" Lungo i sentieri della follia"

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Virginia Woolf

(1882 - 1941)[1]

La vita

 Virginia Woolf nacque il 25 gennaio 1882 da genitori entrambi alla seconda esperienza matrimoniale. Il padre, Leslie Stephen, aveva avuto dal suo primo matrimonio una bambina mentalmente ritardata, mentre Julia, la madre di Virginia, era già madre di due ragazzi, George e Gerald, e di una figlia, Stella, quando acconsentì a legare il suo destino a quello di Stephen. Nel 1877 nacque una figlia, Vanessa, e l’anno seguente un maschio, Thoby; l’ultimo nato fu Adrian, che vide la luce nel 1883. Il 5 maggio del 1895 la morte della madre e due anni dopo quella della sorellastra Stella furono vissute come veri attacchi al senso di sicurezza personale di Virginia. Chiuso nel proprio dolore, Leslie Stephen era incapace di aiutare i suoi figli e figliastri e non si accorgeva che il mondo maschile non solo lasciava indifesa Virginia, l’aggrediva. Solo molti anni più tardi la scrittrice confermò la prima traumatica aggressione sessuale da parte del fratellastro Gerald, quando lei aveva solo sei anni; inoltre fu poco dopo la morte della madre che anche George iniziò ad infastidire la sorellastra con goffe effusioni erotiche. Non c’è quindi da stupirsi che Virginia abbia avuto un grave collasso nervoso. Scomparsa sua moglie Leslie Stephen si appoggiò alla figliastra Stella tanto da reagire in modo isterico quando la giovane donna gli annunciò il suo prossimo matrimonio. Anche Virginia, abituata a considerare Stella una sostituta della madre, fu gelosa del nuovo affetto che assorbiva la sorellastra, nonché meravigliata dalla trasformazione operata in Stella dalla felicità dell’innamoramento. Il matrimonio avvenne il 10 aprile 1897 ma, già al ritorno dal viaggio di nozze, la salute di Stella sembrava compromessa; morì infatti il 19 luglio. Durante i mesi della malattia, Virginia incominciò a soffrire di disturbi psichici accompagnati da sintomi fisici.

Mentre le due ragazze erano state educate a casa, Thoby e Adrian frequentarono prima  il Clifton College e poi l’università di Cambridge, dove Thoby fece conoscenza, tra gli altri, di Lytton Strachey, Clive Bell e Leonard Woolf, giovani molto più aperti dei membri della buona borghesia londinese che venivano in visita agli Stephen e che perfino Leslie trovava noiosi. Quando il padre morì, Virginia, disperata per la sua scomparsa, si sentiva colpevole di non avergli espresso meglio il suo affetto e fu con sollievo che accettò la distrazione di un viaggio in Italia dove però, mentre Vanessa restava entusiasta davanti a monumenti e palazzi, Virginia continuava a soffrire di gravi depressioni. Al ritorno in Inghilterra tentò per la prima volta di suicidarsi. Di enorme aiuto le fu l’amica Violet Dickinson, la quale la prese in cura nella sua casa di Burnham Wood. Nell’autunno del 1904 Virginia e Vanessa, con Thoby e Adrian, si trasferirono dalla buia Hyde Park Gate al numero 46 di Gordon Square a Bloomsbury. Il trasloco non significava solo abbandonare un ambiente borghese per un quartiere frequentato da intellettuali ma, soprattutto, aveva l’enorme vantaggio di liberare Vanessa e Virginia dall’intollerabile presenza dei fratellastri e dalle loro continue molestie. Anni dopo la Woolf scrisse amaramente:”... sì, le vecchie signore di Kensington e Belgravia non seppero mai che George Duckworth non fu solo padre e madre, fratello e sorella delle povere ragazze Stephen, ma anche il loro amante”. Gli amici di Thoby incominciarono a far visita ai fratelli Stephen ogni giovedì sera. Si stava formando la famosa cerchia di Bloomsbury, la quale, agli occhi della società borghese del tempo, apparve presto licenziosa e non solo per l’uso di un vocabolario spregiudicato. In verità le sorelle Stephen rimasero a lungo timide ed inibite. Il 20 novembre del 1906 Thoby morì in seguito ad una febbre tifoidea contratta in Grecia e due giorni dopo Vanessa si fidanzò con Clive Bell. Il nuovo menage si stabilì a Bloomsbury non lontano dalla casa dove abitava Virginia con il fratello Adrian: essi ripresero a ricevere gli amici il giovedì sera. La Pasqua del 1908, che vide la nascita di Julian Bell, figlio di Vanessa e Clive, segnò anche l’inizio di una lunga inconsumata relazione tra Virginia e suo cognato, entrambi esclusi dai nuovi sentimenti materni di Vanessa.

Il 17 febbraio del 1909 Lytton Strachey chiese a Virginia di sposarlo malgrado gli fossero chiare le proprie tendenze omosessuali. Virginia accettò, anche perché nella sua proposta mancava la possibilità di un desiderio fisico che chiaramente le ispirava terrore. Quando l’indomani Strachey ritirò la sua proposta, perché l’idea di un rapporto sessuale con una donna, soprattutto con una vergine, gli incuteva paura, Virginia si dimostrò assai comprensiva e lo sciolse immediatamente dall’impegno preso così incautamente. Nel frattempo Leonard Woolf da Ceylon, dove si stava distinguendo nel servizio coloniale, manteneva una fitta corrispondenza con Lytton Strachey al quale confidò la sua intenzione di sposarsi; dal momento che anche Virginia era desiderosissima di innamorarsi, Leonard le avanzò una proposta di matrimonio al ritorno in patria, nel 1912. Si sposarono il 10 agosto successivo, ma ben presto Virginia incominciò a dare segni di squilibrio mentale. Per la seconda volta tentò il suicidio, ingerendo una dose mortale di veronal. Fu salvata con una lavanda gastrica, ma ci volle molto tempo prima che potesse riprendere una vita normale. Con l’inizio della guerra il gruppo di Bloomsbury si disperse e Virginia rimase piuttosto isolata a Hogarth House a Richmond. Nel 1916, insieme con il marito, acquistò un torchio di dimensioni ridotte: era nata la Hogarth Press che vide tra le sue prime pubblicazioni alcune opere di Katherine Mansfield e T. S. Eliot. Nel 1922 Virginia conobbe Vita Sackville–West, moglie del diplomatico Harold Nicolson ad una cena offerta da Clive Bell. Già al primo incontro la Woolf era consapevole che Vita, pur essendo madre di due figli, non nascondeva le proprie tendenze lesbiche. Inizialmente la Woolf rimase insensibile al prorompente fascino della Sackville–West, mentre Vita fu subito attratta dalla Woolf, nonché incuriosita dai suoi talenti letterari che mettevano i propri in ombra. Senza apparentemente turbare il proprio menage coniugale, la Woolf cedette alle lusinghe della assidua corteggiatrice, la quale peraltro non si illuse di poter soppiantare Leonard, e tanto meno Vanessa, negli affetti di Virginia, invitandola persino a considerare la loro relazione come fonte di ispirazione letteraria. Nella primavera del 1936 Leonard accompagnò la moglie in Cornovaglia, nella speranza che la visita dei luoghi amati avrebbe giovato alla sua malattia. Purtroppo quando fece ritorno a Rodmell ricomparvero i ben noti sintomi ed essa si trovò obbligata a rinunciare ad ogni sforzo letterario per tre mesi e mezzo. Quando fu di nuovo in grado di scrivere, lasciò trasparire nella sua prosa la profonda tristezza ispiratele dalla guerra civile spagnola, tristezza che si tramutò in disperazione quando Julian Bell, arruolatosi come conducente di autoambulanza, fu ucciso da una bomba. Alla fine del gennaio 1941 Leonard, preoccupato per la salute della consorte, la fece visitare da Octavia Wilberforce, che abitava non lontano da Rodmell. La Woolf, convinta della mediocrità della sua opera, sentiva tornare i sintomi della pazzia. Dopo aver scritto dei biglietti di addio a Leonard e a Vanessa, si annegò nel vicino fiume Ouse il 29 marzo. La salma, trascinata in mare, fu recuperata solo tre settimane dopo. Già nel 1912, la Woolf aveva minacciato di affogarsi nel caso che si fosse sentita fallita come scrittrice oltre che come donna. Inoltre nel frammento “Mrs Dalloway in Bond Street” la protagonista, affermando di non credere più in

Dio, si chiede che senso abbia continuare a vivere.

 

L'opera 

Virginia Woolf è una grande scrittrice moderna, consapevole, cioè, della crisi che l’essere moderni comporta, crisi di valori etici e formali che come pochi altri grandi artisti lei ha saputo sostenere e superare. Come tale, è una protagonista della grande stagione dello sperimentalismo novecentesco e capisce subito che il ‘900 si presenta con un rumore di “fracasso, di crollo: il suono di qualcosa che si rompe e cade a terra, un suono di distruzione”. Questa sua intuizione, questo suo modo di interpretare il nuovo clima culturale, la porta ad un sentimento di rottura con gli schemi tradizionali e, nell'abbandonare “lo spaventoso metodo dei realisti”, lei si trova a dover affrontare il problema di come, in che modo e maniera si possa conoscere la realtà. E siccome Virginia Woolf non è un filosofo e all’inizio, quando si pone tale questione, neppure una scrittrice, ma semplicemente una donna viva all’alba di un secolo bello e tremendo, il problema l’affronta facendo di se stessa la cavia di quella domanda. In altre parole: da scrittrice sperimentale qual è, gli esperimenti li fa con la sua stessa vita. La sua vita diventa il laboratorio della sua ricerca, perché quella domanda in verità non aspetta una risposta, se non nel senso di una quete – nel senso, cioè, che per trovare la risposta la scrittrice si avvia sulla strada di una ricerca che coincide con la sua vita e la sua scrittura. Insieme a Musil, Virginia Woolf è un’innovatrice del romanzo occidentale che dà prova dell’interesse dell’avanguardia per la follia. La follia è presentata dalla Woolf come un mondo inaccessibile, che sfugge alla vita nella sua stessa bellezza; se però essa non sa comunicare con il mondo, neppure la medicina sa comunicare con il folle e comprenderne le ragioni o la sofferenza. In “Mrs Dalloway”, il tema ha ancora i tratti romantici di percezione più profonda e “poetica” delle cose, ma diventa anche disgregazione dell’io e occasione di sperimentalismo narrativo.

 

Il romanzo, pubblicato nel 1925, inizia in una mattinata di giugno nel dopoguerra mentre la signora Clarissa Dalloway sta uscendo per le strade di Londra con lo scopo di comperare dei fiori, compito solitamente affidato alle domestiche, quel giorno impegnate nei preparativi per un ricevimento che i coniugi Dalloway avrebbero dato la sera stessa. Le strade pullulano di individui di ogni condizione sociale, ciascuno ossessionato dalle proprie paure e col proprio carico di ricordi. Tra questi si trova Septimus Warren Smith, un giovane di modesta condizione, rimasto traumatizzato dalla guerra e soprattutto dall’apparente indifferenza con la quale ha accolto la morte in combattimento di un ufficiale di nome Evans, a lui legato da una profonda amicizia. Al momento dell’armistizio Warren Smith si trovava a Milano: sconvolto dalla convinzione di essere rimasto mutilato nei sentimenti, si sposa impulsivamente con Lucrezia, una giovane milanese con cui rientra successivamente a Londra. Lucrezia sta accompagnando il marito da uno specialista in malattie nervose perché si è resa conto che egli è gravemente ammalato. La signora Dalloway, tornata a casa, rimane delusa nel trovare un biglietto che la informa che suo marito, Richard, è stato invitato a pranzo senza di lei da una certa Lady Bruton che ella ammira per il suo stile. Mentre è impegnata a rammendare il vestito che intende indossare quella sera irrompe nella stanza un nuovo personaggio, Peter Walsh, il quale in gioventù era stato innamorato di lei. A differenza di Richard Dalloway, Walsh non ha fatto carriera. A bordo di una nave che lo portava in India aveva conosciuto la sua futura moglie, ma il matrimonio non era stato felice ed ora egli vorrebbe risposarsi con una giovane donna di nome Daisy, madre di due figli. E’ appena sbarcato a Londra dove conta di risolvere i problemi legali di Daisy e dove spera che i coniugi Dalloway, o altri vecchi amici, possano aiutarlo a trovare un lavoro e un appartamento. Walsh si commuove alla vista di Clarissa la quale, dapprima gelosa alla notizia che Peter ama una donna molto più giovane di lei, si intenerisce poi quando Walsh scoppia a piangere. Si sta ristabilendo tra loro la vecchia intimità quando entra Elisabeth, figlia adolescente di Clarissa. L’incantesimo è rotto e Peter fugge ignorando l’avvertimento di Clarissa che egli è atteso al ricevimento serale. Nel frattempo, seduti sulle panchine in Regent’s Park, i coniugi Warren Smith, attendono di essere ricevuti dal famoso neurologo Sir William Bradshaw, il quale decide che è necessario ricoverare Septimus in una clinica psichiatrica. La giornata prosegue scandita dai ritocchi del Big Ben e del campanile di St. Margaret’s. Mentre Richard Dalloway pranza con Lady Bruton, la conversazione cade sul ritorno di Peter Walsh e ciò fa rinascere nel signor Dalloway i sentimenti di rivalità che aveva nutrito in passato verso Walsh quando questi corteggiava Clarissa: tornando a casa acquista perciò dei fiori da offrirle con l’intenzione di dirle che l’ama. Non riuscendovi, le dimostra il suo affetto portandole una coperta ed esortandola a distendersi per un’ora secondo il consiglio del medico. Mentre Clarissa riposa, arriva Elisabeth per informarla che intende uscire con la signorina Kilman, una fanatica religiosa verso la quale Clarissa nutre sentimenti di gelosia, per l’interesse che essa suscita in Elisabeth, e di disprezzo per la sua mancanza di grazia. Elisabeth prende il tè con la signorina Kilman ai grandi magazzini “Army and Navy”, ma la gelosia dell’anziana donna disgusta la ragazza che, desiderosa di libertà, prende un autobus per godersi la città in solitudine. Intanto Septimus Warren Smith e la moglie Lucrezia, tornati a casa, condividono un momento di intesa perfetta quando Septimus, con la sua sensibilità e il suo gusto, aiuta Lucrezia a creare un cappellino per la figlia della loro padrona di casa. Ma la tragedia è in agguato; quando bussa alla porta una bambina che deve consegnare il giornale della sera, Septimus teme sia il neurologo venuto a prenderlo. Rimasto solo mentre Lucrezia riaccompagna la bambina dalla madre, Septimus si lascia prendere dal panico e all’arrivo, non di Bradshaw, ma del medico che l’aveva curato in precedenza, si getta dalla finestra. Superata l’iniziale repulsione per il ricevimento di Clarissa, di cui detesta il lato mondano, Peter vi si reca e ritrova una loro vecchia amica, Sally Seton, con la quale Clarissa aveva trascorso il momento più felice della sua vita. Essi discorrono del passato mentre Richard e Clarissa intrattengono gli altri ospiti. Nell’attesa che Clarissa si liberi, Sally va a salutare Richard avendo deciso che, col trascorrere degli anni, le è diventato più congeniale. Peter, invece, aspetta con estasi e con terrore l’incontro con Clarissa.

 A differenza dei personaggi di alcune opere precedenti che sembravano quasi dei fantasmi, quelli di “Mrs Dalloway” sono molto più reali, a partire dalla stessa protagonista. La sua scelta appare chiara: ha optato per il tipo di vita che comporta il matrimonio con Richard, piuttosto che la fisicità di un legame con Sally, oppure l’affinità mentale che l’unisce a Peter, malgrado gli anni e le distanze. Clarissa viene vista attraverso gli occhi degli altri personaggi, ma ci è possibile riconoscerla molto più profondamente perché ormai la scrittrice ha perfezionato la tecnica del monologo interiore, tecnica che usa in modo diverso da Joyce in quanto, come precisa Richter, “la sua preoccupazione è più dare la sensazione di un fluire del pensiero che l’intendimento di renderlo parola per parola”. Virginia Woolf aveva appena finito di leggere “Ulysses” quando si apprestò a stendere “Mrs Dalloway”: esistono certe similitudini tra i due romanzi, compreso l’uso diffuso del monologo interiore ed il fatto che l’azione si svolga in un solo giorno in un grande centro urbano, ma non meno decisive sono le differenze. Mentre Joyce si modella sull’Odissea, la Woolf spiega: “E’ mio intendimento realizzare un’analisi della follia e del suicidio: il mondo visto fianco a fianco dal normale e dal folle”. La disgregazione della psiche e dell’identità è vissuta dalla scrittrice attraverso il tema del tempo che minaccia la continuità dell’io e ne divide l’esistenza in momenti staccati. Da un lato esiste il singolo istante in cui si rivela l’esperienza interiore del soggetto, dall’altro il tempo cronologico in cui si riconosce l’organizzazione sociale. Ad un tempo esteriore, che con il suo trascorrere rende irrecuperabile la ricchezza dell’esperienza, si contrappone un tempo interiore, in cui passato, presente e futuro sono compresenti. Il problema che affrontò l’autrice era quello di presentare i due personaggi principali, l’una giudicata sana di mente dalla società e l’altro condannato come pazzo e quindi destinato alla segregazione, e dimostrare le sottili somiglianze tra i due e le angosce che affliggono entrambi. Il verso di Shakespeare “non temere più il calore del sole”, che viene in mente alla protagonista nell’ultima scena, spiega forse l’angoscia che accomuna Clarissa a Septimus. Entrambi temono le avversità della vita: Septimus, che ha vissuto le atrocità della guerra, ad un certo punto non accetta più il suo senso di colpa per essere ancora vivo mentre gli altri hanno avuto la vita stroncata; Clarissa, invece, ha sempre accettato i compromessi e scelto quindi la mediocrità. Nel romanzo è implicito il fine della scrittrice di condannare la società in cui vive e la guerra, che è in certo modo parte di essa. Septimus non desiderava morire; come Clarissa, egli trovava che la vita era bella. Tuttavia il suicidarsi gli pare l’unico modo di fuggire l’intollerabile tirannia esercitata da uomini come Bradshaw. La frase forse più eloquente che la Woolf scrive per esprimere questo lacerante sentimento è: ”All’aspirante suicida è affidato il suo messaggio di salvezza: il comunicare è salute: il comunicare è felicità”. Quando Clarissa viene informata da Bradshaw stesso, ospite del suo ricevimento, della tragedia avvenuta, i suoi pensieri a proposito della morte rispecchiano quelli di Septimus: “la morte era un tentativo di comunicare: avvertendosi l’impossibilità di raggiungere un centro che misticamente sfuggiva a chi lo cercava; la vicinanza rendeva più lontani; l’estasi dileguava e si era soli. Vi era un abbraccio solo nella morte”. Clarissa intuisce che morire per Septimus ha significato mantenere intatta la propria integrità invece di accettare una vita di compromessi come lei sta facendo. Sarebbe logico supporre che questa presa di coscienza finisca col gettare Clarissa nello sconforto, ma la conclusione alla quale perviene la scrittrice è sostanzialmente opposta. La morte di Septimus dà a Clarissa la forza di affrontare il proprio destino; guardando dalla finestra ella vede colori nuovi nel cielo e, ben lungi dall’essere dominata da un sentimento angoscioso d’abbandono in un mondo ostile, la tonalità della nuova Clarissa alla fine è di gioia di fronte alla prospettiva di un esercizio di libertà, il solo degno della creatura mortale, la libertà della propria morte. Lei si sente ricca della sua povertà e libera nella sua finitezza; ora può tornare dagli altri e stare lì con loro perché, priva di illusioni, è interamente reale e realizzata. La vita e le morte sono entrambe una sfida, un rischio che possiamo correre o no; Clarissa e Septimus l’hanno corso mentre Peter, Richard e Sally continuano a vivere una vita di illusioni, di finzioni.

 


[1] A cura di Paola Bertoldi.

 

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