" Lungo i sentieri della follia"

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Edvard Munch (1863-1944)[1]

Ho ricevuto in eredità due dei più terribili nemici dell’umanità: la tubercolosi e la malattia mentale. La malattia, la follia e la morte erano gli angeli neri che si affacciavano sulla mia culla.”

Munch, minato tutta la vita nella sua salute mentale, rappresenta il caposcuola rivoluzionario nell’arte nordica come Cezanne lo fu per quella francese, dimostrando la capacità di tradurre in arte le sottili forze dello spirito, le contraddizioni sociali e psicologiche del suo tempo, dall’incertezza del futuro alla disumanizzazione della società borghese, dalla solitudine umana al tragico incombere della morte, dall’angoscia esistenziale alla crisi dei valori etici e religiosi nella “belle époque”. Si sforzò insomma di rappresentare l’essenza stessa della vita.

 Edvard Munch nasce il 12 dicembre 1863 a Löten vicino ad Oslo, da una delle famiglie norvegesi più note. Durante l’infanzia molti sono i lutti familiari che lo sconvolgono e lo convincono di essere predestinato ad una vita di angosce, tanto da caratterizzare drammaticamente il suo percorso artistico: nel 1868 muore la madre e nel 1878 anche l’amata sorella Sophie.

Fin dall’età di sette anni dimostra il suo talento per la pittura, riproducendo con grande realismo i movimenti incerti e goffi di alcune persone cieche che ha visto per strada, e il padre appoggia subito l’inclinazione artistica del figlio anche se la situazione economica della famiglia non è rosea. Munch sembra felice solo quando dipinge e si dedica anima e corpo al suo interesse principale; infatti scrive “sono adesso deciso a diventare pittore”, si iscrive ai corsi serali dell’Accademia di disegno e segue le lezioni di Christian Krohg.

Nel 1885 una borsa di studio statale gli dà la possibilità di recarsi per un breve soggiorno a Parigi, dove è subito attratto dall’Impressionismo: infatti tutte le opere di questo periodo si rifanno a questo movimento pittorico.

La mia prima rottura con l’Impressionismo fu la Fanciulla Malata, io cercavo l’espressione”. L’opera rappresenta una giovane ragazza dai capelli rossi, a letto, appoggiata a un enorme cuscino bianco e, vicino a lei, a farle compagnia, una figura femminile inginocchiata e con il capo reclinato.

La fanciulla muta, di profilo, con lo sguardo vitreo e allucinato, sembra aver già sentore della sua triste fine e sembra farsi consolare dalla donna che le accarezza la mano. Le mani sono delineate da pochi tocchi decisi di colore e rappresentano il centro dell’intera composizione che segue due linee diagonali ipotetiche. La prospettiva dell’ambiente è angusta, tutto sembra schiacciato contro la parte con il tendaggio verde.

Munch riesce a comunicare l’odore della malattia e dei medicinali, l’aria pesante, viziata e il senso di chiuso. Questo grazie anche alla particolare luminosità creata nel dipinto: la luce proviene solo dal cuscino e dal pallore della ragazza, in modo tale che anche la luce risulta carica di spettralità e drammaticità.

 Questo quadro del 1886 rappresenta un nuovo modo di dipingere, un’intuizione che condurrà di lì a poco all’Espressionismo, che propone la nuova traduzione della realtà in pittura, cogliendo lo spirito segreto, l’anima, l’essere delle cose e delle persone.

Munch crea il passaggio dall’Impressionismo, nato nella Francia razionalista, cartesiana e pragmatica, all’Espressionismo che si sviluppa, quasi confuso con la poetica simbolista, nei paesi nordici, spiritualistici, romantici, dominati dall’angoscia esistenziale. Egli sembra rendersi conto della nascita del nuovo movimento e delle grandi innovazioni che ha portato in campo pittorico, abolendo ogni tradizionalismo, come il disegno e il chiaro scuro; infatti scrive: “a seconda dei diversi momenti si vede con occhio diverso…il modo in cui si vede dipende anche dall’umore…perché non bisogna dipingere una sedia, ma quello che si è sentito guardandola.”

Dopo il 1886, Munch e le sue opere suscitano ancora maggior clamore, ma la notorietà dell’artista continua a crescere e, tra il 1889 e il 1892, soggiorna in Francia, a Parigi e a Nizza. Lo stimolante clima culturale permette a Munch di studiare le più straordinarie creazioni dell’arte moderna, nelle opere di Signac, Seurat, Van Gogh, Toulouse-Lautrec, Monet e Pissarro.

All’improvviso una nuova tragedia familiare colpisce lo sfortunato pittore: nel novembre del 1889 muore il padre e la famiglia si trova ancora in una difficile situazione economica. Munch riesce a risolvere i problemi finanziari con l’assicurazione di cinque suoi dipinti bruciati a Oslo, ma in lui il senso di solitudine e malinconia si esasperano: “io vivo con i miei morti, mia sorella, mia mamma, e mio padre soprattutto.”

Con la terza borsa di studio, Munch ha l’occasione di avvicinarsi alle tele di Gauguin, che segnano molto l’animo turbato dell’artista: forte è l’influenza del pittore francese sulla creazione di un nuovo linguaggio simbolista e sintetista.

Nel periodo tra il 1891 e il 1892, Munch accoglie le nuove concezioni filosofiche e simboliche dell’esistenza e le sue opere hanno lo scopo di rappresentare il destino dell’uomo e di sublimare l’esistenza individuale in un più ampio disegno.

“La mia pittura è, in realtà, un esame di coscienza e un tentativo di comprendere i miei rapporti con l’esistenza. È, dunque, una forma di egoismo, ma spero di riuscire, grazie a lei, ad aiutare gli altri a vedere chiaro.”

Munch è lo specchio, in pittura, della trasformazione in atto in tutto l’ambiente intellettuale dell’epoca: il passaggio da un crudo Realismo ad un nuovo Romanticismo, in cui i sentimenti e lo spirito prevalgono sui sensi, e da un Impressionismo di genere ad una pittura simbolistica (“dovremmo smettere di dipingere interni con gente che legge e dorme, che lavorano a maglia, dovremmo dipingere gente che vive, che respira, sente, soffre, ama”).

Nei sui diari Munch scrive ancora: “Si può così esprimere tutto ciò che è talmente sottile da essere appena un’intuizione, un pensiero, una ricerca. Il Simbolismo dice di essere l’immagine della propria emozione.”

La pittura di Munch è come poesia, poiché, come la poesia, sa inventare una nuova realtà; e questa nuova “arte” diventa famosa e incide anche fuori dai confini norvegesi, dopo la mostra scandalo del 1892 ad Oslo. Infatti nello stesso anno a Berlino, dove si era recato su invito dell’Associazione degli Artisti, i suo dipinti sull’amore e sulla morte provocano reazioni violente e la chiusura della mostra da parte delle autorità; ma, in nome della libertà di espressione, numerosi artisti, guidati da Max Liebermann, si staccano e fondano la “Secessione di Berlino”, sancendo così la rottura con la tradizione pittorica europea, ancora legata al concetto di imitazione della natura.

Munch trascorre alcuni anni a Berlino, dove frequenta la cerchia di letterati che si raccoglie attorno a Strindberg e Przybyszewski e a quell’ambiente che, attraverso il contatto con la filosofia di Kierkegaard, Schopenhauer e Nietzsche, acuisce ancor di più il malessere di Munch. Forse è proprio questo che porta il pittore a comporre nel 1893 il suo capolavoro, Il Grido, che è considerato l’espressione tipica della condizione angosciante dell’uomo moderno.

“Camminavo lungo la strada con due amici- il sole tramontava- il cielo si tinse improvvisamente di rosso sangue- mi fermai- mi appoggiai stanco morto al parapetto- sul fiordo nerazzurro e sulla città c’erano sangue e lingue di fuoco- i miei amici continuavano a camminare e io tremavo ancora di paura- e sentii un grande urlo infinito che attraversava la natura.”

È questa scena e questa emozione che Munch vuole esprimere con la sua meravigliosa opera, ricercando l’analogia fra suono e colore.

Lo scenario è lo stesso di alcuni quadri precedenti, anticipatori del Grido, come Disperazione e Sera sulla via Karl Johan, entrambi del 1892: la baia con le barche che sembrano insetti e il ponte con il parapetto della località di Nardstand.

Agli “spettri” che affollano la grande strada Karl Johan, illuminata da luci macabre, e all’uomo solo con la sua angoscia affacciato al parapetto in Disperazione, si sostituisce nel Grido, un’immagine ancora più inquietante: quella di un “cadavere” attanagliato e terrorizzato dal suo stesso urlo, che le due persone dietro a lui, appena stilizzate dal pittore, non riescono a sentire. L’uomo che leva, alto, inascoltato, il suo urlo terribile, è un essere serpentinato, come privo dell’ossatura scheletrica, e composto dalla stessa materia filamentosa con cui sono realizzati il cielo infuocato e il mare oleoso. La testa è semplicemente un cranio repellente, senza capelli, come di un sopravvissuto ad una catastrofe atomica. Le narici sono quasi inesistenti, due piccolissimi fori, gli occhi sbarrati sembrano aver visto uno spettacolo aberrante, e le labbra nere, putride, ricordano quelle dei cadaveri. La sua posizione e l’atto di tapparsi le orecchie sono ricorrenti nei quadri di Munch e derivano, secondo gli studi di alcuni storici dell’arte, da una mummia peruviana vista dal pittore al Musée de l’Homme di Parigi e da cui trasse ispirazione anche Gauguin.

La sconcertante iconografia usata da Munch sottolinea con forza come nelle sue opere, e soprattutto nel Grido, i contenuti non sono mai disgiunti dalla forma, priva di qualsiasi residuo naturalistico, carica delle angosce più profonde dell’artista. Il quadro è forse il più tragico autoritratto dell’autore durante il suo “viaggio” a rischio di follia: “i miei quadri sono i miei diari”.

“Poteva essere dipinto solo da un pazzo”: questo è l’angosciante commento del pittore al quadro, scritto tra le infuocate nuvole rosse della più nota versione del dipinto.

L’angoscia e la drammaticità espresse dalla figura in primo piano sono esaltate dal contrasto tra le linee trasversali della strada e quelle orizzontali del cielo rosso fuoco, e dai colori.

“Dipinsi le nuvole come sangue vero, i colori stavano urlando.” Infatti i colori del paesaggio sono stesi sulla tela con vitalità, fluidità e aggressività, come onde sonore che si propagano dal fondo verso l’osservatore, da quella bocca straziata verso quelle convulse pieghe del cielo, della terra, del mare.

Al contrario, il ponte e la balaustra sono resi come linee rette in prospettiva, come se volessero guidare lo sguardo dello spettatore verso il fondo della scena, dove vi sono due personaggi di spalle del tutto indifferenti a quell’urlo straziante.

Ad una più attenta lettura simbolica del quadro, il ponte richiama gli innumerevoli ostacoli che ciascuno di noi deve superare nella propria esistenza, mentre i “presunti amici”, che continuano a camminare incuranti del nostro sgomento, rappresentano con cruda disillusione la falsità dei rapporti umani.

Il grido risulta essere un fatto interiore che gli altri non possono sentire; solo il pittore, come unico essere consapevole, lo avverte così forte che è costretto a tapparsi le orecchie. L’urlo si è seccato in gola: altrettanto secca è la figura in primo piano, svuotata e paralizzata.

Il grido di Munch è privo di suono, ma a volte il silenzio può essere così assoluto da straziare l’udito.

La stessa atmosfera è descritta dalle parole che Nietzsche fa pronunciare a Zarathustra: “ieri verso sera ha parlato a me la mia ora senza voce, questo è il nome della mia padrona […] Mai avevo udito un tale silenzio attorno a me: tanto che il mio cuore ne fu atterrito. Allora sentii parlarmi senza voce […] e io urlai atterrito dopo questo sussurro, esangue si fece il mio viso ma tacqui.”

Il terrore di cui parla il filosofo è lo stesso panico esistenziale che pervade la creatura di Munch: inquietudine e impotenza di fronte ai fantasmi del proprio inconscio.

Nel quadro di Munch torna anche l’idea romantica del paesaggio interiorizzato e della natura come frutto della scintilla divina, che solo l’artista nella sua solitudine e nella sua follia può percepire. Egli sente tutto il dolore del mondo e soffre di un’ansia cosmica.

È la stessa angoscia, “è una paura che è presagio di un terremoto”, di cui aveva parlato Kierkegaard, e quell’urlo infinito è “il grande urlo attraverso la natura” del Crepuscolo degli Dei di Heine, un verso che lo stesso Munch scrive su una delle tante varianti del Grido.

Del grande capolavoro di Munch esistono più di 50 versioni, dipinte per riuscire ad avvicinarsi sempre di più alla “prima emozione”; anche se è consapevole dell’impossibilità di riprodurla, l’artista sente che non ci si salva dimenticando: “se riprendo più volte un tema è per calarmici dentro più profondamente. Un’immagine non si esaurisce in un unico dipinto, ogni versione rappresenta un contributo al mio sentimento della mia prima impressione”.

Dopo il Grido, ancora a Berlino, sull’esempio di Strindberg, prendeva forma il suo progetto del Fregio della Vita: concepire le proprie opere come le tessere di un insieme unitario inteso a rappresentare il destino dell’uomo, per cui Munch diventa “il pittore esoterico dell’amore, della gelosia, della morte e della tristezza”.

Dopo il viaggio a Parigi dell’86, per Munch si profilano novità sia in campo artistico che personale: inizia a dedicarsi alle prime litografie e incisioni e conosce la bella, libera e intelligente Tulla Lorsen, con cui visita il Bel Paese: Firenze e Roma. Purtroppo il rapporto con la donna si incrina presto e la sua fine sancisce l’inizio di un periodo nero per il pittore. Munch si sente “stanco abbattuto, malato”, tanto che occupa il suo tempo disegnando e bevendo fin dalle prime luci del mattino.

Nel 1906, dopo aver dipinto il più bel ritratto di gruppo del ventesimo secolo (“I figli del dottor Linde”), si ferma a Weimar, dove frequenta la sorella di Nietzsche. Ma questo per lui non è certo un periodo felice, soprattutto in campo sentimentale; del resto l’amore è visto dall’artista solo come lotta e sofferenza, passione e gelosia, tensione e violenza.

Lo stato di continua agitazione, le quotidiane ubriacature, esplodono nel 1908 in una forte crisi nervosa e Munch viene ricoverato in una clinica. Dopo la guarigione e il ciclo pittorico per l’Aula Magna dell’Università di Oslo, che viene definitivamente approvato nel 1914, vive un periodo sereno; frequentissimi sono i viaggi in Europa e nel Nuovo Continente, dove la fama del pittore norvegese è grande.

Ottenuti gli ultimi riconoscimenti a Berlino nel 1927, negli anni trenta Munch è boicottato dal nazismo e il suo lavoro continua nell’isolamento quasi completo. Le sue ultime opere sono bellissimi autoritratti che mostrano un uomo solo, desolato, vinto, un uomo che vive come un fantasma rassegnato, perseguitato dai fantasmi del passato e dalle ossessioni di una vita che non è riuscito a cogliere nella sua pienezza, straniero a se stesso e agli altri, predestinato ad una eredità di dolore e di morte.

Morte che lo salva il 23 gennaio 1944, dopo di che tutte le sue opere sono donate alla città di Oslo.

“Tutto ciò che ho da dare sono i miei quadri, senza di essi sono nulla.” Le sue opere, come scrive con le sue ultime forze, sono il suo grande tesoro, dono all’umanità intera e il Grido verrà ricordato nell’eternità come dipinto che, aprendo l’era dell’Espressionismo, mise a nudo la folle inadeguatezza e l’insoddisfazione dell’uomo moderno.

“L’uomo chiede urlando la sua anima, un solo grido d’angoscia sale dal nostro tempo. Anche l’arte urla alle tenebre, chiama al soccorso, invoca lo spirito: è l’Espressionismo.” (Hermann Bahr).

 

Se si dovesse riassumere la complessa e ambigua personalità di Munch, le parole da usare sarebbero: bevitore, litigioso, arrogante, ma anche malato di quella follia che lo portò a dipingere il Grido e geniale tanto da anticipare e aprire l’era dell’Espressionismo.

Forse anche Edvard Munch può essere definito un genio–folle e numerose sono le tracce che lo confermano nella sua biografia:

 

§           Infanzia segnata indelebilmente da tragici e sconvolgenti lutti familiari: prima la morte della madre, poi della sorellina amata e del fratello.

§           Un alto quoziente intellettivo e un talento superiore alla norma, che lo porta a dipingere fin dall’età di sette anni.

§           Affascinato dai grandi del passato, rielabora subito in chiave personale l’insegnamento dei maestri, tanto da segnare una rottura in campo artistico con le correnti tradizionali (ispirò la Secessione di Berlino, che rappresenta il primo vero rifiuto plateale dell’arte accademica e che dà il via ai movimenti d’avanguardia).

§           Il suo malessere, la sua inquietudine e il suo talento trovano sfogo nel vagabondare da un paese all’altro, in frequenti e oceaniche bevute, in memorabili scazzottate e risse e nella storia d’amore con Tulla Lorsen, che finì con una sparatoria in cui il pittore perse l’uso di due dita.

§           La sua condotta di vita irregolare e trasgressiva esplode in forti crisi nervose e quindi in successivi ricoveri in cliniche mediche.

§           Nell’atto creativo, Munch cerca continuamente la perfezione (che è consapevole di non possedere), attraverso ritocchi e rifacimenti, arrivando a rifare un’opera anche per più di cinquanta volte.

§           Inoltre, come gran parte di artisti squilibrati, riproduce la sua immagine tantissime volte, soprattutto nella sua ultima parte della vita quando è ormai cieco e abbandonato da tutti.

 

L’artista era sicuramente consapevole del suo stato di salute mentale, e infatti considerava la follia uno degli angeli neri che vegliavano sulla sua culla fin da piccolo.

Il significato profondo della sua esistenza e del suo dolore può essere efficacemente riassunto da queste sue parole:

 

“Ho passato tutta la vita a camminare sul ciglio di un abisso senza fondo, saltando da una pietra all’altra. Talvolta cercavo di abbandonare il mio stretto sentiero e di unirmi alla vorticosa corrente della vita, ma sempre mi ritrovo inesorabilmente risospinto verso il bordo dell’abisso e di lì dovrò camminare fino al giorno in cui finirò per cadere nel baratro. Perché, fin da quando sono in grado di ricordare, ho sofferto di un profondo senso di angoscia, che ho cercato di esprimere nella mia arte. Senza l’angoscia e la malattia sarei come una nave senza timone.”



[1] A cura di Valentina Paterno.

 

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