" Lungo i sentieri della follia"

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Il treno ha fischiato... (L’uomo solo)

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 L’OPERA E IL TESTO

La novella fu pubblicata per la prima volta sul «Corriere della Sera» nel 1914. Dopo essere stata riunita nel volume di novelle La trappola del 1915, nel 1922 venne inserita nel progetto delle Novelle per un anno, all’interno del volume IV, intitolato L’uomo solo.

Vi si narra di un impiegato modello, Belluca, che si ribella al capoufficio e viene portato in manicomio. La ribellione è dovuta al fatto che egli ha intuito per la prima volta, dopo tanti anni di lavoro, l’esistenza di un’altra vita - di un “oltre”, direbbe Pirandello -, al di là di quella usuale e monotona di ogni giorno. Di quest’altra vita egli ha avuto improvvisa intuizione udendo il fischio di un treno, che provoca in lui la tendenza all’evasione nel mondo dell’immaginazione e della fantasia.

 

da L. Pirandello, Novelle per un anno, Mondadori, Milano 1985

 

Farneticava.[1] Principio di febbre cerebrale, avevano detto i medici; e lo ripetevano tutti i compagni d’ufficio,[2] che ritornavano a due, a tre, dall’ospizio,[3] ov’erano stati a visitarlo.

Pareva provassero un gusto particolare a darne l’annunzio coi termini scientifici, appresi or ora dai medici, a qualche collega ritardatario che incontravano per via:

- Frenesia, frenesia.

- Encefalite.

- Infiammazione della membrana.

- Febbre cerebrale.[4]

E volevan sembrare afflitti; ma erano in fondo così contenti, anche per quel dovere compiuto; nella pienezza della salute, usciti da quel triste ospizio al gajo azzurro della mattinata invernale.[5]

- Morrà? Impazzirà?

- Mah!

- Morire, pare di no...

- Ma che dice? che dice?

- Sempre la stessa cosa. Farnetica...

- Povero Belluca!

E a nessuno passava per il capo che, date le specialissime condizioni in cui quell’infelice viveva da tant’anni, il suo caso poteva anche essere naturalissimo; e che tutto ciò che Belluca diceva e che pareva a tutti delirio, sintomo della frenesia, poteva anche essere la spiegazione più semplice di quel suo naturalissimo caso.[6]

Veramente, il fatto che Belluca, la sera avanti, s’era fieramente ribellato al suo capo-ufficio, e che poi, all’aspra riprensione di questo, per poco non gli s’era scagliato addosso, dava un serio argomento alla supposizione che si trattasse d’una vera e propria alienazione mentale.[7]

Perché uomo più mansueto e sottomesso, più metodico e paziente di Belluca non si sarebbe potuto immaginare.

Circoscritto...[8] sì, chi l’aveva definito così? Uno dei suoi compagni d’ufficio. Circoscritto, povero Belluca, entro i limiti angustissimi della sua arida mansione di computista, senz’altra memoria che non fosse di partite aperte, di partite semplici o doppie o di storno, e di defalchi e prelevamenti e impostazioni; note, libri-mastri, partitarii, stracciafogli e via dicendo.[9] Casellario ambulante:[10] o piuttosto, vecchio somaro, che tirava zitto zitto, sempre d’un passo, sempre per la stessa strada la carretta, con tanto di paraocchi.

Orbene, cento volte questo vecchio somaro era stato frustato, fustigato senza pietà, così per ridere, per il gusto di vedere se si riusciva a farlo imbizzire un po’, a fargli almeno almeno drizzare un po’ le orecchie abbattute, se non a dar segno, che volesse levare un piede per sparar qualche calcio.[11] Niente! S’era prese le frustate ingiuste e le crudeli punture in santa pace, sempre, senza neppur fiatare, come se gli toccassero,[12] o meglio, come se non le sentisse più, avvezzo com’era da anni e anni alle continue solenni bastonature della sorte.

Inconcepibile, dunque, veramente,[13] quella ribellione in lui, se non come effetto d’una improvvisa alienazione mentale.

Tanto più che, la sera avanti, proprio gli toccava la riprensione; proprio aveva il diritto di fargliela, il capo-ufficio. Già s’era presentato, la mattina, con un’aria insolita, nuova; e - cosa veramente enorme, paragonabile, che so? al crollo d’una montagna - era venuto con più di mezz’ora di ritardo.[14]

Pareva che il viso, tutt’a un tratto, gli si fosse allargato. Pareva che i paraocchi gli fossero tutt’a un tratto caduti, e gli si fosse scoperto, spalancato d’improvviso all’intorno lo spettacolo della vita. Pareva che gli orecchi tutt’a un tratto gli si fossero sturati e percepissero per la prima volta voci, suoni non avvertiti mai.[15]

Così ilare, d’una ilarità vaga[16] e piena di stordimento, s’era presentato all’ufficio. E, tutto il giorno, non aveva combinato niente.

La sera, il capo-ufficio, entrando nella stanza di lui, esaminati i registri, le carte:

- E come mai? Che hai combinato tutt’oggi?

Belluca lo aveva guardato sorridente, quasi con un’aria d’impudenza, aprendo le mani.

- Che significa? - aveva allora esclamato il capo-ufficio, accostandoglisi e prendendolo per una spalla e scrollandolo. - Ohé, Belluca!

- Niente, - aveva risposto Belluca, sempre con quel sorriso tra d’impudenza e d’imbecillità su le labbra. - Il treno, signor Cavaliere.

- Il treno? Che treno?

- Ha fischiato.

- Ma che diavolo dici?

- Stanotte, signor Cavaliere. Ha fischiato. L’ho sentito fischiare...

- Il treno?

- Sissignore. E se sapesse dove sono arrivato! In Siberia... oppure oppure... nelle foreste del Congo... Si fa in un attimo, signor Cavaliere![17]

Gli altri impiegati, alle grida del capo-ufficio imbestialito, erano entrati nella stanza e, sentendo parlare così Belluca, giù risate da pazzi.[18]

Allora il capo-ufficio - che quella sera doveva essere di malumore - urtato da quelle risate, era montato su tutte le furie e aveva malmenato la mansueta vittima di tanti suoi scherzi crudeli.

Se non che, questa volta, la vittima, con stupore e quasi con terrore di tutti, s’era ribellata, aveva inveito, gridando sempre quella stramberia del treno che aveva fischiato, e che, perdio, ora non più, ora ch’egli aveva sentito fischiare il treno, non poteva più, non voleva più esser trattato a quel modo.[19]

Lo avevano a viva forza preso, imbracato[20] e trascinato all’ospizio dei matti.

Seguitava ancora, qua, a parlare di quel treno. Ne imitava il fischio. Oh, un fischio assai lamentoso, come lontano, nella notte; accorato. E, subito dopo, soggiungeva:

- Si parte, si parte... Signori, per dove? per dove?[21]

E guardava tutti con occhi che non erano più i suoi. Quegli occhi, di solito cupi, senza lustro,[22] aggrottati, ora gli ridevano lucidissimi, come quelli d’un bambino o d’un uomo felice; e frasi senza costrutto[23] gli uscivano dalle labbra. Cose inaudite; espressioni poetiche, immaginose, bislacche,[24] che tanto più stupivano, in quanto non si poteva in alcun modo spiegare come, per qual prodigio, fiorissero in bocca a lui, cioè a uno che finora non s’era mai occupato d’altro che di cifre e registri e cataloghi, rimanendo come cieco e sordo alla vita: macchinetta di computisteria.[25] Ora parlava di azzurre fronti di montagne nevose, levate al cielo; parlava di viscidi cetacei che, voluminosi, sul fondo dei mari, con la coda facevan la virgola.[26] Cose, ripeto, inaudite.

Chi venne a riferirmele[27] insieme con la notizia dell’improvvisa alienazione mentale rimase però sconcertato, non notando in me, non che meraviglia, ma neppur una lieve sorpresa.

Difatti io accolsi in silenzio la notizia.

E il mio silenzio era pieno di dolore. Tentennai il capo, con gli angoli della bocca contratti in giù, amaramente, e dissi:

- Belluca, signori, non è impazzito. State sicuri che non è impazzito. Qualche cosa dev’essergli accaduta; ma naturalissima. Nessuno se la può spiegare, perché nessuno sa bene come quest’uomo ha vissuto finora. Io che lo so, son sicuro che mi spiegherò tutto naturalissimamente, appena l’avrò veduto e avrò parlato con lui.

Cammin facendo verso l’ospizio ove il poverino era stato ricoverato, seguitai a riflettere[28] per conto mio:

«A un uomo che viva come Belluca finora ha vissuto, cioè una vita “impossibile”,[29] la cosa più ovvia, l’incidente più comune, un qualunque lievissimo inciampo impreveduto, che so io, d’un ciottolo per via, possono produrre effetti straordinarii, di cui nessuno si può dar la spiegazione, se non pensa appunto che la vita di quell’uomo è “impossibile”. Bisogna condurre la spiegazione là, riattaccandola a quelle condizioni di vita impossibili, ed essa apparirà allora semplice e chiara. Chi veda soltanto una coda, facendo astrazione dal mostro a cui essa appartiene, potrà stimarla per se stessa mostruosa. Bisognerà riattaccarla al mostro; e allora non sembrerà più tale; ma quale dev’essere, appartenendo a quel mostro.

«Una coda naturalissima».

Non avevo veduto mai un uomo vivere come Belluca.[30]

Ero suo vicino di casa, e non io soltanto, ma tutti gli altri inquilini della casa si domandavano con me come mai quell’uomo potesse resistere in quelle condizioni di vita.

Aveva con sé tre cieche, la moglie, la suocera e la sorella della suocera: queste due, vecchissime, per cataratta;[31] l’altra, la moglie, senza cataratta, cieca fissa; palpebre murate.[32]

Tutt’e tre volevano esser servite.[33] Strillavano dalla mattina alla sera perché nessuno le serviva. Le due figliuole vedove, raccolte in casa dopo la morte dei mariti, l’una con quattro, l’altra con tre figliuoli, non avevano mai né tempo né voglia da badare ad esse; se mai, porgevano qualche ajuto alla madre soltanto.

Con lo scarso provento del suo impieguccio di computista poteva Belluca dar da mangiare a tutte quelle bocche? Si procurava altro lavoro per la sera, in casa: carte da ricopiare. E ricopiava tra gli strilli indiavolati di quelle cinque donne e di quei sette ragazzi finché essi, tutt’e dodici, non trovavan posto nei tre soli letti della casa.

Letti ampii, matrimoniali; ma tre.

Zuffe furibonde, inseguimenti, mobili rovesciati, stoviglie rotte, pianti, urli, tonfi, perché qualcuno dei ragazzi, al bujo, scappava e andava a cacciarsi fra le tre vecchie cieche, che dormivano in un letto a parte, e che ogni sera litigavano anch’esse tra loro, perché nessuna delle tre voleva stare in mezzo e si ribellava quando veniva la sua volta.[34]

Alla fine, si faceva silenzio, e Belluca seguitava a ricopiare fino a tarda notte, finché la penna non gli cadeva di mano e gli occhi non gli si chiudevano da sé.

Andava allora a buttarsi, spesso vestito, su un divanaccio sgangherato, e subito sprofondava in un sonno di piombo, da cui ogni mattina si levava a stento, più intontito che mai.

Ebbene, signori: a Belluca, in queste condizioni, era accaduto un fatto naturalissimo.

Quando andai a trovarlo all’ospizio, me lo raccontò lui stesso, per filo e per segno. Era, sì, ancora esaltato un po’, ma naturalissimamente, per ciò che gli era accaduto. Rideva dei medici e degli infermieri e di tutti i suoi colleghi, che lo credevano impazzito.

- Magari! - diceva - Magari!

Signori, Belluca, s’era dimenticato da tanti e tanti anni - ma proprio dimenticato - che il mondo esisteva.[35]

Assorto nel continuo tormento di quella sua sciagurata esistenza, assorto tutto il giorno nei conti del suo ufficio, senza mai un momento di respiro, come una bestia bendata, aggiogata alla stanga d’una nòria[36] o d’un molino, sissignori, s’era dimenticato da anni e anni - ma proprio dimenticato - che il mondo esisteva.

Due sere avanti,[37] buttandosi a dormire stremato su quel divanaccio, forse per l’eccessiva stanchezza, insolitamente, non gli era riuscito d’addormentarsi subito. E, d’improvviso, nel silenzio profondo della notte, aveva sentito, da lontano, fischiare un treno.

Gli era parso che gli orecchi, dopo tant’anni, chi sa come, d’improvviso gli si fossero sturati.

Il fischio di quel treno gli aveva squarciato e portato via d’un tratto la miseria di tutte quelle sue orribili angustie, e quasi da un sepolcro scoperchiato s’era ritrovato a spaziare anelante nel vuoto arioso del mondo che gli si spalancava enorme tutt’intorno.[38]

S’era tenuto istintivamente alle coperte che ogni sera si buttava addosso, ed era corso col pensiero dietro a quel treno che s’allontanava nella notte.

C’era, ah![39] c’era, fuori di quella casa orrenda, fuori di tutti i suoi tormenti, c’era il mondo, tanto, tanto mondo lontano, a cui quel treno s’avviava... Firenze, Bologna, Torino, Venezia... tante città, in cui egli da giovine era stato e che ancora, certo, in quella notte sfavillavano di luci sulla terra. Sì, sapeva la vita che vi si viveva![40] La vita che un tempo vi aveva vissuto anche lui! E seguitava, quella vita; aveva sempre seguitato, mentr’egli qua, come una bestia bendata, girava la stanga del molino. Non ci aveva pensato più! Il mondo s’era chiuso per lui, nel tormento della sua casa, nell’arida, ispida[41] angustia della sua computisteria... Ma ora, ecco, gli rientrava, come per travaso violento,[42] nello spirito. L’attimo, che scoccava per lui, qua, in questa sua prigione, scorreva come un brivido elettrico per tutto il mondo, e lui con l’immaginazione d’improvviso risvegliata poteva, ecco, poteva seguirlo per città ignote, lande, montagne, foreste, mari... Questo stesso brivido, questo stesso palpito[43] del tempo. C’erano, mentr’egli qua viveva questa vita «impossibile», tanti e tanti milioni d’uomini sparsi su tutta la terra, che vivevano diversamente. Ora, nel medesimo attimo ch’egli qua soffriva, c’erano le montagne solitarie nevose che levavano al cielo notturno le azzurre fronti...[44] Sì, sì, le vedeva, le vedeva, le vedeva così... c’erano gli oceani... le foreste...

E, dunque, lui - ora che il mondo gli era rientrato nello spirito - poteva in qualche modo consolarsi! Sì, levandosi ogni tanto dal suo tormento, per prendere con l’immaginazione una boccata d’aria nel mondo.

Gli bastava!

Naturalmente, il primo giorno, aveva ecceduto. S’era ubriacato. Tutto il mondo, dentro d’un tratto: un cataclisma. A poco a poco, si sarebbe ricomposto. Era ancora ebro[45] della troppa troppa aria, lo sentiva.

Sarebbe andato, appena ricomposto del tutto, a chiedere scusa al capo-ufficio, e avrebbe ripreso come prima la sua computisteria. Soltanto il capo-ufficio ormai non doveva pretender troppo da lui come per il passato: doveva concedergli che di tanto in tanto, tra una partita e l’altra da registrare, egli facesse una capatina, sì, in Siberia... oppure oppure... nelle foreste del Congo.[46]

- Si fa in un attimo, signor Cavaliere mio. Ora che il treno ha fischiato...

 


[1] Farneticava: la follia è proposta subito come argomento della novella.

[2] i compagni d’ufficio: su di loro è focalizzata la prima parte del racconto.

[3] ospizio: casa di cura, manicomio.

[4] Frenesia... cerebrale: definizioni primonovecentesche del disturbo psichico, ricondotto a una causa organica. Il compiacimento dei colleghi si appoggia alla lingua scientifica e alle sue pretese di oggettività; ma già la varietà delle diagnosi la mette in dubbio.

[5] E volevan... invernale: è l’emergere del punto di vista del narratore, che insiste sulla contrapposizione fra il protagonista, malato e prigioniero del triste ospizio, e i suoi colleghi, sani e pronti a godersi il gajo azzurro del cielo.

[6] E a nessuno... caso: esplicito intervento dell’autore, che rettifica il giudizio di medici e colleghi e compatisce Belluca (quell’infelice): per quanto disconosciuta e oscurata dalla relatività dei punti di vista, la verità esiste, ed è compito dello scrittore portarla alla luce. Naturalissimo: in quanto naturale conseguenza delle specialissime condizioni di Belluca, che saranno spiegate nell’ultima parte della novella.

[7] Veramente... mentale: nell’ottica dominante, la ribellione all’ordine borghese - rappresentato dalle costrizioni della vita impiegatizia - non può essere che follia (alienazione); il veramente è dunque ironico. Riprensione: rimprovero.

[8] Circoscritto: limitato, costretto. Il finto tecnicismo, insieme a quelli veri che compaiono subito dopo, esprime la crudeltà di un sistema spersonalizzante, che riduce l’individuo a una serie di funzioni (o, in termini pirandelliani, forme) che ne soffocano la libertà (la vita). La vera alienazione (= estraniazione dell’uomo da se stesso) è questa.

[9] computista... via dicendo: tutti i termini della contabilità, il cui accumulo si riversa impietosamente contro Belluca. Computista: chi tiene i conti; partite aperte: registrazioni di conti non saldati; partite semplici o doppie o di storno: rispettivamente: solo in credito o in debito; sia in credito sia in debito; che girano un conto da una partita all’altra; defalchi: detrazioni; prelevamenti: prelievi [: di danaro]; impostazioni: iscrizioni di una partita in un bilancio; libri-mastri: quelli in cui si tengono i conti di un’azienda; partitarii: tabelle per registrare creditori e debitori; stracciafogli: scartafacci.

[10] Casellario ambulante: archivio vivente; il casellario è propriamente il mobile in cui si tengono i documenti: Belluca è ridotto prima a una cosa, poi a una bestia (vecchio somaro). La privazione della consapevolezza non è, come sarà nel finale di Uno, nessuno e centomila, una fuga dall’alienazione sociale, ma il frutto di questa.

[11] Orbene... calcio: la metafora esprime il sadismo dei colleghi, disumanizzati anche loro e ridotti ad aguzzini; imbizzire: imbizzarrire.

[12] gli toccassero: gli fossero dovute.

[13] veramente: riprende, e con ironia più amara, il Veramente della nota 41.

[14] tanto più... di ritardo: il narratore assume il punto di vista dei colleghi, con effetto straniante.

 

[15] Pareva... mai: la follia di Belluca è preparata da una sorta di illuminazione. È il tema dell’epifania, centrale nella cultura del primo Novecento, richiamato anche da un lessico che allude all’apertura e alla rivelazione del senso dell’esistenza (scoperto, spalancato, sturati). I paraocchi riprendono la metafora del somaro.

 

[16] ilarità vaga: allegria dai motivi non chiari. La follia è purezza e gioia paradossale (poco sotto si parla di un sorriso tra d’impudenza e d’imbecillità).

[17] Il treno... signor Cavaliere: il racconto frammentario di Belluca ha i tratti dell’epifania: un evento quotidiano e banale scopre il senso di tutta una vita. Il primo desiderio di Belluca è evadere (in Siberia... Congo), giacché la sua situazione è sentita come immutabile.

[18] risate da pazzi: il sintagma comunissimo assume, dato il contesto, un valore nuovo e attribuisce l’alienazione non a Belluca, ma ai suoi colleghi.

[19] Se non che... a quel modo: alla brutalità fisica del capoufficio, Belluca oppone la certezza della sua illuminazione, che ha radicalmente mutato la sua esistenza, dandogli quella dignità di uomo che sino ad allora aveva ignorato.

[20] imbracato: legato, come con una camicia di forza.

[21] Seguitava... per dove?: il fischio del treno, caricandosi di significati imprecisati, diviene un simbolo.

[22] senza lustro: senza luce, opachi.

[23] senza costrutto: insensate.

[24] bislacche: bizzarre. È ancora il punto di vista dei colleghi d’ufficio, che il narratore ripete ironicamente.

[25] macchinetta di computisteria: è la riduzione dell’uomo a macchina.

[26] azzurre fronti... facevan la virgola: il corsivo sottolinea l’estraneità del nuovo Belluca al vecchio e al mondo dell’ufficio.

[27] Chi venne a riferirmele: il narratore diventa ora un personaggio, e quello il cui punto di vista è il più vicino alla verità (cfr. sotto: Nessuno se la può spiegare... Io che lo so..).

[28] a riflettere: l’atteggiamento raziocinante non è qui prerogativa del personaggio, come spesso in Pirandello, ma del narratore. Il narratore è quello che media fra la follia di Belluca, che non può essere compresa dagli altri uomini (i colleghi), e il lettore.

[29] una vita “impossibile”: capovolge i termini della questione, rendendo naturalissima la follia (per questo il superlativo torna così insistentemente in queste righe) e assurda la vita quotidiana.

[30] Non avevo... Belluca: il paragrafo che segue è un’analessi (si tratta di un flashback).

[31] cataratta: perdita di trasparenza del cristallino (la lente naturale dell’occhio); avviene per lo più in tarda età.

[32] murate: chiuse come mura; metafora.

[33] Tutt’e tre... servite: contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, anche le tre cieche esercitano la loro crudeltà contro Belluca. Se l’oppressione in ufficio è il prodotto immediato dei rapporti sociali, in quella domestica ciò è vero solo in parte. La cecità, cioè la malattia, è segno di uno sfavore della natura e del “destino”, dilata l’oppressione sociale in un disagio esistenziale più ampio.

[34] Zuffe... la sua volta: Pirandello modifica in senso grottesco una trama che altrimenti sarebbe convenzionale e patetica: presenta le cieche non come personaggi che fanno pietà, ma come disumanizzate dalla loro malattia; e insiste sul carattere macchiettistico dei conflitti di casa.

[35] Signori... esisteva: il narratore, portavoce di Belluca, ne retrodata l’alienazione e presenta la sua follia come conoscenza più vera e più profonda della realtà. L’apostrofe al lettore è tipica della narrativa di Pirandello.

[36] nòria: macchina per sollevare liquidi o terra.

[37] Due sere avanti: due sere prima; solo qui, alla fine, è il racconto disteso dell’accaduto.

[38] E, d’improvviso... intorno: torna il lessico dell’apertura epifanica (sturati, squarciato, scoperchiato, spalancava); cfr. nota 16.

[39] C’era, ah!...: tutto il capoverso è un indiretto libero, che riconduce un linguaggio in realtà convenzionalmente poetico alle forze liberate dell’inconscio e della vita (per questo, e per il valore di contestazione di questa esplosione, si può pensare a una sorta di anticipazione del Surrealismo).

[40] la vita... viveva!: è il termine chiave, nel senso che gli dà Pirandello; esso rivela il carattere allegorico della novella.

[41] ispida: tormentosa.

[42] come per travaso violento: come se vi fosse riversata di colpo.

[43] palpito: ritmo; metafora.

[44] azzurre fronti: cfr. nota 60.

[45] ebro: ebbro, ubriaco; lett.

[46] Soltanto... del Congo: paradossalmente, il finale sottolinea l’inconciliabilità delle due esistenze, quella schiacciante della forma e quella incontenibile della vita. È chiaro infatti che il nuovo stato di Belluca gli impedirebbe di riprendere la vecchia esistenza.

 

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