" Lungo i sentieri della follia"

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Letteratura

Edgar Allan Poe

(1809 - 1849)[1]

La vita

Lo scrittore americano Edgar Allan Poe nasce a Boston nel 1809; figlio di due attori girovaghi, David, di origine irlandese, ed Elizabeth Arnold, di origine inglese, rimane orfano a due anni. Il padre, alcolizzato, sparisce  senza lasciare tracce; la madre muore a soli 24 anni, uccisa dalla tubercolosi. Adottato da due ricchi mercanti di Richmond, il bambino  riceve un’adeguata educazione che prosegue in Inghilterra, dove i genitori adottivi si sono temporaneamente trasferiti. Rientrato in patria, frequenta la scuola di Clarke e si iscrive all’università di Virginia, da cui però viene allontanato dopo un anno per indisciplina. Emerge in questo periodo di dissolutezza, durante il quale comincia a bere, a giocare e a indebitarsi, l’instabilità del carattere del futuro scrittore, le cui cause sono da ricercarsi nella mancanza di affetto e nella coscienza angosciosa di una invincibile solitudine. Nel marzo 1827, entra nell’Accademia militare di West Point: l’ordine della vita militare lo attira, ma anche questa esperienza non dura molto: nel 1831 viene espulso per indisciplina. Trasferitosi a Baltimora, vince i cento dollari del concorso indetto dal Baltimore Saturday Visitor: questo successo gli procura, nel 1835, la direzione del “Sauthern Literary Messenger”. La sua attività diventa frenetica, con alti e bassi paurosi. Nel 1837 abbandona il “Messenger” e si trasferisce a Philadelphia. Intanto appaiono su varie riviste i cosiddetti “racconti del terrore”: Berenice (1835), Morella (1835), Ligeia (1835), in cui sono presenti i temi della produzione successiva: il fascino del mare, l’incubo della morte, l’attrazione verso il misterioso, l’inaccessibile, l’ignoto dell’Antartide. Nel 1841 Poe prende a collaborare al “Graham’s Magazine”. Abbandonata la rivista nel 1842, lo scrittore vive gli anni più tragici della sua esistenza: la moglie gravemente affetta da tubercolosi, lui stesso ammalato, con l’alcol quale unico rimedio alla miseria e alla disperazione. A questo periodo risalgono i cosiddetti “racconti del mistero”. Nel 1847 muore la moglie Virginia e la vita dello scrittore si fa frenetica fra viaggi, amicizie femminili e attacchi continui del male che lo minacciava: il delirium tremens. Mentre si accingeva a sposare una vecchia amica, la ricca Elmira Royster Shelton, viene trovato in gravi condizioni davanti ad una taverna di Baltimora il 3 ottobre 1849; quattro giorni dopo muore in ospedale.

 

L’opera 

L’opera di Poe si sviluppa in quattro ambiti: giornalismo, novelle e romanzi, poesia, saggi.

I racconti definiscono nuove strade nella letteratura della fantascienza e del racconto deduttivo. L’idea di Poe è che l’uomo si definisce per una duplicità della coscienza: se la vita può essere un sogno, allora la morte è un risveglio e il sognatore coesiste con un altro se stesso di cui è talvolta vittima, o con una sposa, una compagna evanescente (storia delle “eroine postume”: Berenice, Morella, Ligeia). L’esperienza degli estremi e dell’orrore non è altro che quella di una certezza: l’anima dell’uomo e la sua morte sono la medesima cosa. Lo scrittore è dotato di un cuore sensibile nel quale si aggirano gli incubi e le ossessioni di un’esistenza febbrile e pervasa da un insano sentimento di prossimità della morte.

Motore della sua creatività era però anche una mente capace di produrre uno stile solido ed efficace in grado di costruire straordinari meccanismi narrativi, attivati con cura minuziosa e arricchiti di particolari quanto mai attendibili e precisi, sui quali martellare con freddezza. Risultato di tale duplice capacità, oltre ai racconti del terrore, sono i racconti polizieschi.

Poe comunque rivela la sua statura di artista con la composizione di storielle comiche e di gustose parodie della vita e della cultura americana dei suoi tempi. Frutto di un intelletto lucido e spietato nonché di una fantasia libera e sfrenata, i racconti di Poe hanno rinnovato completamente alcuni generi letterari o ne hanno addirittura inventato di nuovi.  Scrive inoltre cinquanta poesie, circa ottocento pagine di articoli critici e un trattato di filosofia (“Eureka”).

 

Tales of mistery and imagination: Berenice

La storia che ho voluto analizzare è intitolata “Berenice”ed è tratta da una raccolta di racconti intitolata “Tales of mistery and imagination”.

Vi si narra la vicenda di un uomo (Egaeus) che, nato da famiglia nobile, cresce e vive sempre a contatto con la cugina, Berenice. Una cosa turba però Egaeus: il fatto che Berenice abbia sempre goduto di ottima salute, sia sempre stata agile e graziosa, ma soprattutto piena di energia, al contrario di lui, sempre malato e nascosto nell’oscurità (“I ill of health, and buried in gloom-she agile, graceful, and overflowing with energy”). Ad un certo punto, però, Berenice si ammala di una rara forma di epilessia e comincia a degenerare fisicamente. Il continuo scrutare tenebrosamente la cugina, comincia a ossessionare Egaeus e a riempirlo di strane idee: egli per esempio non riesce a sopportare la vista dei suoi denti così lunghi, stretti, eccessivamente bianchi e ancora perfetti (“The teeth! - The teeth! – they were here, and there, and everywhere, and visibly and palpably before me; long, narrow, and excessively white…..”). Improvvisamente, Berenice muore di un attacco di epilessia. La donna viene sotterrata, ma la notte stessa il protagonista riesuma la salma e le strappa i denti.

La mattina un servo accorre nello studio del padrone per comunicargli che la moglie è stata  trovata ancora viva, con la faccia massacrata; egli viene scoperto con i vestiti insanguinati ed è solo allora che, come svegliatosi da un lungo sonno, si rende conto di quello che ha fatto.

Tutto il racconto è descritto in un' atmosfera delirante, sospesa ambiguamente fra sogno e realtà, seguendo la linea di un climax ascendente che culmina nel momento di maggior orrore, quando viene svelato che Egaeus ha “realmente” sfigurato la moglie, ancora viva.

 

Riporto qui di seguito il testo e la traduzione delle ultime righe del racconto:

 

I found myself sitting in the library, and again sitting there alone. It seemed that I had newly awakened from a confused and exciting dream. I knew that it was now midnight, and I was well aware that since the settìng of the sun Bereníce had been interred. But of that dreary period which intervened I had no positive-at least no definite cornprehension. Yet its memory was replete with horror-horror more horrible from beìng vague, and terror more terrible from ambíguity. It was a fearful page in the record of my existence, written all over with dim, and hldeous, and unintelligible recollections. I strived to decipher them, but in vain; while ever and anon, like the spirit of a departed sound, the shrill and

piercing shriek of a female voice seemed to be ringing in my ears. I had done a deed-what was it? I asked myself the question aloud, and the whispering echoes of the chamber answered me, " What was it? "

On the table beside me burned a lamp, and near it lay a little box. It was of no remarkable character, and I had seen it frequently before, for ít was the property of the family physician; but how came it there, upon my table, and why did I shudder in regarding it? These thíngs were in no manner to be accounted for, and my eyes at length dropped to the open pages of a book, and to a sentence underscored therein. The words were the singular but simple ones of the poet Ebn Zaiat, " Dicebant míhi sodales si sepulchrum amícae visitarem curas meas aliquantulum fore levatas." Why then, as I perused them, did the hairs of my head erect themselves on end, and the blood of my body become congealed within my veins?

 

There came a light tap at the library door, and pale as the tenant of a tomb, a menial entered upon tiptoe. His looks were wild with terror, and he spoke to me in a voice tremulous, husky, and very low. What said he?-some broken sentences I heard. He told me of a wild cry disturbing the silence of the night-of the gathering together of the household-of a scarch in the direction of the sound,-and then his tones grew thrillingly distinct as he whispered me of a violated grave-of a disfigured body enshrouded, ya still breathing, still palpitating, still alive!

 

He pointed to my garments;-they were muddy and clotted with gore. I spoke not, and he took me gently by the hand;-it was indented with the impress of human nails. He directed my attention to some object against the wall;-I looked at it for some minutes -,it was a spade. With a shrick I bounded to the table, and grasped the box that lay upon it. But I could not force ít open; and in my tremor it slipped from my hands, and fell heavily, and burst into pieces; and from it, with a rattling sound, there rolled out some instruments of dental surgery, intermingled with thirty-two small, white and ivory-looking substances that were scattered to and fro about the floor.

 

“Mi trovai di nuovo seduto nella mia biblioteca e solo. Mi pareva di essermi svegliato da un sogno confuso e conturbante. Sapevo che si era alla metà della notte, e che Berenice era stata seppellita al calar del sole. Ma degli spaventosi momenti che erano seguiti, non avevo nessuna reale, deliberata persuasione. Avevo la memoria piena di orrore; di un tanto più orribile orrore in quanto era vago, e di un terrore tanto più terribile in quanto era ambiguo. Una pagina spaventosa della mia esistenza era stata scritta con oscure ed inintelleggibili rimembranze di ribrezzo. Ogni mio sforzo per decifrarla restò vano; mentre ancora di tanto in tanto, come lo spirito di un suono svanito, l’urlo penetrante di una voce femminile sembrava mi risuonasse alle orecchie. Io avevo fatto qualcosa, ma che cosa? Me lo chiedevo ad alta voce, e l’eco bisbigliante della stanza mi rispondeva: "Che cosa?” Sulla tavola accanto a me ardeva una lampada, e vicino ad essa c’era una piccola scatola. Non  era di foggia notevole, ed io l’avevo già vista spesso prima d’allora, poiché apparteneva al nostro medico di famiglia; ma perché si trovava sul mio tavolo, e perché rabbrividivo solo a guardarla? Certo erano cose cui non valeva la pena far caso, e alla fine gli occhi mi caddero sulla pagina aperta di un libro, e giusto sopra ad una frase in essa sottolineata. Erano le parole semplici e singolari del poeta Ebn Zaiat: “Dicebant mihi sodales, si sepulchrum amicae visitarem, curas meas aliquantulum fore levatas”. Come mai, mentre le scorrevo, i capelli mi si rizzarono in capo, e il sangue mi si agghiacciò nelle vene?

 

In quel momento si udì un leggero bussare alla porta e, pallido come un morto (come l’inquilino di una tomba), un servo entrò in punta di piedi. Il suo sguardo era stravolto dal terrore, mi parlava con voce tremante, roca, bassissima. Cosa diceva? – Ho sentito soltanto alcuni frammenti di frase. Egli mi parlava di un urlo disumano che aveva rotto il silenzio della notte – la servitù si era radunata e si era avviata nella direzione da cui proveniva il suono; improvvisamente le sue parole cominciarono a farsi distinte, mi parlò di una tomba violata, di un corpo sfigurato e svestito, che ancora respirava, ancora palpitante, ancora vivo!

 

Egli indicò i miei vestiti, erano rappresi ed infangati di sangue. Non parlai, il servo mi prese dolcemente la mano; era segnata da solchi di unghie umane. Attirò la mia attenzione verso un oggetto appoggiato contro il muro – io lo fissai per alcuni minuti – era una vanga. Con un urlo balzai alla scrivania e afferrai la scatola posata su di essa. Ma non riuscivo ad aprirla; e a causa del mio tremore mi scivolò dalle mani, cadde pesantemente e si ruppe in mille pezzi. Da questa, con un risonante strepito, uscirono degli attrezzi di chirurgia dentaria, assieme a trentadue piccole e bianche cose d’avorio che si sparpagliarono per il pavimento".

 



[1] A cura di Laura Battisti.

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