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"LA GUERRA DENTRO. La psichiatria italiana tra fascismo e resistenza (1922-1945)" di Paolo Francesco Peloso

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Rivista Frenis Zero

 

Paolo F. Peloso "La guerra dentro. La psichiatria italiana tra fascismo e resistenza (1922-1945)", Edizioni Ombre Corte, Verona, 2008, pagg. 288, ISBN 978-88-95366-7, € 22,00.
 

    

   

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   E' davvero un piacere salutare l'uscita di un libro di una così vasta prospettiva storiografica, unita ad un pari rigore metodologico - nel contesto peraltro "asfittico" delle pubblicazioni italiane di storia della psichiatria - come il libro appena uscito di Paolo Francesco Peloso. "La guerra dentro" è innanzitutto un titolo davvero azzeccato, con la sua valenza polisemantica che, giustamente, l'autore sottolinea e chiarisce nell'Introduzione. Quel 'dentro' sembra riassumere le svariate angolazioni da cui è possibile studiare il rapporto tra psichiatria e storia in quegli anni di "violenza di Stato" (Puget, 2007  )1 e di guerra. E' sia il manicomio, 'dentro' il quale psichiatri e pazienti, con i rispettivi ruoli rigidamente ben delimitati, facevano "fronte" - anche nel senso letterale di "trincea" - più o meno comune alle gravi violenze omissive (privazioni, negligenze, mancanza di viveri) e commissive (rastrellamenti, persecuzioni) perpetrate dal regime nazi-fascista, sia la mente di alcuni individui 'dentro' cui la guerra si fa sentire con la <<brutalizzazione della vita che l'ha caratterizzata>> e con <<tutto il suo peso di intolleranza, inquietudini, incertezze, aspirazioni inappagate (...)>> (Peloso, 2008, pag. 15)2    . Ma in una prospettiva più sociologica, la società, prima ancora che dalla guerra, è stata investita da una violenza che l'ha smembrata per cui la <<guerra dentro investirà, quindi, uno dopo l'altro, il nemico politico, l'ebreo, il partigiano che fino al giorno prima erano stati il parente, il vicino di casa o il collega>> (Peloso, 2008, pag. 16). Ma il 'dentro', in un contesto traumatico, finisce per perdere anche a livello intrapsichico le proprie demarcazioni rispetto ad un 'fuori': l'effrazione della violenza perpetrata da chi invece dovrebbe funzionare come "garante metasociale" (Kaes, 2005)3   ha come risultato quello di sopprimere qualsiasi "frontiera" nel cuore stesso delle strutture psichiche deputate ad assolvere il compito di "Reitzschutz" (sistema para-eccitatorio) (Freud, 1920)4   .

Paolo Francesco Peloso è psichiatra presso il Dipartimento di Salute Mentale di Genova, e fu dal sottoscritto conosciuto in occasione di un 'panel' attinente alla storia della psichiatria nell'ambito del congresso internazionale della W.P.A. tenutosi a Firenze nel 2004. All'epoca egli aveva già all'attivo numerose pubblicazioni e monografie, concernenti la psichiatria clinica e sociale e la storia della psichiatria, ma anche importanti mansioni di coordinamento della sezione ligure della S.I.P.. Nello specifico campo della storia della psichiatria, voglio ricordare  il volume da lui scritto ed edito nel 1996 "Modelli della mente e del corpo nell'opera medica di Pompeo Sacco (1634-1718)", quello scritto con E. Maura "Lo splendore della ragione. Storia della psichiatria ligure nell'epoca del positivismo" (Genova, 1999), ma anche articoli per riviste internazionali come "History of Psychiatry". Per quest'ultima è in corso di stampa un suo lavoro sull'abolizione della pena capitale nel XIX secolo dal punto di vista di due eminenti psichiatri dell'epoca.

Il libro si compone, oltre che della prefazione di Valeria Babini e dell'introduzione dell'autore, di un primo capitolo in cui vengono analizzati alcuni episodi emblematici del rapporto tra psichiatria e fascismo, come quello dell'uccisione, nel 1922, di due infermieri psichiatrici nelle immediate vicinanze dell'ospedale psichiatrico di Cogoleto. Quell'episodio viene analizzato come paradigmatico di atteggiamenti di più o meno manifesta acquiescenza da parte di quegli psichiatri, come il direttore del manicomio d Cogoleto, che  non solo non reagirono  alle violenze delle squadre fasciste, ma che di fatto le legittimarono. Via via che il fascismo consolida sempre più il suo potere dittatoriale ed abolisce le libertà civili, cominciano a succedersi i vari "Manifesti" a cui gradualmente molti psichiatri si allineano: se al "Manifesto intellettuale del fascismo" del 1925 danno già il loro appoggio l'allora presidente della S.I.P., Enrico Morselli, oltre a Donaggio ed a Agostini, al "Manifesto della razza" del 1938 le adesioni sono ancora più ampie nel mondo della psichiatria. Al contrario, nessuno psichiatra figura tra i  firmatari, sul fronte opposto, del "Contromanifesto" del 1925 (uscito su "Il Mondo"), e nel 1931 nessuno psichiatra si rifiuterà di prestare giuramento al fascismo (Mario Carrara è da considerarsi un antropologo).

Peloso discute approfonditamente gli atteggiamenti e le posizioni politiche assunte in quegli anni dagli 'opinion leaders' della psichiatria: oltre ai già citati Morselli e Donaggio - di quest'ultimo cita le 'roboanti' prolusioni di apertura di alcuni congressi della S.I.P., inneggianti alla 'romanità' della psichiatria nostrana -, vengono ricordati Sante de Sanctis, Ugo Cerletti, Giulio Cesare Ferrari, Gustavo Modena e Levi Bianchini, questi ultimi due vittime del furore antisemita degli ultimi anni del fascismo.

Se in quegli anni la psichiatria italiana aveva già accantonato  ogni interesse per i trattamenti "morali" e la psicoanalisi era ancora vista con molto sospetto,   il manicomio finirà per non accogliere  alcuna esperienza terapeutica innovativa (ad eccezione dei trattamenti di shock ) e per assolvere esclusivamente una funzione custodialistica, con non pochi casi di "forzatura diagnostica" ai danni di oppositori politici (ad es., il caso Massarenti).

Particolarmente suggestivo è il paragrafo sugli "psichiatri contro il fascismo": l'autore riesce a ritrarre una vera e propria galleria di personaggi straordinari, da Francesconi a Pieraccini, da Scabia a Tobino, da Basaglia a Carlo Angela, da Luciana Nissim a Paolo Pini,  da Carlo Lorenzo Cazzullo a Ottorino Balduzzi.

Nel secondo capitolo, il <<motto "A noi!", che abbiamo finora visto come sottintendesse "a noi fascisti e non all'altro rappresentato dal nemico politico", significa invece "a noi che siamo forti, virili, e non all'altro rappresentato da colui che è debole, fragile, l'altro del quale si potrebbe fare a meno, l'altro improduttivo e inutile">> (Peloso, 2008, pag. 18). Questo secondo capitolo è una disamina davvero completa delle questioni ancora dibattute su come i vari filoni dell'eugenetica, che allora si contendevano sempre una maggiore visibilità politica, finirono per articolarsi o dis-articolarsi con una linea politica 'più morbida' tenuta dagli psichiatri italiani rispetto a quella dei colleghi tedeschi. Le posizioni allineate con la sterilizzazione coatta dei malati di mente furono appannaggio di una esigua minoranza di psichiatri italiani, tra cui Angelo Zuccarelli ed Eugenio Medea. Tuttavia uno scienziato molto prestigioso dell'epoca, non uno psichiatra, fu Giuseppe Sergi, il quale sosteneva la necessità del lavoro coatto e di impedimenti a procreare per tutta una serie di categorie di "degenerati": mendicanti, criminali, vagabondi.

Nel terzo capitolo, <<il cui titolo potrebbe risuonare "a noi, e non all'altro che appartiene ad un'altra razza">> (Peloso, 2008, pag. 18), viene analizzato il contributo della psichiatria alle ideologie razziste che furono dapprima appannaggio del colonialismo dell'Italia liberale, e poi dell'antisemitismo e del razzismo in tutte le sue declinazioni (anti-slavo, anti-africano, ecc.) che contraddistinse il regime fascista.

Contariamente ad altri libri che analizzano il razzismo italiano a partire dall'avvento del fascismo, è apprezzabile lo sforzo di Peloso di ripercorrere per intero l'attuale dibattito storiografico sulle radici 'liberali' del razzismo italiano. Già la politica coloniale dell'Italia liberale pre-fascista aveva creato le condizioni per un razzismo scientifico sostenuto da illustri personaggi: lo stesso Sergi, Alfredo Niceforo, e Morselli. Solo Napoleone Colajanni si era distinto nel conformista panorama scientifico italiano per la sua ferma riprovazione di ogni teoria razzista. Anche la "figura perturbante del meticcio" viene analizzata con un'attenzione, oltre che alle posizioni (pseudo)scientifiche dei singoli medici, ad una più ampia congerie culturale, dato che, come afferma Peloso, tutta una serie di documenti disponibili (immagini erotiche ritraenti donne africane, racconti e libri coevi di narrativa, la diffusione della stessa canzone "Faccetta nera", le leggi tese a regolamentare il "madamato" e le unioni interrazziali) finiscono per caricare il meticcio di un ambiguo investimento emotivo fatto di desiderio e di angoscia al tempo stesso. Il paragrafo "Formae mentis: gli psichiatri italiani, l'antisemitismo e il Manifesto degli scienziati razzisti" illustra efficacemente quale contributo fu dato dagli psichiatri ai fenomeni che condussero gli ebrei da essere una minoranza abbastanza ben integrata nella Nazione a divenire oggetto, nel giro di pochi anni, di discriminazioni sempre più pesanti fino alle persecuzioni nazi-fasciste. Le vicende biografiche di alcuni psichiatri ebrei risultano paradigmatiche: Gustavo Modena che viene costretto alle dimissioni dalla carica di vicepresidente della S.I.P., Levi Bianchini che deve nascondersi per sottrarsi alle persecuzioni razziali, gli psichiatri Sacerdote, Imber, Levi, Treves che dovettero dimettersi dagli ospedali psichiatrici torinesi, Evelina Raviz da quello triestino, Giuseppe Muggia che muore con la moglie ad Auschwitz, oltre agli psicoanalisti Weiss, Servadio, Rieti, Hirsh, Bonaventura, Fajrajzen, Kovacs che scelsero la via dell'esilio.

Protagonista del quarto capitolo è la guerra, che sembra essere richiamata dal seguente motto fascista: <<"A chi la vittoria? A noi!>> (Peloso, 2008, pag. 18). E' la guerra 'dentro' i manicomi che uccide pazienti innocenti, è la guerra 'dentro' la comunità degli psichiatri, molti dei quali si ricredono amaramente sul conto del fascismo e si uniscono alla Resistenza, è la guerra 'dentro' le menti di ogni italiano che, al fronte o a casa, finì per dover fare i conti con la morte, le epidemie, la fame, la sofferenza psichica intollerabile.

Ciò che ho apprezzato del libro "La guerra dentro" è, in sintesi, l'aver unito tre fattori che spesso nelle opere di storia della psichiatria non sono sempre così ben amalgamati tra di loro. Essi sono:

1) l'ampiezza dell'orizzonte geo- e storio-grafico;

2) la cura nell'esplicitare i concetti ed i riferimenti teorici che costituiscono i 'mattoni' del discorso storico;

3) l'apertura di quest'ultimo ai tempi presenti.

 

Rispetto al  punto 1), è davvero encomiabile lo sforzo dell'autore di essere riuscito a contenere nelle 288 pagine del volume non solo un'impressionante sintesi di ricerche e di studi storiografici- di cui è il riflesso l'ampia e dettagliata bibliografia - , ma soprattutto l'aver assunto come arco temporale di riferimento un periodo così lungo e complesso come quello del ventennio fascista, per di più estendendo l'analisi storica all'intero ambito nazionale, anziché limitarla -come sarebbe stato forse più 'comodo'- ad un'area geografica meno vasta. Se consideriamo la mole di cambiamenti, non solo interni al mondo psichiatrico, ma che hanno investito la storia della società e delle istituzioni dalla nascita del regime fascista alla Liberazione, possiamo immaginare quale possa essere stata l'impresa del dott. Peloso nel portare a compimento una tale opera. E proprio perché le sue analisi  non rimangono confinate al mondo della storia delle istituzioni e delle prassi psichiatriche, ma si nutrono costantemente di richiami a questioni riguardanti le trasformazioni politiche, degli atteggiamenti sociali e del costume, delle culture più alte come di quelle più popolari che investirono l'Italia,  possiamo quindi solo essergli grati di quanta completezza ed organicità di svolgimento traspaia dalla lettura del suo libro. Esso, pertanto, è raccomandabile non solo  ad un pubblico di studiosi o cultori di storia della psichiatria, ma può essere agevolmente consigliabile a tutti coloro che volessero, a qualsiasi titolo, approfondire la conoscenza storica di quel ventennio davvero cruciale per l'Italia contemporanea.

In quest'ottica, e vengo al punto 2), ho veramente apprezzato la minuziosa cura con cui l'autore ha spiegato, anche nelle note che corredano il testo, termini  e questioni non esclusivamente attinenti alla psichiatria, come ad es. quelli concernenti il razzismo e le politiche coloniali, l'eugenetica e le filosofie che ad essa si richiamavano, la "biopolitica" e le dinamiche di potere all'interno dei centri universitari e di assistenza. Insomma alla fine del libro ho avuto la gradevole sensazione di poter godere di un affresco in cui l'autore ha ritratto un'epoca usando tutta la gamma di colori e di sfumature a sua disposizione, anziché seguire solo certe tonalità per uniformare ad esse l'intera campitura cromatica.

Rispetto al punto 3), è sicuramente apprezzabile il continuo dialogo che l'autore opera, sia nel testo del libro sia nelle note, tra il passato ed il presente, prendendo in considerazione le ricadute che certe questioni  continuano ad avere a tutt'oggi nel dibattito storico, non strettamente limitato alla psichiatria. Tutta una serie di temi attinenti alla bioetica (come ad es. il dibattito tra filosofie utilitaristiche ed altre di tipo 'solidaristico'), alla deontologia medica, ma anche ad un eccesso di ideologizzazione delle teorie e delle pratiche psichiatriche di cui, ahimé, tuttora la nostra professione ancora paga le conseguenze, alla loro validazione  o meno da parte di studi scientifici controllati ( della più grande attualità oggi, specie nel campo degli interventi psicoterapeutici e riabilitativi) vengono illustrati con senso di equilibrio e di completezza  e ricondotti al  'focus' dell'odierno stato dell'arte.

Insomma, un libro consigliabile per capire quelle evoluzioni che la psichiatria italiana avrebbe compiuto in anni più vicini, ed in particolare negli anni '60 e '70, su cui però, mi pare, il giudizio degli storici è ancora lontano dall'aver raggiunto una consensualità ed un carattere di "memoria condivisa" come forse attestano le recenti polemiche attorno al libro di Jervis e Corbellini "La razionalità negata". Ma questa è un'altra Storia.

 

Giuseppe Leo

 

                   

Note:

1) Puget J., "Terrore di Stato e Psicoanalisi", traduz. italiana di Giuseppe Leo, numero speciale della rivista telematica "Frenis Zero", anno IV, numero 8, giugno 2007 (url: http://web.tiscali.it/bibliopsi/frenishome.htm )

2) Per brevità indicheremo nel seguito i passi del libro con la dizione: Peloso, 2008.

3) Kaes R., "Il disagio del mondo moderno e la sofferenza del nostro tempo", in "Psiche", n. 2, 2005.

4) Freud S., "Al di là del principio di piacere", ediz. orig. 1920.