupi: riguardano però appezzamenti di prato chiusi più per reciproca
comprensione e tolleranza degli abitanti che per vero e proprio scopo di
miglioramento e di affranco. Come
in tutte le altre zone di montagna e particolarmente nelle altre Ville dei
Comuni di Visso, Ussita e Castelsantangelo, assistiamo per Macereto ad uno
spezzettamento ed a una intersecazione di proprietà comunali e private che
trasformano l’altipiano in un vero e proprio mosaico. Le proprietà private
sonmo di modestissima superficie ed interessano le terre dove la coltivazione è
possibile: quelle comunali sono le più estese ma sono anche qualitativamente le
peggiori. Come
si sia addivenuti a questo frammischiamento di proprietà è facile da intuire,
tenendo presente la tendenza affermatasi con continuità nei secoli di porre a
coltura progressivamente le terre migliori ovunque esse si trovassero, specie
quando le condizioni generali di tranquillità e di pace resero possibile ed
economica, sempre in senso relativo s’intende, la coltivazione di appezzamenti
lontani dai centri abitati. Inoltre
l’intersecamento delle proprietà private con quelle Comunali denuncia
l’esercizio attivo del diritto al lavoro dei tempi feudali, per modo che il
dissodamento e la semina potevano avvenire in maniera spesso disordinata e non
secondo un piano preventivamente elaborato. Si coltivavano soltanto le terre
migliori ovunque esse si trovassero. Tale diritto mantenutosi nel periodo
Comunale sia pure con la limitazione della licenza e della corrisposta,
integrato dal diritto di cesare, cioè di disboscare e porre a coltura territori
boscati anche di proprietà Comunale, completa il quadro che tende a spiegare
come tale frammischiamento possa essere avvenuto. La conferma l’abbiamo in
alcune delibere contenute nel libro di Amministrazione della Villa di Cupi, che
contiene la decisione del Consiglio dei Massari di Cupi, assistiti dal Vice
Governatore di Visso per il periodo dal 1755 al 1815. Sono
deliberazioni che interessano l’uso dei pascoli, specie sui prati, lo
stabilimento ed il rispetto di alcune bandite per bovi aratori da sottoporre
all’approvazione del Consiglio Generale della Comunità di Visso, le modalità
per l’affitto delle erbe della Bandinella e delle Vallicelle, il riatto della
fontana e delle strade, la nomina del Cappellano e del maestro: deliberazioni
insomma che danno la riprova come le terre comprese nell’ambito dei confini
del Villaggio erano amministrate come proprie cose della Villa che ne disponeva
dei proventi per le spese necessarie. Così
rintracciamo in tale registro una deliberazione del 1753 con la quale i Massari
di Cupi si lamentavano che la Villa fosse costretta a pagare la dativa anche su
terre abbandonate dai proprietari trasferitisi altrove e nella delibera del 7
luglio 1765 si decise di eleggere due persone deputate a rinvenire i terreni
occupati da particolari persone spettanti alla detta Università dei Cupi. Cosa
facessero questi deputati non è noto: ma ci sembra sintomatico tale
provvedimento che sta a dimostrare come le usurpazioni fossero diventate
notevoli e numerose con grave danno del pascolo e delle finanze dell’Università
che doveva pagare le dative per terre non godute. Debbono però aver fatto ben
poco se il 13 luglio 1793 si delibera di provvedere alla nomina di altri due
deputati “i quali riconoscano dove siano state turbate le pertinenze
di questa nostra Università, e quante volte ciò trovino tanto in dissodamento
di pascolo, quanto in diroccare Selve, abbino li medesimi deputati la facoltà
di agire contro chiunque, come sarà di ragione”. E
nella delibera del 30 agosto 1800 si legge: “si fanno lecito alcuni di
dissodare e seminare nelli terreni di questa Università senza risposta e
pagamento alcuno” e la decisione fu che “debbano costringersi quelli
che hanno scorso nelle pertinenze comuni a pagare la debita risposta o sia
l’affitto.” Ma
la storia del dissodamento disordinato ed abusivo non cessa, anzi le operazioni
catastali facilitano la creazione abusiva di proprietà private a spese di
quelle comunali. Infatti nella delibera del 2 marzo 1807 Giacomo Guerrini,
deputato, riferisce “di aver osservati molti catasti degli individui di
questa nostra Università nei quali non appariscono notati molti terreni che i
medesimi possiedono, e ciò accade perché i medesimi si sono fatti lecito far
molti sconfini restringendo con essi il pascolo al bestiame, pagando alla nostra
Università la gravosa dativa: perciò ben vantaggioso e giusto al bene pubblico
che li medesimi, proporzionalmente alla loro aumentata possidenza corrispondano
un’onesta risposta a vantaggio pubblico.” E
nel Consiglio dell’11 settembre 1814 si trova la seguente deliberazione: “I
nostri comunali si sono dissodati in gran parte e ridotti a coltura con grave
danno e pregiudizio del nostro bestiame. Per ciò che concerne il passato, noi
opiniamo che debbano costringersi i rispettivi coltivatori e detentori dei
Comunali occupati a pagare alla nostra Villa una risposta congrua a tenore di
quanto verrà fissato dai periti al quale effetto nominiamo i signori Silvestro
Silvestri e Giacomo Guerrini sulle cui perizie si dovranno obbligare i
rispettivi occupanti pagare quanto verrà da questi fissato.”
E nel Consiglio del 3 luglio 1815 leggiamo la seguente deliberazione:
“Occupati da un profondo letargo e vinti da una lenta inerzia i deputati
nella epoca passata eletti e prescelti hanno posto in oblio l’interessante
oggetto dei dissodamenti in modo tale che non si son dati carico di adempiere a
quanto essi dovevano scrupolosamente osservare. Stante la loro inattività siamo
di sentimento crearne due nuovi fissando loro un giusto compenso al fine che con
la massima energia soddisfino ai vantaggi comuni.” Tutto
questo documenta che per oltre mezzo secolo il problema dei dissodamenti abusivi
dei terreni comunali e della loro messa a coltura fu costantemente in prima
linea nei Consigli della Villa di Cupi senza che per altro le carte diano
notizia di essersi raggiunta una qualche pratica soluzione
per reprimerlo. Le prossime operazioni del Catasto Gregoriano finiranno
per legalizzare una situazione di fatto basata sull’abuso senza che per altro
da parte della Villa venisse posta in essere un’energica azione per il
recupero delle terre perdute, perché da quanto si legge nelle deliberazioni
sopra citate, una preoccupazione, se non la maggiore, dei Massari di Cupi era il
peso della dativa che l’Università doveva pagare per terre sottratte alla sua
disponibilità. Ma
l’azione di revisione delle occupazioni, dissodamenti e coltivazione abusive
trovava una remora nella considerazione che una volta che il privato avesse
inscritto in catasto la proprietà comunale abusivamente trasformata era a lui
che gravava il carico delle imposte e quindi poche furono le opposizioni alle
risultanze quantitative del catasto stesso (ci riferiamo a quello Gregoriano),
come poche erano state le osservazioni a quanto era risultato dal catasto Piano
o Devoti. Dalla
parte della Comunità dunque il pensiero di poter risparmiare sulla gravosa
dativa rendeva lenta l’azione di accertamento dei beni usurpati, mentre
l’utente, pensando che l’iscrizione al catasto potesse in parte legittimare
, o per lo meno creare un presupposto di proprietà, facilitava in ogni modo
l’allibramento della terra da lui coltivata regolarmente dopo il dissodamento. Il
fenomeno ebbe certamente carattere generale per tutte le terre delle Ville del
Comune di Visso, le terre migliori naturalmente, e noi siamo certi che lamentele
del genere di quelle riscontrate nel libro delle Deliberazioni dei Massari della
Villa dei Cupi si troverebbero egualmente nelle deliberazioni dei Massari delle
altre Università. Forse le diverse norme Statuarie con le quali si era cercato
di irreggimentare il dissodamento delle terre comuni e le loro coltivazioni
oltre al diritto di cesare sta a dimostrare l’esistenza di un fenomeno di
privatizzazione della terra tenace, malgrado le sanzioni e variamente intenso a
seconda delle epoche. In
tale stato di cose i proventi delle terre comunali sottoposte a coltivazione da
parte di terzi si riduce ai primi del 1800 a cifre irrisorie. Le evasioni, per
usare un termine moderno, erano molteplici e con frequenza diretta alla distanza
dal centro, dove erano più facilmente operanti le repressioni e gli
accertamenti. Da un elenco del 1821 contenuto nel “Registro originale passato
in esigenza nell’anno suddetto e riguardante gli affitti delle Ville e
Castelli rispettivi, la coltura dei terreni dissodati ed il reparto dell’Abbuzzago”
(per il bestiame ivi depascente) rileviamo l’esigua superficie a cui erano
ridotte le comunali dissodate che pagavano la regolare risposta di scudi 0,10
per coppa. In tale elenco figurano: ·
La Villa di Vallopa (Guaita Plebis) con
coppe 32 e mezzo quarto pari ad Ha 6.42.50 con una corrisposta di scudi 3.21; ·
La Villa S. Antonio (Guaita Villa) con
coppe 60 e un quarto pari ad Ha 12.02.50 con la corrisposta complessiva di scudi
5.50 (delle quali terre la maggior parte era ubicata in località Fonte della
Spina dove doveva sorgere l’antico Villaggio Ulmiti); ·
La Villa di Cupi (Guaita Macereto) con
coppe 13 pari a Ha 2.60 con una corrisposta di scudi 1.60; ·
Le Ville di Sorbo e Calcara (Guaita
Uxita) con coppe 4 pari ad 0,40 Ha
e corrisposta di scudi 0,40; ·
Le Ville della Guaita Montanea (Castel
S.Angelo con complessive coppe 36 pari ad Ha 7.20 con una corrisposta
complessiva di scudi 3,62. Superfici
e cifre modeste. Quella di Cupi poi spiega ampiamente le lamentele dei Massari
della Villa. Ci
siamo intrattenuti di preferenza sulle delibere dei Massari della Villa di Cupi
perché nel territorio di tale Villa era compresa la Chiesa di Macereto e buona
parte delle terre del comprensorio che porta tale nome. Particolare
posizione nella zona in oggetto avevano i beni della Fabbrica della Chiesa di
SS. Maria di Macereto: beni che complessivamente si estendono in territorio di
Visso (Cupi) per Ha 54.80.20, in territorio di Ussita (Vallestretta) per Ha
43.07.50 ed in territorio di Pievetorina per Ha 10.52.40: complessivamente Ha
108.40.10. I
beni in territorio di Visso sono per la maggior parte nel Monte Rotagna, cioè
nei luoghi dove sin verso la fine del 1500 i confini furono contestati da
Camerino per il suo Castello di Appennino. Trattasi nella maggioranza di
seminativi e di pascoli, non recinti e non migliorati sui quali grava soltanto
l’uso di pascolo a favore dei bestiami dei naturali del luogo e di proprietà
della Casa di Macereto, come viene chiamata l’amministrazione laica dei beni
del Santuario. Per i beni siti in Comune di Ussita, una parte sono ubicati fuori
del territorio di Macereto, mentre per quelli di Pievetorina, la loro ubicazione
è nel comprensorio che stiamo esaminando. Anche
i beni in questi ultimi due Comuni sono soggetti agli usi di pascolo delle
popolazioni e per quelli ubicati in territorio di Ussita e Visso c’è da tener
conto della corrisposta della fida che grava a favore del Comune per Ussita e
dell’Amministrazione speciale per Visso per il bestiame depascente nel periodo
estivo, cioè da giugno a settembre. Da
un catasto antico della Casa di Macereto, rimontante al 1587, rileviamo come la
proprietà terriera del Santuario fosse su per giù la stessa di quella attuale.
Le varianti successive non sono state molte ed anche a quell’epoca la maggior
parte dei beni immobili figura ubicata nel Monte Rotagna sopra citato, Come si
sia formata questa proprietà immobiliare non è noto e non abbiamo potuto
chiaramente rintracciarlo nei documenti antichi consultabili, perché
nell’Archivio Antico di Visso mancano i documenti relativi al periodo 1300 e
tutto il 1400 e quelli del 1500 presentano alcune lacune, specie nel periodo
intorno al 1520. Ne maggior luce ci forniscono i documenti conservati
nell’Archivio di Ussita che pur interessando il periodo che va dalla fine del
1300 a tutto il 1400, contiene soltanto notizie non interessanti la formazione
della proprietà fondiaria del Santuario. Risulta
dai documenti che verso il 1356 si costruì la prima cappelletta che ospitava la
statua di Maria SS.ma di Macereto, che in breve divenne il centro della
crescente fede religiosa delle popolazioni della zona: fede che si manifestava
anche in maniera tangibile con donazioni, legati e lasciti in denari ed anche
terreni. I canonici del capitolo Vissano allo scopo di aumentare le loro magre
prebende con i proventi della Chiesa di Macereto, ne ottennero da Francesco
Eroli, Vescovo di Spoleto, l’unione alla Chiesa Collegiata di S. Maria in
Visso: unione che accordata il 16 settembre 1517 fu perfezionata con la presa di
possesso il 25 dello stesso mese. Ma in quell’epoca la Chiesa di S. Maria in
Macereto disponeva già di due canonicati, goduti da Chierici di Visso: indizio
questo di un primo nucleo di proprietà terriera in aggiunta alle notevoli
elemosine e legati che da ogni parte affluivano. Dopo
la sentenza del Varano favorevole a Visso (1521), si realizzò il progetto per
la costruzione del nuovo Tempio a somiglianza di quello di Loreto e dice il
Pirri che “ormai di doni, di legati, di elargizioni, di cessioni di terreni
non si contava più il numero”. E negli atti testamentari esistenti
nell’Archivio Distrettuale Notarile di Visso, nel periodo che si inizia dal
1524 sono frequenti i lasciti e le donazioni anche importanti a favore della
Fabbrica del Tempio di Macereto. Importante quello di Cristoforo Perangeli del
1524. nel più antico registro della fabbrica che non risale oltre il 1528 nel
rendiconto finanziario, reso dai fattori incaricati dalla amministrazione dei
beni di Macereto le entrate erano classificate in tre distinte categorie
(ordinarie, delle cassette e straordinarie). Fra le ordinarie erano comprese le
rendite dei fondi stabili e del capitale armentizio, il che
indica una certa consistenza terriera ed il possesso del bestiame. Nel
periodo che va dal 1528 al 1537 complessivamente le entrate assommarono a
fiorini 7.247 mentre le spese per la “dicta fabbrica” ammontarono a circa
7.135 fiorini: cifre di una certa importanza per l’epoca. La dipendenza della Chiesa di Macereto dal Capitolo della Collegiata di S. Maria di Visso aveva per conseguenza che la nomina dei fattori o santesi per l’amministrazione dei beni di Macereto era riservata al predetto Capitolo. Però nel 1562 incorsero contestazioni che condussero ad una vertenza fra il Capitolo e la Comunità di Visso in quanto i fattori uscenti si rifiutarono di riconsegnare i beni loro affidati ai nuovi nominati dal suddetto Capitolo. La questione finì innanzi al Papa al quale si rivolsero i canonici che esposero fra l’altro che fattori e Comunità di Visso si erano messi d’accordo.
Il Vescovo di Spoleto era intervenuta nella questione in quanto Visso
faveva parte della Diocesi Spoletana decretando nel 1572 che la gestione
economica delle entrate della Chiesa, compresi i proventi dei formaggi ed altro
rimanesse affidata alla vigilanza dei Priori della Comunità, ai quali spettava
di renderne conto annualmente innanzi al Capitolo – ut actenus – con
l’intervento del Vicario. La vertenza venne amichevolmente decisa con la
transazione del 12 dicembre 1583 tra il rappresentante del Capitolo di Visso,
come Rettore della Chiesa di Macereto ed i deputati della Comunità come
procuratrice della Fabbrica alla quale venivano attribuiti tutti i proventi e
rendite della Chiesa. Tale transazione fu ratificata dalla Bolla di Sisto V del
26 settembre 1586 e da quel momento cessò praticamente l’unione della Chiesa
di S. Maria di Macereto con il Capitolo della Chiesa di S. Maria in Visso. Le
disposizioni di tale Bolla sono rimaste in vigore sino a quando i beni di
Macereto non passarono sotto l’Amministrazione della Congregazione di Carità
di Visso e quelle che interessano la proprietà fondiaria si riassumono nei
seguenti punti: “Delle rendite di Macereto il Capitolo di Visso ha diritto
a cinque some di grano all’anno perché i suoi Canonici debbono assicurare gli
Uffici divini alla Chiesa e amministrare i sacramenti”. E al punto n. 9 è
detto “proprietaria esclusiva
di tutti i beni mobili e immobili di Macereto e di tutti i proventi di ogni
specie, è la Fabbrica della Chiesa a cui uso debbono essere erogati e spesi”
e nel punto II è specificato che “il Pievano ed i Canonici possono
a propria spesa vigilare l’andamento della mietitura e della vendemmia: ma
tale mansione spetta generalmente ai Cappellani. La nomina dell’economo
generale e degli altri agenti la fa la Comunità (di Visso con un Consiglio
Generale)……del resto l’amministrazione della Chiesa e della Fabbrica è
libera ed assoluta prerogativa della Comunità e dei ministri predetti, sotto la
revisione dei superiori, senza partecipazione alcuna del Capitolo. Tutte le
rendite oltre gli assegni destinati al Capitolo e gli altri pesi vanno erogate
nella Fabbrica e ornamento della Chiesa; e una volta terminate queste opere, nei
restauri e nel mantenimento di esse, e in altri pii usi, ad arbitrio della
Comunità.” Viene
così costituito un ente particolare denominato “Fabbrica della Chiesa di
Macereto” sotto la diretta sorveglianza e responsabilità del Comune di Visso
che ne cura gli interessi e ne amministra le rendite: ente che viene
riconosciuto pacificamente dal Comune come proprietario dei beni immobili e
quindi anche dei terreni relativi. La bolla di Sisto V del 26 settembre 1586
rappresenta quindi il titolo che consacra la proprietà privata delle terre
appartenenti alla Chiesa di Macereto, attribuita ora alla Fabbrica della
predetta Chiesa, con il pieno consenso della Comunità di Visso che ne diventa
l’amministratrice. Questa situazione di diritto fu confermata nel 1678 dal
Tribunale del Buon Governo in una causa fra Carlo Celli “appaltatorem
quadrantis fogliettae Camerini” e la Comunità di Visso: causa che terminò
con una sentenza di Alderano Cibo nella quale è detto “Castrum Macereti
pleno iure cum utili dominio ac omnibus suis iuribus, pertinentiis universis et
adiacentiis, annexis, et connexis spectare, et spectasse ad dictam Comunitatem
Terre Vissi …..” Come
venivano coltivati questi beni della Fabbrica?
In due modi, giusta quanto appare dagli ordinamenti dati dal Cardinale
Alfonso Visconti per il buon governo della Pia Casa di Macereto il 18 settembre
1602, nel punto dove prescrivono che il Depositario di Macereto deve tenere un
libro del “lavoreccio delle terre e di tutti i bestiami tanto grossi come
piccoli ed un altro libro dell’introito dei grani et vini”. Questo ci
dice che una parte dei terreni erano condotti direttamente (introito dei grani e
dei vini) ed una parte data a risposta (cioè fatti coltivare a terzi contro una
corrisposta in danaro o in prodotti) mentre il libro di “tutti li salariati
con nomi distinti et salario che si da loro ogni mese” conferma la
gestione diretta di una parte delle terre e del bestiame. Evidentemente la
conduzione diretta era riservata per le terre nell’ambito dell’altopiano di
Macereto, mentre l’altra forma di coltivazione contro corrisposta era
riservata a terreni lontani, come quelli che la Fabbrica risultava possedere in
Aschio, Visso, Monte Fema ed altre località lontane da Macereto, dove, come
abbiamo visto era però ubicato il corpo principale dei possessi immobiliari
della Fabbrica. Il
Consiglio Generale del Comune di Visso tenuto il 28 agosto 1610 deliberò che
l’entrata dei beni della Madonna di Macereto venisse istituito in Visso il
Seminario che utilizzo una delle case che l’amministrazione di Macereto
possedeva in Visso. A tale spesa contribuiva anche il Comune con 150 scudi
l’anno nonché altri enti e privati in quanto il Cardinale Maffeo Barberini
aveva imposta anche una tassa triennale in ragione dell’1% sui redditi: però
la spesa del Seminario rimaneva quasi totalmente a carico della Pia Casa di
Macereto. Questa
particolare situazione dell’Amministrazione dei Beni di Macereto impedì che
essi fossero incamerati e venduti come beni di Enti religiosi nel 1866 e con
l’istituzione delle Congregazioni di Carità i beni in questione dettero vita
all’Opera Pia Macereto, amministrata dalla Congregazione di Carità di Visso
sino a quando, in conseguenza del Concordato tra l’Italia ed il Vaticano
(1929), i beni stessi cessarono di appartenere all’Amministrazione della
predetta Opera Pia e passarono alla Curia Vescovile di Norcia che ne assunse la
gestione. L’Opera Pia di Macereto, alla quale era rimasto un certo capitale in
contanti proveniente in parte dalla cessione dei beni immobili sopra indicati
alla Curia, continuò ad esistere anche quando le Congregazioni di Carità
furono sostituite dagli Enti Comunali di Assistenza tutt’ora in vigore. Negli
ultimi anni della gestione della Congregazione di Carità di Visso la conduzione
delle terre di Macereto venne cambiata in quanto si nominò un colono al quale
furono affidati i terreni della zona di Macereto: sistema di conduzione che
rimase in vigore fino a non molti anni fa. Comunque con il Concordato i beni
terrieri di Macereto uscirono dalla sfera dell’amministrazione Comunale di
Visso. Come
abbiamo detto, i beni terrieri di proprietà della Casa di Macereto sono
soggetti ora come in antico agli usi civici di pascere delle popolazioni dei
Comuni, o meglio, delle frazioni dei Comuni ove sono ubicati, e data la
continuità della coltivazione (secondo la vicenda stabilita per la zona dove
essi si trovano), non poterono essere soggetti all’esercizio del diritto di
semina in quanto ebbero continuamente un possessore che ne curava non solo la
coltivazione ma anche la ricognizione ad ogni passaggio di fattore. Trattasi
dunque di proprietà mantenutasi inalterata nelle mani dell’Ente, riconosciuta
dalla Comunità come tale e, con la Bolla di Sisto V del 1586, il Sovrano
sanzionava uno stato di fatto e di diritto che perdurò sino al 1929. Sulle
terre della Casa di Macereto però non si è effettuato mai l’affranco delle
servitù civiche di pascolo (ed eventualmente della fida a favore del Comune, se
questo ha titolo per imporla). Esse seguirono quindi la sorte delle terre
dell’Antico Comune di Visso e non si pensò ad approfittare mai delle diverse
possibilità di affranco consentite dalle diverse leggi succedutesi dal 1840 in
poi. Le
altre terre del comprensorio di Macereto possiamo suddividerle in terre che in
catasto figurano intestate ai privati e terre che in catasto figurano intestate
al Comune per gli annessi di Cupi, Vallestretta, Villa S. Antonio (parte minima)
ed Appennino. Dopo
quanto abbiamo letto nel libro delle deliberazioni dei Massari di Cupi possiamo
ben pensare che molte se non la quasi totalità delle terre private seminative
derivino da quelle famose occupazioni e
dissodamenti di terreni comunali dei quali abbiamo dato menzione: seminativi che
in seguito abbandonati per ragioni varie continuarono a figurare in catasto al
nome degli antichi possessori e loro aventi causa in quanto il loro allibramento
impedì quello che si verificava in antico e cioè che, dopo l’abbandono della
terra occupata e seminata, essa ritornava automaticamente al Comune che ne era
in definitiva il proprietario, o alla Villa, come nel caso del Comune di Visso,
dove la proprietà delle terre spettava ai Villaggi che lo componevano. Del
resto questa sottrazione della proprietà comunale, inizialmente coltivata e
condotta attraverso l’antica forma della “possessiones”, dalla sfera
pubblica a quella privata ci sembra che possa attribuirsi alla funzione
meramente fiscale dei primi catasti intesi ad individuare nei possessori delle
terre a qualsiasi titolo elementi suscettibili d’imposta, che, come noto,
affluivano direttamente alle casse comunali. I catasti particellari poi
perfezionarono tale intento, e, pur rimanendo sempre indicativi della proprietà,
finirono per irreggimentarla in modo tale che una volta attribuita è difficile
potersela scrollare di dosso se non si trova il modo di passarla ad altro
soggetto. Però
a dimostrare l’originaria natura giuridica delle terre ora private, rimangono
gli usi, anche se come nell’attuale non figurano più allibrati in catasto. Come
abbiamo rilevato dalla dichiarazione del 1780 rilasciata dal Cancelliere del
Comune di Visso (quasi alla vigilia della compilazione del catasto Piano o
Devoti), le spiegazioni in essa contenute circa la vicenda delle zone seminate a
cereali, si riferiscono ad una presunta rigida tutela dell’industria
predominante nell’epoca, la pastorizia. E parimenti per tale tutela si sono
interpretate le varie disposizioni contenuti negli Statuti, in vigore sino al
1849. Dal contesto di tale disposizioni in materia di pascoli sembra che alla
pastorizia debba essere subordinata ogni
altra attività. Però tutto questo non spiega l’avvicendamento della semina
nelle terre lontane dai centri abitati, aperte e mai migliorate ne migliorabili
sia che si trattasse di “possessiones” o di terre comuni e dissodate. Il
pascolo era si vietato nelle terre recinte principalmente collocate in vicinanza
degli abitati: ma anche la coltivazione era tutelata con il divieto di pascolo
sino a che fieno e grano non erano stati mietuti ed asportati. Anche
a Cupi e quindi la Guaita Pagese della quale faceva parte Macereto, sfogliando i
catasti più antichi, troviamo la dizione: “Tizio habet in suo estimo”. Ciò
ha riferimento a quella che abbiamo indicata come originaria natura del
catasto, detto anche “estimo” o “appretio”, che era quella di reperire
contribuenti e stabilire una delle
condizioni fondamentali per la possibilità di essere eletto a cariche
pubbliche. Quindi anche se nei catasti antichi del 1357, del 1475, del 1533, del
1548 e del 1658 noi troviamo numerose indicazioni di possessori di terre
dell’antico Comune di Visso e quindi anche della zona di Macereto, non
possiamo attribuire ad esse la
funzione di prove di un diritto di proprietà sul tipo di quello moderno. Esse
indicano soltanto una serie di possessori di terre tenuti alla dativa a favore
del Comune e quindi si riferiscono certamente a quelle “possessiones” di cui
sono piene gli Statuti di Visso: “possessiones” che non volevano indicare
che la terra fosse di proprietà dell’occupante e quindi in condizione di
disporne “ad libitum” (come si verificava nelle terre recinte), ma che ne
era semplicemente in possesso. Era la “possessiones” una specie di “terra
signata” sulla quale gli altri membri della collettività dovevano riconoscere
il possesso di chi con il lavoro ne aveva effettuata una prima e semplice
trasformazione, però di pieno interesse della Comunità: trasformazione che
contribuiva a risolvere uno dei problemi più assillanti dell’epoca cioè
quello del rifornimento dei cereali dei quali le Ville di Visso sempre e
comunque urgente bisogno. Le
“possessiones” comunque seguivano le sorti dell’andamento della fertilità
della terra, connessa, anzi subordinata all’esistenza del pascolo di ovini
perché il pascolo vagante di numerosi greggi era l’unico sistema di
letamazione possibile e soltanto con esso e con il riposo si poteva ridare alle
terre messe a coltura una parte della fertilità che la coltivazione stessa le
aveva sottratta. Quindi l’avvicendamento va considerato come una necessità se
non si vuole abbandonare in breve tempo ogni coltura agraria sulle terre lontane
e non come necessità di assicurare un pascolo agli ovini. Ecco
perché gli antichi catasti erano descrittivi nel senso cioè che il terreno non
assumeva una configurazione propria ma veniva caratterizzato dal nome della
coltura praticatavi e delimitato dai nomi dei possessori confinanti. Vi figura
bensì il reddito e la tassa relativa, anzi, nei catasti più remoti, soltanto
la tassa imposta. Solo con l’avvento del catasto particellare la
“possessiones” prenderà una configurazione e si scinderà nelle particelle
tipo ben delimitate e valutate in base a criteri uniformi sulla base di
particelle tipo. E ciò avverrà tanto per i beni così detti privati
come per quelli Comunali: mentre ciò non si verificava in antico.
Diciamo così detti privati perché è evidente che i catasti estimativi, che
presero per base il prodotto allo scopo di stabilire con l’estimo la tassa,
risentirono dell’influenza degli indicatori, perché vennero compilati da
tecnici estranei sulla scorta delle notizie fornite in loco dagli indicatori.
Il
sistema adottato portò, con il complicarsi dell’organizzazione fiscale, al
concatenamento delle intestazioni attraverso le eredità, le compra vendite ed
infine gli acquisti in massa che, effettuati da pochi privilegiati all’epoca
dell’incameramento dei beni comunicativi e la loro successiva messa in
vendita, portarono alla moltiplicazione delle proprietà private che si
costituirono su questi terreni aventi origine comune. Però,
come dicevamo, rimasero gli usi a ricordare l’originaria natura delle terre e
fra gli usi, in modo più evidente, quello di pascolo. Ora noi sappiamo che
l’uso di pascolo è un diritto che spetta
al bestiame dei residenti e non a quello di chi abbia perduta tale qualità
e sappiamo pure che dove non è stato affrancato esso investe anche le proprietà
private non migliorate e non recinte come investiva in antico le
“possessiones”. Esso ha un’importanza limitatrice per il diritto o meglio
per i diritti del proprietario se questo diritto del proprietario è attivo, cioè
se la terra viene regolarmente seminata
e coltivata; ma esso assume un valore preminente quando per una qualsiasi
ragione il proprietario abbandona la terra o meglio abbandona la sua
coltivazione. La
questione ha un duplice aspetto: quello fiscale e quello giuridico sociale.
Quello fiscale è semplice e statico: c’è una terra che rappresenta un
valore; c’è una valutazione di quella terra che si riferisce al reddito di
una classe di particelle tipo. Da tutto questo discende l’imposta che non
abbandona più il proprietario specie se questi trascura il lato economico e
preferisce pagare le imposte senza
percepire reddito alcuno, cioè in pura perdita. L’aspetto giuridico sociale
riguarda invece la parte sempre più preminente che assume l’uso che grava su
queste terre rispetto al “ius serendi” del proprietario che non l’esercita
più ma che impedisce che altri meno provvisti di terra o meglio disposti a
coltivarla possano metterla in valore, specie se hanno la caratteristica di
residenti. La
soluzione logica in tal caso sembrerebbe che gli utenti del diritto d’uso
assorbano completamente lo “ius serendi” non esercitato dal proprietario,
cioè in altre parole gli utenti diventino anche proprietari sostituendosi
completamente a chi non esercita il diritto che la presenza dell’uso civico
lascia alla proprietà. Ma tale soluzione urta contro la disposizione
costituzionale che non consente esproprio senza indennizzo delle proprietà
private. Ma
nel nostro caso la presenza dell’uso da una nuova configurazione al problema
in quanto ripone in gioco la natura originaria delle terre sulle qual, come nel
caso di Macereto, si sarebbe venuta a costituire una proprietà privata indicata
dal catasto come tale, ma della quale non è chiara l’origine, almeno stando a
quanto si è letto nel registro delle deliberazioni dei Massari di Cupi. Se
si trattasse di proprietà veramente private, non coltivate, si potrebbe anche
pensare all’applicazione della legge relativa alla concessione di terre ai
contadini o, per essere più precisi, alle associazioni di contadini (D.L. Luog.
19 ottobre 1944 n. 279 seguito dal D.L.L. 26 aprile 1946 n. 597 con le
modificazioni dei DD.LL. 6 settembre 1946 n. 89 e 27 dicembre 1947 n. 1710 e
Legge 18 aprile 1950 n. 199) come se si trattasse di terre private (vecchie
proprietà allodiali) gravate dagli usi civici se ne può procedere
all’affranco seguendo le disposizioni stabilite dalla legge 16 giugno 1927 n.
1766. Ma
da quando siamo andati esponendo ci sembra dimostrato che nella fattispecie la proprietà privata di Macereto, con
le esclusioni che abbiamo riscontrato o
per affranchi o per i beni della Pia Casa di Macereto, si sia costituita su
territorio di demanio comunale (proveniente da precedente demanio feudale) senza
che l’occupatore via abbia apportato nel corso di secoli sostanziali e
permanenti migliorie e determinando con la sua occupazione l’interruzione
della continuità dei terreni comunali. Sono terre, in altre parole, che senza
la concatenazione determinata dalla iscrizione in catasto sarebbero tornate in
piena disponibilità delle Comunità alla quale furono un tempo sottratte, non
appena si fosse determinato il fenomeno dell’abbandono della coltivazione che
era stata la ragione prima dell’occupazione della terra e della limitazione
degli usi di pascolo che vi gravano. Va
tenuto anche conto che un’indagine approfondita per ottenere la certezza che
le particelle di terreno che nell’attuale catasto figura allibrate a privati,
abbiano effettivamente la natura di terre private, comporterebbe una spesa tale
da superare largamente il valore delle terre stesse e richiederebbe un tempo
talmente lungo da ritardare sine die l’eventuale affranco e l’applicazione
delle leggi di bonifica, senza le quali le terre di Macereto sono destinate ad
essere completamente abbandonate, come tante altre terre della montagna. Ci
corre anche il dovere di rappresentare come le terre di Macereto presentino la
caratteristica della polverizzazione della proprietà e del frammischiamento
delle particelle che la compongono. Eccettuate le terre intestate al Comune per
l’annesso di Cupi, Vallestretta ecc., al Santuario di Macereto ed alla Società
Agricola di Macereto che pur essendo composte di diversi appezzamenti non
contigui, nel loro complesso costituiscono superfici di una certa entità, la
rimanenza è suddivisa in un inverosimile numero di fazzolettini che rende
impossibile qualsiasi razionale coltivazione e crea difficoltà per il transito
e per gli abbeveraggi qualora la zona fosse sottoposta continuamente a
coltura. Dunque, salvo poche
eccezioni, le proprietà private che figurano in catasto sono largamente al di
sotto di quella minima unità colturale stabilita dalla legge con conseguente
dispersione di lavoro e diminuzioni di redditi che il più delle volte sono a
carattere negativo. L’esistenza
dell’uso di pascolo, del legnatico e della semina completa il quadro della
situazione giuridica, agraria e sociale della zona. Chi
è rimasto attaccato alla terra vuol migliorarla per aumentare le sue possibilità
di vita, o meglio per non vederle sparire. Però i pochi rimasti di terra ne
hanno troppa poca intestata in catasto e non possono migliorarla. Si sta creando
un momento psicologico delicato che ricorda quello già lamentato dai Massari di
Cupi nei primi del 1800 nelle deliberazioni dianzi citate: cioè la psicologia
dell’occupazione per coltura delle terre dove la stessa è possibile, in
particolare dei seminativi abbandonati da quegli ex coltivatori che spesso da
molto tempo non sono più abitanti e cittadini dei Comuni che si affacciano
sull’altipiano di Macereto. La soluzione della questione è importante, ma
essa esula dall’indagine che stiamo facendo. Però ci siamo permessi di
tratteggiarla data la sua importanza. Dunque
le terre dell’altopiano di Macereto, eccettuate la parte affrancata nel 1958
sono soggetti agli usi civici di pascere e legnatico da parte delle popolazioni
interessate di Cupi, Vallinfante, Villa S. Antonio ed Appennino; uso che per i
prati, pascoli e seminativi interessa anche le terre private o risultanti in
catasto come tali. Il legnatico interessa invece i boschi comunali nei quali però
si effettua anche il pascolo quando le disposizioni forestali lo consentono. Però
i boschi sono quali scomparsi dall’altopiano di Macereto, certamente per i
dissodamenti indiscriminati avvenuti nei primi del 1800 e dei quali è
cenno nel libro delle Deliberazioni dei Massari di Cupi dianzi citato e nel
rapporto della Delegazione Apostolica di Camerino che abbiamo trascritto nelle
pagine precedenti. Attualmente
non risulta in esercizio il diritto di semina, ne risultano corrisposte per
terre comunali affittate a tali scopo. Però l’esistenza di tale diritto
civico fu oggetto della denuncia del 2 giugno 1926 del Comune di Visso e Ussita
e l’espressione usata fu la seguente: “si dichiara che agli effetti del
R.D.L. 22 maggio 1924 n. 751 nel
territorio di detto Comune esistono da tempo immemorabile diritti di uso civico
di pascere, di legnare e di semina a vantaggio della generalità degli
abitanti”. Parimenti
sulle terre del comprensorio di Macereto è imposta dai comuni interessati
(Visso e Ussita) e dalla Comunanza o meglio Promiscuità di Appennino, Vari e
Gabbiano, la tassa di fida e pascolo sul bestiame depascente nei terreni, anche
privati, soggetti a tale servitù. Per
l’Altopiano di Macereto non siamo a conoscenza di vertenze interessanti la
natura giuridica delle terre relative o riguardanti gli usi gravanti le terre
medesime. Riteniamo che le sentenze del 1868 del Tribunale di Camerino nella
causa Sili, Rosi e Caporioni contro il Comune di Visso (del quale allora faceva
parte Ussita) che riconosceva le proprietà di tali privati esistenti in
territorio Ussitano esenti dalla tassa di fida, e quella della Giunta degli
Arbitri di Camerino del 1893, interessanti beni degli stessi proprietari che li
dichiara affetti da un compascolo regolato dalle disposizioni del Codice Civile
e non soggetto alla legge sugli usi civici, non possono in nessun modo estese a
beni di privati o considerati tali dall’attuale catasto. E ciò perché per
l’altopiano di Macereto per la parte che interessa l’antico Comune di Visso,
cioè la maggior parte della sua estensione, viene a mancare la base per
l’applicabilità della sentenza della Sacra Rota del 1857 nella lunghissima
causa per il pascipascolo fra il Comune di Visso e la sua frazione Ussita, in
quanto i beni siti in Macereto sono chiaramente specificati nell’atto di
vendita del 1255 fatto da Tiboldo al Comune di Visso (Castello di Macereto e sue
pertinenze): Dopo
la costruzione del Tempio di Macereto e del monumentale Palazzo delle Guaite,
nonché del porticato da adibirsi per le fiere, il nome del Castello di Macereto
passò dalla località dove ora si rinvengono gli antichi resti del castello dei
Boncompagni (Rochemacerete) al gruppo di fabbricati costituiti dal
Tempio, dal Palazzo delle Guaite, dalla casa per la scorta armata, dalla fontana
e dai magazzini e cantini e ricoveri per il bestiame che formavano, allora come
oggi, un complesso cinto da mura ed al quale si accedeva per due porte: quella
verso Ussita e quella verso Visso o meglio verso Cupi e Camerino. Nei primi del
1800 troviamo infatti che parecchie aste per l’affitto del pascolo della
Bandinella di Cupi si “tennero nel Castello di Macereto dove fu accesa la
candela relativa all’asta in questione”. Altro
diritto civico, oltre quelli di pascolo, legnatico e semina è quello di
spigatico, che però da parecchi anni non è più esercitato, ma del quale però
è rimasta traccia nel divieto di pascolo nelle mezzane e nelle stoppie fino a
quando il grano non è stato asportato. L’esercizio
degli usi è avvenuto sempre conforme alla regolamentazione contenuta negli
Statuti, nei Capitoli del Danno dato e nel Regolamento di Polizia Rurale dei
Comuni interessati. CONCLUSIONI
Dai documenti esaminati e dalle considerazioni fatte
nelle pagine precedenti risulta chiaramente per le terre tutte costituenti il
comprensorio di Macereto, dopo l’occupazione Longobarda, quanto segue: 1. che sino al 1259 esse avevano la natura di terre feudali con le forme economiche e sociali inerenti al feudo e quindi seguirono l’evoluzione delle istituzioni feudali possibili in relazione alla natura delle terre stesse. 2. Che dopo il 1259 esse passarono sotto il dominio dei Comuni di Visso e Camerino e quindi seguirono le regolamentazioni per l’uso delle terre e nei diritti delle popolazioni in esse dislocate stabilite dalla progressiva organizzazione economico giuridico sociale dei Comuni di appartenenza, che specie nei primi tempi fu una conservazione dei regolamenti di uso dell’epoca feudale. 3. Che nell’epoca comunale gli Statuti di Visso regolavano la coltivazione delle terre comuni e dall’armonica interpretazione delle disposizioni statuarie risulta evidente l’esistenza dei diritti di semina e di legnatico a favore delle popolazioni dei Villaggi ubicati nel comprensorio e del diritto di pascolo a favore dei bestiami dei residenti nelle ville suddette. Il tutto con le limitazioni ed i temperamenti stabiliti che si riassumono per i seminativi nell’avvicendamento obbligatorio, nell’autorizzazione del Comune e nel pagamento del “coptimum” o “terratico”: per il legnatico con le limitazioni contenute in apposite deliberazioni del Consiglio Generale del Comune su richiesta dei Massari delle Ville dove i boschi erano ubicati; per il pascolo dei bestiami grossi e minuti con le limitazioni determinate dalle difese o bandite, dall’esistenza dei ristretti e delle necessità della coltivazione e dei raccolti sia di foraggi che di cereali, con le formalità della licenza dell’ammandriare e del pagamento della fida di pascolo per il periodo che andava da Giugno a Settembre per i bestiami transumanti e stanziali dei residenti. Si è accertato anche per ogni Villa compresa nell’ambito del comprensorio di Macereto l’esistenza di speciali bandite per il pascolo di bovi aratori. 4. Che l’originaria proprietà delle terre in questione è attribuita e riconosciuta dai Comuni di Visso e di Camerino alle Ville e ai Castelli dislocati nel comprensorio: Ville che provvedono all’amministrazione delle terre in conformità delle necessità delle popolazioni disponendo di Massari propri. Abbiamo visto che negli atti di transazione per questioni intercorse fra Visso e Camerino, i Comuni predetti intervengono chiaramente nell’interesse ed in rappresentanza delle rispettive Ville alle quali è riservata anche la possibilità di usare in esclusiva per semina, pascolo e legnatico, le terre comuni. Su queste terre i Comuni esercitano una funzione giurisdizionale e con la costituzione di bandite e limitazioni temporanee di diritti di uso da parte delle popolazioni interessate su pascoli e boschi e massimamente con il regolamento del diritto di cesare o far ranco difendono le terre comuni dall’erosione provocata dal disboscamento e dal conseguente dissodamento e semina. 5. Che nel comprensorio in esame non si rintracciano ora zone ristrette, coltivate a vigne, cereali, canapa eccetera, per quanto dai documenti citati risulti evidente l’esistenza in antico di vigneti nella zona di Macereto e di Cupi. Salvo pochissimi prati tutte le terre sono aperte e non risultano migliorate. 6. Che le terre in oggetto, ad eccezione di quelle recentemente affrancate, sono tutte gravate dagli usi di pascolo dei bestiami delle popolazioni residenti, mentre del diritto di semina largamente praticato in antico e del quale sin nel primo ventennio del 1800 troviamo traccia nei documenti consultati non risulta attualmente l’esercizio. 7. Che nel comprensorio di Macereto riscontriamo attualmente moltissime proprietà allibrate in catasto a privati. Eccettuato i beni di proprietà della Pia Casa di Macereto, dei quali possediamo i titoli che sin dal 1586 ne stabiliscono il riconoscimento di terre private, e di quelle recentemente affrancate dalla Società costituita dai Sigg. Scolastici, Arcangeli, Laurenti, Lucarelli e Honorati delle quali riteniamo che all’atto dell’affranco sia stata accertata la reale natura giuridica, dobbiamo ritenere che queste proprietà si siano venute gradatamente formando dall’erosione delle terre comunali in conseguenza dell’esercizio dei diritti di semina e di cesare o far ranco irreggimentati dalla fine del 1700 nei catasti che da tale epoca si sono susseguiti. Tale giudizio, per quanto riguarda le terre facenti parte degli attuali Comuni di Visso e di Ussita, è comprovato da quanto è avvenuto dalla seconda metà del 1700 al primo quarto del 1800, cioè da occupazioni arbitrarie di terre comuni e della loro messa a coltura. Occupazioni che non riportarono le necessarie legittimazioni da parte dell’ente proprietario delle terre. 8. Che in antico le terre soggette al diritto di semina da parte delle popolazioni interessate, una volta che tale diritto non veniva esercitato, ritornavano automaticamente nella sfera di libera disponibilità dell’ente. E parimenti le terre disboscate, dissodate e coltivate, una volta che la coltivazione, per qualsiasi motivo, veniva abbandonata, ritornavano egualmente in piena disponibilità della Comunità che ne stabiliva a suo beneplacito l’uso successivo. 9. Che nell’esercizio degli usi, in antico come attualmente, non venivano ammessi se non i residenti nella Villa in cui erano ubicate le terre soggette agli usi. Perduta la qualità di residenti o di “cives”, per un motivo qualsiasi, veniva a cessare la possibilità di usufruire o godere degli usi, e nel caso dell’uso di cesare o di far ranco, le terre relative tornavano ad essere disponibilità per la Comunità. In caso di perdita di tali diritti per sanzione penale, le terre dovevano, se private, essere riacquistate dai parenti o ritornare al Comune che ne disponeva quindi liberamente. 10. Che attualmente nel comprensorio di Macereto esistono molte terre non coltivate i cui proprietari, almeno quelli che figurano in catasto, si sono da tempo trasferiti in altri Comuni. 11. Che le terre allibrate in catasto a privati presentano i caratteri della polverizzazione della superficie e della frammentazione della proprietà stessa: indici questi che lasciano supporre che tale caratteristica derivi da un’appropriazione o da una messa a coltura delle terre migliori avvenuta disordinatamente in diversi tempi. 12. Che le terre intestate al Comune in rappresentanza delle Ville proprietarie originarie, sono per la maggior parte terreni pascolivi e boschivi o diventati tali perché costituiti da seminativi antichi abbandonati e rientrati nella sfera delle terre comuni. Comunque le terre comunali, pur costituendo nel loro insieme appezzamenti di una certa superficie, non hanno carattere di continuità in quanto inframmezzate da terre intestate in catasto a privati. Tutto questo impedisce qualsiasi miglioramento delle terre stesse e crea seri imbarazzi per uno sfruttamento razionale delle terre stesse sia da parte dei privati che della Comunità. 13. Che in dipendenza della povertà dei terreni per l’altitudine e per le condizioni climatiche in cui si debbono svolgere le colture, per l’impossibilità pratica di applicare le nuove tecniche dell’agricoltura montana, per l’alta quota di lavoro manuale che la coltivazione impone, i redditi delle colture e degli allevamenti hanno carattere negativo ed in ogni caso insufficiente per mantenere un tenore di vita anche modestissimo per le popolazioni che ancora resistono e permangono attaccate alla loro terra. 14. Che anche effettuando l’affranco degli usi gravanti sulle terre private, le dimensioni dell’azienda individuale rimarrebbero talmente insufficienti per una coltura redditizia che poco vantaggio economico ne ricaverebbero gli interessati i quali, per altro, dall’affranco vedrebbero ridotte le già scarse superfici di cui dispongono mentre l’esistenza delle terre abbandonate, anche se affrancate, non influirebbe sulla superficie disponibile per i coltivatori a meno che non se ne procedesse all’acquisto o all’esproprio o all’occupazione, procedure quest’ultime di difficile attuazione per le eventuali opposizioni, pretese e contestazioni e per il costo elevato che richiedono per essere portate a termine. 15.
Che la natura feudale delle terre di Macereto trasformatasi poi in quella
di demanio delle Ville dopo i noti acquisti di Camerino e di Visso e mantenutasi
inalterata sino ad oggi in quanto le terre stesse non vennero mai affrancate,
salvo la parte riguardante l’affrancazione del 1958, mai recinte, mai
migliorate, suggerisce l’idea di procedere alla rivendicazione ed alla
reintegrazione di tutte le terre occupate da privati, eccettuate quelle della
Pia Casa di Macereto per le quali esiste documento valido di legittimazione,
provvedendo poi alla successiva ridistribuzione agli aventi diritto di tutte le
terre utilizzabili per la messa a coltura con concetti moderni e razionali
rotazioni. Così
procedendo si potrebbero costituire aziende agrarie montane disponenti
d’adeguata superficie e quindi autosufficienti perché alle terre attualmente
coltivate si aggiungerebbero quelle abbandonate e quindi i titolari delle nuove
proprietà, naturalmente libere da usi, avrebbero a disposizione una superficie
maggiore di quell’attuale, unita e razionalmente distribuita, integrata da
quelle terre che non essendo suscettibili di coltura, rimarrebbero assegnate
alle Comunità per la destinazione a pascolo o a rimboschimento. Quelle terre
attualmente intestate alle Comunità suscettibili di essere coltivate, per
quante poche esse siano, si aggiungerebbero alla massa di terre da
ridistribuire. E’ nostra opinione che soltanto un provvedimento come quello sopra indicato potrà consentire un’efficace opera di bonifica agraria e sociale del comprensorio di Macereto, specie se per la coltivazione si passerà dalla forma singola a quella associata. Ma anche continuando nella forma singola la nuova azienda agraria di maggiore dimensione permetterebbe l’applicazione della moderna tecnica colturale aprendo nuove possibilità di vita per le popolazioni che ancora permangono sull’altopiano di Macereto. I redditi insignificanti ed insufficienti attuali potrebbero essere aumentati e di molto rendendo possibile per l’avvenire alle famiglie degli agricoltori locali di permanere in loco senza i gravi e numerosi sacrifici attuali che sono la causa prima dello spopolamento e dell’abbandono della montagna. Macerata 24 gennaio 1960 PIRRI
– Il Santuario di Macereto presso Visso. FUMI
– l’Archivio dell’Antico Comune di Visso. SANTONI
– Gli Statuti del Comune di Visso. PIRRI
– L’Archivio del Castello di Ussita. |