" Lungo i sentieri della follia"

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Letteratura

Umberto Saba

(1883 - 1957)[1]

La poesia e la prosa di Umberto Saba si inseriscono in una dimensione psicoanalitica oltre che per le influenze freudiane anche per la stessa personalità dell’autore, per natura incline alla scissione dell’io e all’introspezione psicologica.

La vita 

Umberto Poli nacque a Trieste il 9 marzo 1883 quando il padre, Ugo Poli, aveva già abbandonato la madre, l’ebrea Rachele Coen. Per i primi tre anni di vita Umberto fu affidato ad una balia slovena, Peppa Sabaz, alla quale il poeta rimase sempre affezionato tanto da assumere nel 1911 lo pseudonimo Saba in omaggio all’adorata nutrice. L’infanzia del piccolo Umberto, che conobbe il padre solo all’età di 20 anni, è segnata oltre che dal traumatico distacco dalla balia, da una sorta di complesso edipico rovesciato determinato dall’assenza del padre: egli crebbe ascoltando le recriminazioni della madre, che continuò a nutrire un inestinguibile rancore per il “cristiano” che l’aveva tradita. Dopo aver seguito in modo irregolare gli studi al ginnasio, si impiegò come praticante presso una ditta commerciale; sui vent’anni si manifestò apertamente la nevrosi che lo accompagnò per tutta la vita e dalla quale non guarì mai completamente. Nel 1909 sposò Carolina Woelfer (Lina) che l’anno successivo gli diede una figlia, Linuccia. Successivamente, le persecuzioni razziali del fascismo e del nazismo lo costrinsero a peregrinazioni e fughe continue e se, dopo la guerra, Saba visse momenti di serenità, ben presto frequenti crisi depressive lo spinsero a sottoporsi ad una terapia psicoanalitica presso lo studio di un seguace di Freud, Edoardo Weiss. Nonostante queste sedute, dal ’50 in poi Saba è costretto a continui ricoveri in clinica. Nel 1956 muore la moglie e dopo pochi mesi, il 25 agosto 1957, Saba muore in un ospedale di Gorizia.

 Il Canzoniere 

“Il Canzoniere è il libro di poesia più facile e più difficile del Novecento… è la storia di una vita povera di avvenimenti esterni, ricca, a volte fino allo spasimo, di moti e di risonanze interne…”. Con queste parole lo stesso Saba descrive l’opera che lo ha fatto passare alla storia, frutto di cinquant’anni di scrittura e di invenzione poetica. In effetti, ad una prima superficiale lettura, il Canzoniere si presenta come un insieme di scritti tutto sommato arretrati e facili; solo in seguito ad un’attenta analisi si rivela come un’opera tra le più moderne ed originali, ma anche complesse e difficili del panorama europeo novecentesco. Fin dal 1913 Saba, con l’intento di dare un carattere unitario alla propria opera, cominciò a pensare ad un “Canzoniere” il cui titolo alludeva alla continuità con la tradizione lirica italiana iniziata con Petrarca. Dopo alcune difficoltà, si giunse alla prima edizione del 1921, alla quale fecero seguito altre quattro, nel 1945, nel 1948, nel 1957 e quella postuma del 1961, tutte riviste e ampliate rispetto alla precedente. Il Canzoniere è l’opera complessiva che raccoglie tutta la maggiore produzione poetica di Saba. I 437 testi che lo formano sono stati scritti nell’arco di oltre mezzo secolo, tra il 1900 e il 1954, e sono raggruppati in tre “volumi”. Ogni volume è poi a sua volta suddiviso in numerose sezioni, corrispondenti spesso a raccolte pubblicate a sé, ciascuna titolata in base al tema trattato. Il Canzoniere può essere letto come un romanzo, con personaggi, figure, con una trama e una cronologia, un romanzo che impone al lettore di seguirlo passo per passo e di fare i conti con il più misterioso e il più presente di tutti personaggi di Saba: la poesia. Saba attribuisce alla poesia una precisa funzione insieme psicologica e sociale: aiutare l’essere umano a ritrovare la propria identità e la propria integrità, ridandogli anche la possibilità di partecipare armoniosamente alla vita sociale. Egli riconosce una certa interdipendenza fra le singole parti della sua opera, una continuità che non può essere spezzata senza danno all’insieme; il bene e il male sono strettamente intrecciati e spesso quel bene è condizionato e magari illuminato dal male. Per questo il Canzoniere può essere definito “romanzo psicologico” che aspira alla guarigione individuale dalla nevrosi; la tematica della scissione dell’io, generata dagli opposti inconciliabili modelli dei genitori, è centrale nella trama esistenziale dell’opera e la funzione della poesia è quella di aiutare l’essere umano a ritrovare la propria identità e la propria integrità. Il poeta deve essere onesto e può esserlo solo cercando, indagando instancabilmente nel fondo del proprio io le verità più nascoste ed intime; è in questo senso che si comprende l’importanza dell’apporto della psicoanalisi. Come si può affrontare Umberto Saba in un’ottica prevalentemente psicoanalitica? Il mezzo che abbiamo a disposizione è il Canzoniere e lo si deve analizzare tenendo ben presenti non solo la traumatica infanzia del poeta o l’incontro con Freud, ma anche la sua personalità e le sue inclinazioni. In breve, è impensabile e quantomeno limitante la proposta di studiare Saba solo come “noto esponente della poesia moderna”: prima di tutto lo si deve considerare come essere umano.

 

L'incontro con la psicanalisi 

Con una formula molto brillante, Gianfranco Contini ha definito Saba “psicanalitico prima della psicanalisi”; infatti, nel Canzoniere noi troviamo tutta una serie di “sintomi”, di situazioni analitiche, di immagini, di temi ricorrenti, che precedono senza dubbio la lettura di Freud, tanto che l’incontro con la psicoanalisi sembra l’esito premeditato di un piccolo racconto. Questa sorprendente predestinazione non si spiega solo con la lettura da parte del poeta di filosofi come Nietzsche, ma va ricondotta a ragioni private, riguardanti il suo insondabile profondo inconscio, nonché a condizioni oggettive, ad un clima europeo responsabile dell’apertura mentale di Saba. Più tardi, Saba sfruttò le sedute con il dottor Weiss e le scoperte della psicoanalisi per capire la “trama” della sua opera e per darle una coerente organizzazione. Inoltre, egli riscoprì l’importanza dell’infanzia come prima e fondamentale fase della vita di un individuo, da cui possono derivare impensabili traumi in età adulta. In “Storia e Cronistoria del Canzoniere”, Saba scrive che il procedimento di una cura psicoanalitica “consiste nel rimuovere, o cercar di rimuovere, il velo d’amnesia che copre gli avvenimenti della primissima infanzia, e trovare in essi le ragioni dei conflitti che lacerano la vita dell’adulto.” L’assimilazione da parte del poeta delle teorie freudiane fu assolutamente spontanea e priva di forzature: una parte del pensiero del filosofo era già implicita nei primi passi di Saba e lui non fece altro che metterla in luce. “La psicoanalisi è una grande cosa – scriveva Saba a Comisso nel 1929 – ma non è arte, né può, per se stessa, divenirlo. Essa può, dopo una lunga disciplina, portare alla coscienza dei fatti, o meglio, dei sentimenti rimossi; e dare quindi alla coscienza dell’uomo una maggiore estensione in profondità; se l’uomo è un artista può, di riflesso, risentirsene anche la sua arte”. Senza dubbio Freud si sarebbe trovato pienamente d’accordo con questa affermazione, perché l’itinerario della psicoanalisi è diametralmente opposto a quello della creazione artistica: mira a svelare gli enigmi, a sciogliere i nodi, non a rappresentarli; sgretola le forme, non cerca di ricomporle.            

 

L’infanzia e le due madri

 Grazie alle moderne teorie psicoanalitiche oggi sappiamo quanto i primi anni di vita siano decisivi nel futuro sviluppo mentale di una persona e quanto influenzino le sue scelte di vita. Pensando all’infanzia di Saba, è chiaro l’effetto che ha avuto su di lui l’incontro con la filosofia freudiana e appare palese la massiccia presenza della figura materna nella produzione del Canzoniere. La madre, ricordiamolo, lo aveva affidato alla balia Peppa Sabaz fino all’età di tre anni, per poi riprenderlo e rivolgergli una premura quasi morbosa. Ella con il suo atteggiamento verso il figlio, unito all’assenza del padre, contribuì a creare una confusione di ruoli e una dolorosa mancanza nel piccolo Umberto. Celebrata e invocata all’inizio di molte strofe, la figura della madre appare come un oroscopo che accompagna la vicenda del protagonista, come un idolo silenzioso ed enigmatico. La poesia che le viene dedicata è caricata di un peso narrativo e psicologico eccezionale, forse eccessivo; si spiega così il parziale insuccesso di questa produzione: i versi aggrediscono questa figura esternando con troppa irruenza la profonda problematica interiore del poeta. Ad ogni modo il personaggio della madre non si presenta come un blocco monolitico; è resistente, dura, non omogenea e inoltre è destinata a cambiare aspetto nel corso della storia fino a scindersi, a sdoppiarsi in due figure autonome. La figura della madre compare per la prima volta in “A mamma”, una lunga e tormentata canzone, della quale Saba ha composto quattro versioni. Quella che segue è la prima strofa; la riportiamo perché ci offre il primo spaccato di un’infanzia traumatica verso la quale il poeta si rivolgerà spesso nel corso della sua vita.

 “Mamma, c’è un tedio oggi, una sottile

malinconia, che dalle cose in ogni

vita s’insinua, e fa umili i sogni

dell’uomo che il suo mondo ha nel suo cuore.

Mamma, ritornerà oggi all’amore

tuo, chi un di’ l’ebbe a vile?

Chi è solo con il suo solo dolore?”

 

La figura della madre ricompare nell’Autobiografia e nel quarto sonetto, del quale riportiamo la prima strofa, entra in scena anche un’altra figura femminile: zia Regina.

 “La mia infanzia fu povera e beata

di pochi amici, di qualche animale;

con una zia benefica ed amata

come la madre, e in cielo Iddio immortale.”

 

L’emergere di una seconda figura materna è un aspetto decisamente significativo perché delinea quello sdoppiamento fra la “madre di gioia” e la “madre mesta” che, seppur affrontato con toni diversi, sarà sempre presente e centrale nel Canzoniere e spesso rapportato ad altri temi trattati. Tuttavia, mentre la “madre mesta” corrisponde alla madre biologica, la “madre di gioia” non è la zia Regina, ma rappresenta indiscutibilmente la balia Peppa Sabaz, per la quale il poeta continuerà a nutrire un profondo ed immutato affetto. Ecco dunque come la disgregazione della figura materna veda coinvolte addirittura tre persone: la vera madre, la zia Regina e la balia. E’ vero che Saba arriva a scrivere parole molto significative alla zia (“…mi volevi bene, forse più bene di mia madre; ed eri la sola persona della famiglia che ascoltasse volentieri le mie prime poesie ed i miei primi racconti…”), ma più importante di lei è senza dubbio l’adorata balia, che può forse essere considerata la persona più vicina al modello di madre affettuosa che il poeta celebra e rimpiange tanto. Un esempio dell’attaccamento di Saba a questa donna ce lo fornisce il componimento intitolato “Nutrice”:

 Guardo, donna, il tuo volto incoronato

di capelli bianchissimi, più duro

delle pietraie del tuo Carso, inciso

di rughe, come di solchi la terra.

So che il prodigio a cui m’attendo, un attimo,

scioglie delle tue labbra la minaccia,

quei solchi appiana, gli occhi grigi illumina,

o mia madre di gioia, o tu cui devo

la dorata letizia onde il mio canto

si vena, che una gloria oggi incorona,

che ignori, come i tuoi capelli bianchi.

  

La presenza di queste tre donne nella vita di Saba, oltre naturalmente alla moglie Lina, e l’insopportabile assenza della figura paterna, spingono spesso il poeta a cercare di assomigliare al proprio padre, ad identificarsi con lui. Nel Canzoniere, nella parte intitolata “L’Uomo”, Saba si genera un padre modellandolo per contrasto sulle proprie “mancanze” e celebrando una virilità che vuole riempire un vuoto. A questo proposito, particolarmente appropriata appare una tesi di Jung che afferma: “Tutto ciò che è ignoto e vacuo viene riempito da proiezioni psicologiche; è come se nell’oscurità si rispecchiasse il retroscena psichico dell’osservatore. Quanto egli vede e crede di riconoscere nella materia, sono soltanto, in un primo tempo, i suoi propri dati inconsci, che egli vi proietta; cioè gli vengono incontro dalla materia qualità e significati possibili che apparentemente le appartengono, e la natura psichica dei quali gli è completamente inconscia.” A questo punto è chiaro che la psicoanalisi offre a Saba il referente per interpretare il suo passato e per costruire il Canzoniere: è l’episodio centrale che orienta tutti gli altri e li fa convergere su di sé, li spinge in un fascio dove ognuno, illuminato dagli altri, acquista pienezza di senso. In questo sistema, continui segni rimandano alla psicoanalisi che diviene, quindi, oggetto di poesia.

 

La psicoanalisi di Saba 

Abbiamo già evidenziato come le vicende di “Saba psicoanalitico” ruotino indiscutibilmente attorno alla sua infanzia e molti altri scritti, oltre a quelli già analizzati, lo possono testimoniare. “Scorciatoie e Raccontini”, un libro pubblicato nel 1946, contiene brevi componimenti in prosa caratterizzati dall’efficacia della poesia e dal rigore dell’aforisma; in una di queste “scorciatoie” Saba si interroga sull’identità della donna celebrata da Petrarca e conclude che Laura altri non è che la madre del poeta. “Laura è certamente esistita. E’ esistita; ed era, alla luce di tutti i giorni, una bionda signora; nelle profondità inaccesse dell’animo del poeta, era sua madre; era la donna che non si può avere”.

“Ernesto”, un romanzo in cinque parti composto nel 1953 e lasciato incompiuto, rivisita l’adolescenza del poeta e racconta l’iniziazione al sesso del protagonista, Ernesto, avvenuta prima con un incontro omosessuale con un collega di lavoro più grande di lui, poi con una prostituta. Centrale è la figura della madre severa e protettiva, dalla quale Ernesto riceve il duro monito di non assomigliare al padre che l’ha abbandonata. Nel secondo volume del Canzoniere una sezione intitolata “Il piccolo Berto”, composta da sedici poesie appartenenti al triennio 1929–’31, si colloca in uno dei momenti più intensi e riusciti della terapia psicoanalitica intrapresa da Saba nel 1928. “Il piccolo Berto” è il poeta stesso bambino: Berto, diminutivo di Umberto, è il modo con cui questi veniva chiamato dall'adorata balia. La resurrezione di Berto nella memoria e nella poesia è il frutto dell’indagine psicoanalitica il cui fine è quello di recuperare l’equilibrio che nell’infanzia era stato spezzato da un evento fortemente traumatico, la separazione dalla balia.

Nonostante questi numerosi esempi, non si deve pensare che il lato psicoanalitico di Saba si esaurisca nell’analisi della sua infanzia e nel rapporto con la madre; i primi anni della sua vita hanno indotto il poeta a rivolgersi al dottor Weiss che gli ha consentito di capire quanto la sua personalità fosse predisposta a questo tipo di analisi introspettiva, al di là delle vicende biografiche. Saba è naturalmente portato a dare un’impronta psicoanalitica ai suoi scritti ed è questa caratteristica che ha indotto Contini a definirlo “psicoanalitico prima della psicoanalisi”. Se volgiamo lo sguardo indietro, a considerare l’opera di Saba prima che questi cominciasse le sedute terapeutiche presso il dottor Weiss, ci rendiamo conto che essa si presenta già sotto una luce problematica: nei confronti della realtà umana del poeta la poesia di Saba appare uno strumento di autoanalisi e, sostanzialmente, una “terapia”; esaminando l’opera giovanile “Quello che resta da fare ai poeti” se ne può cogliere il senso. Si tratta di un breve scritto che Saba mandò nel 1911 alla rivista fiorentina “La Voce” e che rimase inedito fino a dopo la morte del poeta per via del rifiuto da parte della rivista di pubblicarlo. Il motivo della pubblicazione negata è facilmente intuibile: nel momento culminante del prestigio di d’Annunzio, Saba contrappone l’umile onestà di Manzoni all’astratta bellezza letteraria dei versi del vate. In “Quello che resta da fare ai poeti” Saba indaga sulla verità profonda da cui nasce il bisogno della scrittura e si accanisce contro coloro i quali, offuscati dal mito della perfezione formale, perdono di vista l’autentica ragione che sta alla base della poesia. Insomma, ai poeti “resta quello che finora fu solo raramente e parzialmente compiuto, la poesia onesta”, intendendo con quest’ultima espressione una sincera ricerca del proprio mondo interiore. In quest’ottica la bellezza diventa una “variabile dipendente” della verità e il “criterio estetico” non viene nemmeno preso in considerazione nella scelta dei testi da inserire nel “Canzoniere”; molti esempi confermano l’inclusione di pezzi consapevolmente meno risolti dal punto di vista formale, ma necessari alla migliore comprensione di un certo aspetto dell’opera. L’onestà del poeta invece assume un ruolo di centrale importanza e deve rivelarsi innanzi tutto nei confronti del proprio mondo psichico, verso il quale è necessario gettare lo “scandaglio” dell’indagine conoscitiva. Con le dovute cautele possiamo vedere in questo atteggiamento di Saba una specie di predisposizione a Freud in quanto, come lui, anche il poeta continua a rivolgere dentro di sé uno sguardo nitido e tagliente come uno strumento scientifico; inoltre, quello che Freud chiama “principio del piacere” coincide con il rapporto che Saba individua fra la poesia e le leggi elementari della vita. Naturalmente il richiamo al padre della psicoanalisi vale in superficie, perché Saba non cerca una teoria ma la propria originalità e,  come lui stesso afferma: ”Benché essere originali e ritrovare se stessi siano termini equivalenti, chi non riconosce in pratica che il primo è l’effetto e il secondo la causa; e parte non dal bisogno di riconoscersi ma da uno sfrenato desiderio di originalità, per cui non sa rassegnarsi, quando corre, a dire anche quello che gli altri hanno detto; non ritroverà mai la sua vera natura, non dirà mai alcunché di inaspettato.” La ricerca dell’originalità tramite l’intervento della psicoanalisi si configura come una tappa sulla via della guarigione: Saba è pienamente consapevole che la poesia nasce dalla  “malattia del poeta”, da quelle qualità che lo rendono diverso dagli altri come l’ipersensibilità, il narcisismo, il compiacimento per la propria diversità ecc. La perfetta guarigione dovrebbe quindi coincidere con la cessazione della poesia, ma per quanto il poeta anelasse a trovare la pace non volle mai compiere del tutto questo passo. Egli stesso sembra esserne consapevole e in una lettera scrive: "il Canzoniere non è un’opera di salute, né poteva esserlo dato che sono stato sempre, più o meno, contraddittorio e ammalato; fu appena un’opera di aspirazione alla salute.”

 

Lettere sulla psicoanalisi 

Il modo migliore per concludere questa “analisi psicoanalitica” di Saba è forse quello di lasciare la parola allo stesso poeta; quelli che seguono sono brevi estratti di uno scritto intitolato “Poesia, filosofia e psicanalisi”, di un articolo, “Freud visto da Ludwig” e di una lettera a Joachim Flescher. Come si noterà, molto spesso l’oggetto del discorso è Freud con le sue teorie; non dobbiamo dimenticare che l’esperienza psicoanalitica di Saba è legata al dottor Weiss, un seguace del padre della psicoanalisi.

“Non è il caso di difendere, in sede giornalistica, la psicanalisi. Questa è, in fondo, una scienza, per parlare della quale è necessaria una “specializzazione”; essa richiede, a sua volta, non solamente uno studio, ma anche, e più ancora, un’esperienza personale. Le verità profonde (in una data direzione quasi definitive) che vanno sotto il suo nome, si difendono da sole; il suo cammino, per quanto sotterraneo, per quanto avversato, non può essere, in definitiva, che ascensionale.”

“Tutto il mondo è, più o meno, nevrotico; se l’uomo non fosse – nello stadio attuale del suo sviluppo – nevrotico, come spiegare gli ultimi avvenimenti ai quali tutti noi abbiamo, per nostra disgrazia, assistito? Un Hitler non può essere, in profondità, capito, senza il soccorso della psicanalisi. Né la politica, né l’economia, né la speculazione astratta possono bastare a farci comprendere il fenomeno che va sotto il suo funesto nome.”

“…la vittoria della psicanalisi coinciderà per l’umanità (in un avvenire, ahimè, molto ancora remoto) con una grande crisi di liberazione interna e di chiarificazione dei rapporti sociali.”

“…ci venne in mente un consiglio di Freud. Il consiglio diceva: ”Parlate il meno possibile di psicanalisi con gli ignari”. E, per ignari, si devono intendere tutti quelli che non hanno fatta sulla loro persona un’esperienza diretta delle verità psicanalitiche. Ora questi sono pochissimi e si dividono in due categorie. La prima, di gran lunga più numerosa, è data da quegli ammalati che hanno dovuto sottoporsi alla cura, per uscire, o tentare di uscire, da un inferno; la seconda da quei rari – troppo rari – professionisti che hanno subita la psicanalisi, onde poterla, a loro volta, esercitare. Tutte le mostruose scemenze che furono dette e ridette sulla psicanalisi provengono, oltre che dalle note “resistenze” inconscie, che gli uomini oppongono inconsciamente alla psicanalisi, pure al fatto che, disgraziatamente, non basta aver letto Freud o altri psicanalisti per capire qualcosa della psicanalisi, e della sua importanza, che va al di là della terapeutica o di un metodo sussidiario di indagine psicologica. (Nessuna scoperta, da migliaia d’anni a questa parte, ha avuto per l’uomo l’importanza di quelle compiute da Freud e dai suoi collaboratori. Quello che Freud mise – senza cercarlo – in luce, è semplicemente il mondo nuovo.) Non basta, diciamo, aver letto i suoi libri o i libri di altri psicanalisti, come non basta, ad uno che soffra di una cataratta, consultare un trattato di oculistica alla voce che tratta di questa infermità; ma deve, se vuole guarire, andare da un abile oculista e farsi operare.”

“…Aggiungiamo anzi che poesia e psicanalisi sono fra di loro quasi incompatibili. Una persona che, attraverso un’esperienza psicanalitica condotta fino in fondo e completamente riuscita, avesse superati in se stessa tutti i propri “complessi” e, con quelli, la propria infanzia, non scriverebbe più poesie, nemmeno se avesse sortito dalla natura il genio poetico di Dante; tanto più se ne allontanerebbe quanto più l’inconscio che l’alimenta fosse diventato in lei conscio. Quell’ipotetica persona non perderebbe, per l’analisi, la facoltà di esprimersi (che si ha o non si ha): ma sentirebbe il bisogno di esprimere altro e in altra forma. Perché questo? Perché la poesia, come tutte le arti, è impensabile senza che ci sia, in chi la esercita, una forte, un’eccessivamente forte carica di narcisismo, carica che l’analisi tende, per quanto possibile, a diminuire, deviandola dal soggetto all’oggetto. Un estremo di narcisismo ed una, anche relativa, salute psichica non possono coesistere. “Non credo” diceva Freud ad un suo collega, che lo consultava a proposito di un suo cliente – che era appunto un poeta – ; “non credo che il suo paziente potrà mai guarire del tutto. Al più, uscirà dalla cura molto più illuminato su se stesso e gli altri. Ma, se è un vero poeta, la poesia rappresenta per lui un compenso troppo forte alla nevrosi, perché possa interamente rinunciare ai benefici della malattia”.”

“…E’ vero; io non sono “guarito”, e non ho mai preteso di esserlo; ma nessun altro metodo di cura (che non fosse la psicanalisi) poteva darmi i vantaggi che ho ricavati da lei; né la “persuasione” (che non mi avrebbe persuaso affatto), né l’ipnosi (nel mio caso inapplicabile), né la “confessione”. Molte – infinite – cose ho capite, attraverso la cura, di me e degli altri,…”.  

 


[1] A cura di Paola Bertoldi.

      

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