" Lungo i sentieri della follia"

Home
Introduzione
Storia
Osp. Di Pergine
Letteratura
Arte
Filosofia
Biologia
Immagini
Documenti
 

Letteratura

Italo Svevo

(1861 - 1928)[1]

 La vita 

Italo Svevo (il vero nome è Ettore Schmitz, lo pseudonimo rivela la sua duplicità culturale, per metà italiano e per metà “svevo” o tedesco) nasce a Trieste nel 1861 da famiglia benestante ebrea, studia in una scuola commerciale della città e in un collegio in Baviera.

A causa di dissesti finanziari, provocati dal padre, è costretto a impiegarsi in una banca a Trieste; in questo periodo legge i romanzi francesi (di Balzac, Stendhal, Flaubert e Zola) e i testi italiani (di Boccaccio, Machiavelli, Guicciardini e De Sanctis), studia Schopenhauer , si occupa di teatro e collabora al giornale triestino “L’Indipendente”.

Nel 1886 muore il fratello, nel 1892 il padre. Svevo ha l’occasione di conoscere la cugina Livia Veneziani, figlia di un grande industriale cattolico che dirige una fabbrica di vernici per navi, e, dopo quattro anni, decide di sposarla: benché sia attratto dalla solidità e dalla ricchezza di lei, avverte anche la propria distanza culturale, un’inquietudine e una problematicità ignote alla moglie. Questo matrimonio purtroppo lo porterà ad un provvisorio allontanamento dalla letteratura, con cui peraltro Svevo mantiene sempre un rapporto ambiguo. Entrato a lavorare nell’industria della moglie, ha la possibilità di viaggiare in Inghilterra e di  imparare l’inglese; a Trieste conosce Joyce, poco dopo comincia ad appassionarsi al pensiero di Freud: nel 1919 si apre la fase di ritorno alla letteratura.

Già nel 1923 esce “La coscienza di Zeno”.

Muore nel 1928 in seguito a complicazioni cardiorespiratorie causate da un incidente d’auto. Nell’ultimo periodo lo scrittore ha potuto contare sull’amicizia e il sostegno del poeta Eugenio Montale.

 

"La coscienza di Zeno"

 Continuando l’analisi sulla pazzia e sull’esplorazione della psiche umana, è importante soffermarsi su uno dei romanzi che, oltre a garantire fama indiscussa ad Italo Svevo, mette a nudo la mente del suo protagonista, Zeno, evidenziando tutti i suoi punti deboli.

 I fattori che spingono Svevo alla stesura del romanzo sono la frequentazione dello scrittore irlandese James Joyce (che lo incoraggia ad avere fiducia nelle sue capacità di scrittore), la lettura delle opere di Freud, nonché il tentativo di un’autoanalisi in cui confluiscono lunghi anni di attenta e dettagliata osservazione della realtà.

“La coscienza di Zeno” nasce in un determinato periodo della storia culturale europea: è un romanzo psicoanalitico che non sarebbe mai stato scritto se in quegli anni non ci fosse stato lo sviluppo di una nuova scienza, la psicoanalisi.

Nel primo Novecento, lo psicoanalista, nonostante fosse una figura comparsa da poco sulla scena sociale, cominciava a godere di gran prestigio, in quanto si configurava come colui che risolveva i conflitti provocati dall’irriducibilità della nevrosi all’ordine borghese, ricomponendo a un livello più alto, e quindi più accettabile, l’equilibrio psichico e sociale turbato.

Ma Svevo non gli riconosceva questo ruolo, non aveva fiducia nella psicoanalisi come terapia: basti vedere come narrativamente è trattato il “medico dell’anima”, il dottor S. (alcuni critici riconoscono in questa S. l’iniziale di Sigmund Freud).

La sua figura è caricaturizzata e rende evidente il distacco che Svevo attua da questa nuova scienza, che con ottimismo si propone di risolvere tutti i conflitti. La dissacrazione, a cui egli sottopone la psicoanalisi del suo tempo, è volta a rendere evidente come ogni vera analisi non possa essere che interminabile.

In questo si coglie il relativismo dell’autore e l’avvicinamento alle idee del Freud più moderno, meno positivista (lontano dalla teoria che, se il paziente conosce la causa della sua nevrosi, si ha l’effetto di guarirla), che non solo ha scoperto l’inconscio e ha studiato il linguaggio in cui esso si esprime, ma ha capito anche che l’analisi è interminabile e non è un passivo riflesso di ciò che è dato oggettivamente, ma è una costruzione che analista e analizzato compiono insieme.

 

A circa vent’anni Zeno viene colto da una “strana” malattia (la nevrosi) che lo accompagnerà per buona parte della vita. Tale malattia, i cui sintomi sono inizialmente rappresentati da dolori in varie parti del corpo, provocherà nel protagonista stati d’animo contrastanti, frustrazioni, sensi di vuoto causati probabilmente da un’esistenza passiva e priva di ideali.

Per guarire decide allora di recarsi da uno psicanalista, il dottor S., che gli consiglia di tenere un diario prima della terapia, su varie esperienze della sua vita. L’inizio risulta piuttosto difficile per Zeno, che non riesce a mettere a fuoco i propri ricordi: “Tento di ottenere di più e vado alla poltrona: le persone sbiadiscono e al loro posto si mettono dei buffoni che mi deridono. Ritorno sconfortato al tavolo”. Il dottore consiglia allora di cominciare raccontando il suo vizio del fumo, che lo rese schiavo della sua malattia per lunghissimo tempo.

Quello che distrugge Zeno non è tanto il fumo, ma i buoni propositi di smettere di fumare: continua a stabilire la data per un'ultima sigaretta, ma non riesce mai a rispettare la scadenza, eroso dal sentimento della doppiezza, della mancata integrità; sembra quasi che non voglia smettere di fumare, ma che si faccia dei buoni propositi perché secondo lui l’ultima sigaretta ha un sapore più buono; da una parte vorrebbe rappresentare la salute in persona, e quindi il desiderio di smettere è forte, ma la seconda personalità che lo induce a continuare, smonta qualsiasi intenzione; per questo Zeno soffre della sua debolezza.

Proverà a curarsi facendosi rinchiudere in una stanza, ma anche qui la sua doppia identità cancellerà il suo progetto.

Il suo racconto continua descrivendo la morte del padre; da qui si nota come la sua malattia lo renda egoista: anche di fronte a questo triste avvenimento pensa sempre a se stesso: “Magari lo avessi assistito meglio e pianto meno! Sarei stato meno malato.”

Un attimo prima della morte, il padre lancia un leggero schiaffo a Zeno, che viene inteso da quest’ultimo come una punizione per non averlo lasciato libero di muoversi come desiderava negli ultimi istanti della sua vita; il figlio, accortosi che il padre è morto, implora a tutti i costi il suo perdono: “Non è colpa mia! Fu quel maledetto dottore che voleva obbligarti di stare sdraiato…Ti lascerò muovere come vorrai.”

Ed ecco che a Zeno si prospettano tutti gli errori compiuti nei confronti del padre e riaffiora così, ormai troppo tardi, la personalità dei buoni propositi: “Egli era morto ed io non potevo provargli la mia innocenza!".

Largo spazio poi è dedicato alla storia del suo matrimonio: dopo la morte del padre, Zeno conosce il signor Malfenti, un commerciante che gli fornisce consigli per la gestione del suo patrimonio. Ben presto il Malfenti assumerà quasi una figura paterna per Zeno.

Il protagonista, venuto a conoscenza della presenza di quattro figlie, comincia a riflettere sul fatto che forse sposarsi potrebbe rendere la sua vita meno noiosa. Decide quindi di incontrarle: le possibili in età da matrimonio sono tre: Ada, Alberta e Augusta.

Egli riflette sul fatto che prima del matrimonio è necessario l’innamorarsi, e per questo sceglie Ada, la più bella della tre. Il corteggiamento dura a lungo, finché una sera Zeno decide di pronunciarsi: Ada si rifiuta ed egli, sconvolto, decide di provare anche con Alberta; dopo un secondo rifiuto tenta la sorte con Augusta, la più brutta delle tre.

Anche qui è palpabile l’egoismo del protagonista: la famiglia Malfenti gli è molto cara e non vuole perdere la sua compagnia; per questo decide di sposare Augusta, che non ama, solo per essere ancora ben accetto in quel salotto: “Per avere la pace io avrei dovuto fare in modo che quel salotto non mi fosse mai più interdetto.” C’è da aggiungere che Zeno soffre di un’insonnia terribile quando non si sente a posto, e crede di aver sbagliato in qualcosa. Quella stessa sera decide di prendere in sposa Augusta per mettersi il cuore in pace e poter dormire sonni tranquilli: “Avevo accettato di fidanzarmi ad Augusta per essere sicuro di dormire bene quella notte.”

Neppure il giorno del suo matrimonio Zeno cerca di lasciare da parte se stesso per andare incontro alla sua sposa, sempre più timorosa: dopo aver fatto tardi “all’altare dissi di sì distrattamente perché nella mia viva compassione per Augusta stavo escogitando una quarta spiegazione al mio ritardo e mi pareva la migliore di tutte.”

Il romanzo prosegue poi con la storia del suo tradimento: Zeno, grazie ad un certo Coppler, viene a conoscenza di una fanciulla, Carla, che, impossibilitata economicamente, viene finanziata dai due perché coltivi la passione per il canto.

Zeno se ne innamora e comincia una storia d’amore: ma mentre da una parte è sempre più desideroso di possedere Carla, dall’altra si sente tremendamente in colpa nei confronti della sua Augusta, moglie perfetta.

Il protagonista si ritrova quindi più malato che mai; la situazione è simile a quella del fumo: da un lato non vuole tradire Augusta perché in fondo non vuole farla soffrire, dall’altro non riesce a trattenere il suo desiderio nei confronti di Carla; corre da lei nell’intento di lasciarla e magari di baciarla un’ultima volta, ma nel suo inconscio sa che tornerà il giorno dopo per un “ultimo bacio”.

La situazione è quasi peggiore di quella del suo precedente vizio, tanto che egli simula addirittura dei mali fisici: “Si aumentarono da me i brividi fino a farmi battere i denti…battevo sempre i denti dal freddo ma già sapevo di non avere la febbre e le impedii (ad Augusta) di chiamare il medico.”

Questa volta però cause maggiori lo costringono a chiudere questo circolo vizioso: Carla decide di lasciarlo perché, vedendo Ada rattristata e credendola sua moglie, si sente troppo in colpa per continuare a farla soffrire.

Ma in realtà Ada, unico vero amore di Zeno (anche se lui non lo vuole ammettere), soffre a causa di uno dei più grandi nemici del protagonista, Guido, suo marito. Zeno, costretto a rinunciare a quel suo “ultimo incontro” con l’amante, è sconvolto e spaventato; in seguito alla rottura con Carla, per alcune mattine, continua a recarsi a casa sua nella speranza che lei cambi idea e gli conceda un “ultimo bacio.”

Il penultimo capitolo è dedicato al periodo che Zeno trascorre nell’ufficio di Guido: il protagonista è irrimediabilmente ostile a quest’ultimo, ma fa di tutto per fargli credere il contrario: “Gli strinsi lungamente la mano per rinnovare silenziosamente il proposito di volergli bene, poi mi studiai di dirgli qualcosa di gentile e finii col trovare questa frase…”

Nell’ultimo capitolo il protagonista descrive la sconfitta del suo male e la sua guarigione, che consistono nella convinzione della salute, nell’ottica diversa di porsi di fronte alla vita, perché quest’ultima è malattia, per cui anche i presunti sani sono ammalati.

Con un bizzarro e scorretto sillogismo, che immediatamente rivela la sua malafede, egli nega addirittura l’esistenza della sua malattia: “La miglior prova ch’io non ho avuto quella malattia, risulta dal fatto che non ne sono guarito.”

La società è malata e l’unica soluzione è una grande catastrofe da cui possa nascere una nuova vita su altre basi (si avverte infatti la critica alla società borghese).

Il romanzo si chiude proprio dov’è cominciato, sul nesso malattia-salute trasferito dal singolo caso di Svevo (e quindi di Zeno) a quello dell’umanità: ”Qualunque sforzo di darci la salute è vano”; l’unica possibilità di recuperarla è quella di immaginare che la Terra, a seguito di un’esplosione enorme, ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie.



[1] A cura di Laura Battisti.

   

frgialla.gif (1017 byte)      Index         arrw01d.gif (1017 byte)

 

Webmaster: Pellegrini Claudio

Scrivimi: raidstorm@inwind.it