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PREMESSA |
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Il presente progetto nasce dalla sintesi delle esperienze maturate nel 1998 dal Servizio Psicosociale e dal Servizio di Medicina dello Sport della ASL7. Per quanto concerne gli aspetti culturali e procedurali della prevenzione-riabilitazione, i nostri principali riferimenti scientifici e pragmatici riguardo le esperienze compiute, dal 1997 ad oggi, sono indicati nella tabella seguente.
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La prima esperienza, condotta col PROGETTO FAIR PLAY del CONI PROVINCIALE DI LIVORNO, è consistita in un ciclo di incontri nelle Scuole Medie Inferiori e Superiori, con genitori, alunni e insegnanti. Durante tali incontri è stato promosso il concetto di Sport per tutti come metodo psico-educativo e quello di Fair-Play come asse portante degli altri valori dello Sport. La seconda esperienza (ancora in atto) si sta concretizzando con il CONI NAZIONALE e con la FIGC (Settore Giovanile e Scolastico), grazie alla stipula del protocollo d’intesa del CONI e della FEDERCALCIO con il Ministero della Pubblica Istruzione (MPI), per il PROGETTO SPORT PER TUTTI. Questo progetto si rifà in larga parte all’ideologia educativa, già espressa dall’Iniziativa FAIR PLAY di cui sopra, ma mira principalmente alla formazione di Insegnati, Direttori Didattici, Tecnici Societari e Dirigenti Sportivi, Operatori del progetto Integrato tra Scuola e Federazioni Sportive I principali riferimenti nel campo della formazione in oggetto sono indicabili nell’Istituto di Psicologia Generale e Clinica della Facoltà di Medicina e Chirurgia, dell’Università degli Studi di Siena, sede organizzativa del CORSO DI PERFEZIONAMENTO IN PSICOLOGIA DELLO SPORT, ed nei Corsi di Aggiornamento sul tema, organizzati dal CONI NAZIONALE, presso il Centro dell’Acquacetosa di Roma. Gli aspetti concernenti la ricerca sono sviluppati in collaborazione con la Scuola di Specializzazione in Medicina dello Sport dell’Università di Cagliari. Per quanto riguarda l’aspetto riabilitativo ci siamo invece avvalsi dell’esperienza maturata da alcuni Servizi Sociali dell’A.S.L. NA1 di Napoli, presso i quali è stata già avviata (dal 1993) la sperimentazione del Progetto denominato SPORT-RIABILITAZIONE-REINSERIMENTO. Il Progetto coinvolge con successo vari Servizi della zona Napoletana ed altri della Provincia. INTRODUZIONE I nostri ultimi trenta anni sono stati caratterizzati da profonde trasformazioni sociali. Il crollo del "principio di autorità", che aveva permeato la cultura dei nostri padri, il massiccio ingresso della donna nel mondo del lavoro, la progressiva acquisizione di potere da parte dei mass-media nel campo dell’informazione, delle scelte e dei costumi, la crescita dei bisogni da parte dei giovani e della loro condizione di anomia, visto l’aumento della disoccupazione giovanile e l’aumento del periodo scolare, sono tra i fattori che hanno determinato la cosiddetta "crisi di valori istituzionali". I principali problemi nascono forse dal potere che la pubblicità esercita sul giovane: una coercitiva spinta all’acquisto di beni di cui non potrà entrare autonomamente in possesso per anni, vista la dilazione della sua indipendenza. In questo clima di conflittualità, tra bisogno ed assenza di mezzi, tra dipendenza e mancanza di valori, tra richiesta di guida ed opposizione al sistema, cresce il disagio, la sofferenza psicologica, la frustrazione, l’aggressività, la ribellione, la delinquenza, la ricerca di "facili alternative", la tossicodipendenza, l’abuso di alcool, le folli corse su un auto all’alba, la sfida al destino, la ricerca del rischio ed il desiderio di soddisfare i propri bisogni con ogni mezzo. Ciò premesso, l’attività sportiva può assumere un ruolo fondamentale ponendosi in un ottica di prevenzione del disagio giovanile. Le Federazioni e le Società Sportive, nell’assumere un ruolo determinante all’interno della nostra Società, passerebbero da mere promotrici dello sport a promotrici dell’educazione dei giovani del 2000. Sarebbe pertanto auspicabile che tali progetti coinvolgessero le famiglie dei giovani, le Società Sportive, il mondo della Scuola, i Servizi di Medicina dello Sport, i Servizi Psicosociali e i Dipartimenti di Salute Mentale. Si verrebbe a creare una rete di servizi interdipendenti che focalizzano l’attenzione sul giovane, secondo diverse prospettive, mantenendo viva l’attenzione sulla famiglia. MA PERCHE’ UTILIZZARE LO SPORT COME VEICOLO PSICO-EDUCATIVO? Lungi dal volersi sostituire ad altre fondamentali agenzie educative primarie, l’attività sportiva si propone come funzione complementare a quella che già svolge, principalmente, sul piano affettivo la famiglia e sul piano cognitivo la scuola. L’attività sportiva rappresenta, comunque, un concreto mezzo psico-educativo nel processo di sviluppo della personalità del ragazzo. I principali vantaggi determinati dall’impiego dell’attività sportiva come metodo psico-educativo sono:
Il gioco, erroneamente relegato dalla comune convinzione tra le attività infantili, costituisce una delle esigenze fondamentali dell’uomo di qualsiasi età, epoca e cultura. Secondo Piaget (1955) il gioco svolge un importante funzione sociale fin dai primi anni di vita, favorendo la maturazione cognitiva ed i processi di assimilazione/accomodamento. L’agonismo, costituendo una delle naturali tendenze dell’uomo, rappresenta l’innato bisogno di emergere e di misurarsi con la natura, con sé stesso e con gli altri: l’affinamento razionale e specifico dell’istinto aggressivo. L’aggressività é infatti uno degli istinti innati in ogni specie animale, sia che venga utilizzata per la delimitazione del territorio che per la protezione della prole, la predazione o altro. La sua caratterizzazione innata non esclude però la sua educabilità. Trattandosi, perciò, di un’energia canalizzabile e finalizzabile, lo sport rappresenta uno di quei campi in cui, sotto forma di attività agonistica, può esprimersi in maniera libera e funzionale. La competizione sportiva consente di esprimere l’aggressività umana all’interno delimitate coordinate spaziali, temporali e regolamentari; le coordinate temporali sono definite dal segno convenzionale del giudice di gara che sancisce l’inizio e la fine della competizione; quelle spaziali, dai luoghi all’interno dei quali si svolge l’attività sportiva come, ad esempio, il rettangolo di gioco; le coordinate regolamentari sono quelle che definiscono, proprio nella regola, quali sono i limiti oltre i quali non si può spingere lo spirito agonistico e la volontà di superare l’avversario: una sorta di codice morale codificato e riconosciuto tra i giocatori. Un precoce avviamento allo sport può consentire una preventiva educazione al controllo ed alla finalizzazione dell’istinto aggressivo. MA PRATICARE SPORT NON SIGNIFICA TOGLIERE TEMPO ALLO STUDIO? Come sosteneva già Don Milani, negli anni ‘50, l’essere umano necessità sia di attività fisica che intellettiva. L’esercizio mentale aiuta e sviluppa l’impiego del fisico e l’esercizio fisico aiuta a sviluppare il cervello. Inoltre, chi pratica un’attività fisica ha bisogno di momenti di pausa, riflessione ed esercizio per la mente, vuoi che si tratti di una semplice lettura che di un vero e proprio interesse culturale. Allo stesso modo, chi pratica un’intensa attività intellettuale necessità di momenti di scarica e di giocosità. L’attività sportiva, come evidenziato dai più recenti studi nel campo dello stress, consente un rapido scarico delle tensioni accumulate durante le ore di studio ed il recupero più veloce delle energie mentali. Praticare sport non significa, pertanto, togliere tempo e quindi produttività allo studio ma, al contrario, facilita i tempi di recupero dell’affaticamento mentale e quindi permette di produrre di più in tempi più brevi. La pratica sportiva insegna inoltre a programmare la giornata, gli obiettivi a breve, medio e lungo termine, dando priorità a concetti quali il sacrificio per il risultato a lunga scadenza, saper sopportare la frustrazione di una sconfitta, programmare l’attività per un risultato migliore, saper collaborare con gli altri per un risultato comune, saper rimanere degni di sé nella vittoria come nella sconfitta, non centrare l’attenzione tanto sul risultato quanto sul miglioramento progressivo delle proprie competenze. L’attenzione va rivolta infine al concetto di creatività. Lo sport stimola la ricerca di soluzioni strategiche attraverso il gioco (come superare l’avversario, partendo dalla conoscenza dei limiti e delle abilità proprie e dell’antagonista). Chiunque operi nel campo delle devianze può facilmente identificare, nei concetti sopra esposti, sia uno strumento preventivo che riabilitativo. Sappiamo che i principali i tratti di personalità dei soggetti con comportamenti devianti sono:
A QUALI PRINCIPI DOVREBBE QUINDI ISPIRARSI UN OPERATORE SPORTIVO ADDETTO AI SETTORI GIOVANILI? In accordo con le direttive dell’ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITA’ (OMS), che definisce la salute come stato di benessere fisico, psichico e sociale, l’attività sportiva è stata identificata come mezzo fondamentale di prevenzione, oltre che di supporto significativo in ambito psicopedagogico. Il "gruppo dei pari", l’associazionismo sportivo e quello di impegno sociale rappresentano una significativa alternativa di crescita, rispetto ai rischi di passività e staticità; un antidoto contro le cosiddette malattie del benessere che portano ad atteggiamenti e comportamenti poco salutari (alimentazione scorretta, sedentarietà, stress, fumo, abuso di bevande alcoliche e di sostanze stupefacenti). Nell'ambito dell'adozione di stili di vita sani e il linea con il "Piano Sanitario Nazionale 1998-2000", l'attività fisico-sportiva riveste un ruolo fondamentale e protettivo nei riguardi di alcune gravi patologie (cardio e cerebrovascolari, osteoarticolari, metaboliche). Al fine si auspicano azioni programmatiche più ampie volte a promuovere l'attività fisico-sportiva regolare nella popolazione (con particolare attenzione alle fasce di età 10-19 e oltre i 65 anni). Il CODICE EUROPEO DI ETICA SPORTIVA si trova, pertanto, in perfetta sintonia con le direttive dell’OMS e con il "Piano Sanitario Nazionale 1998-2000", quando propone di:
Su tale codice si fonda la CARTA DEL FAIR-PLAY; una sorta di solenne giuramento a cui qualsiasi vero sportivo dovrebbe far capo, perché lo sport rappresenti un vero strumento psico-educativo: Qualunque sia il mio ruolo nello sport, anche quello di spettatore, mi impegno a:
Operando nell’ambito della prevenzione del disagio giovanile, è soprattutto importante che gli operatori sportivi tengano presente LA CARTA DEI DIRITTI DEL RAGAZZO ALLO SPORT; di seguito sono riportati i dieci diritti fondamentali che fanno dello sport un reale strumento psicopedagogico e preventivo:
LA MOTIVAZIONE ALLO SPORT In psicologia, con il termine motivazione, indichiamo quell’agente dinamico, che può essere di tipo fisiologico, emotivo o cognitivo, che organizza il comportamento di un uomo o di un animale per il raggiungimento di un determinato scopo. L’organismo finalizza il raggiungimento del suo obiettivo in base alla specie a cui appartiene ed alla propria struttura di personalità. L’azione messa in atto, in questa fase, prende il nome di comportamento motivato. In età evolutiva la motivazione allo sport varia da periodo a periodo ed in base ai bisogni determinati dalle varie fasce di età. Il piacere che il giovane può trarre dall’attività sportiva è da collegarsi a una situazione di gioco nella quale sono soddisfatti i bisogni di movimento (biopsichici) e di relazione (psicosociali). Le motivazioni psicosociali crescono proporzionalmente alle età dei ragazzi, mentre le motivazioni cognitive rimangono relativamente costanti nel tempo. La noia, la monotonia, la frustrazione, la pressione al successo (da parte dell’allenatore come della famiglia) sono invece fattori che possono indurre l’abbandono precoce. Una larga fascia di soggetti in età evolutiva, pur essendo motivati, non giunge mai a fare sport a livello agonistico tendendo ad abbandonare la pratica sportiva dopo un certo periodo. Gli adolescenti sono estremamente attenti alla loro immagine fisica ed alla valutazione delle loro prestazioni. Il sentimento d’inferiorità può affiorare e manifestarsi attraverso atteggiamenti di fuga, disimpegno, ostilità e negativismo verso la situazione. Altrettanto può verificarsi nei ragazzi precocemente avviati alla competizione. L’insicurezza di fronte alla prova ed il timore dell’eventuale sconfitta può attivare disagio psicologico, soprattutto quando i genitori tendono a stimolare il ragazzo, mettendolo a confronto con i suoi risultati.. La preparazione psicopedagogica degli operatori sportivi assume pertanto carattere di essenzialità, per una buona riuscita del progetto. Sapere gestire le dinamiche di gruppo, rinforzare l’autostima dei più deboli, stimolare la ricerca delle regole, la creatività delle soluzioni, la cooperazione tra i ragazzi, l’impegno per il miglioramento delle proprie competenze, favorire lo sviluppo della morale iniziando dal concetto di Fair-Play. I tecnici devono pertanto essere formati in maniera specifica, perché possano essere dei reali strumenti di prevenzione. In particolar modo, una buona gestione del gruppo, consente sia uno stimolo ai processi di socializzazione che il possesso di un vettore per lo sviluppo morale dell’individuo; intendendo qui, per sviluppo morale, i concetti cognitivisti espressi dal modello di Kholberg. Il MODELLO DI KHOLBERG SULLO SVILUPPO MORALE E LA DEVIANZA Secondo Erikson, nel momento in cui il bambino inizia a camminare, parlare e controllare i propri bisogni evacuativi, comincia a superare quello stato di confusione tra sé ed il resto del mondo, e ad avere la coscienza d’essere qualcosa di unico e distinto. Il superamento dello stato confusivo può dirsi compiuto verso i 3 anni di vita, quando il bambino comincia a usare il pronome "io" ed a parlare in prima persona. Egli ha compiuto un passo decisivo verso l’autonomia e comincia a fare "capricci" per imporre il proprio punto di vista: questa fase é dominata dall’egocentrismo. Non si tratta di semplice egoismo o di deliberato rifiuto a compiere atti generosi, bensì di un complesso fenomeno intellettuale che induce il bambino a riferire tutto a sé stesso ed a ritenere che le cose e le persone esistano solo in rapporto ai propri bisogni. Perciò, dal punto di vista sociale, il bambino ha capacità piuttosto limitate. Per Kholberg, trovandosi ad un livello di sviluppo morale di tipo PRE-CONVENZIONALE, i suoi unici codici morali sono:
Questa modalità di pensiero è simile all’egocentrismo che esprime il deviante nel presentare il suo disturbo nel controllo degli impulsi, la sua intolleranza alla frustrazione e nel costruire una serie di menzogne tese a sfuggire dal proprio disagio e dalle proprie responsabilità. Verso la fine del settimo anno il fanciullo ha una rapida crescita strutturale; dal punto di vista psicologico si realizzano fenomeni evolutivi importantissimi; per prima cosa il passaggio dall’egocentrismo al sociocentrismo. Il fanciullo si avvia ad agire in conformità a regole, prima familiari e poi gruppali. Ciò implica anche il controllo dell’emotività, dell’impulsività ed il progressivo apprezzamento delle norme del vivere sociale. Secondo Kholberg il fanciullo passa da un grado di sviluppo morale di tipo pre-convenzionale ad un LIVELLO CONVENZIONALE di moralità. Secondo tale grado di sviluppo i criteri base di pensiero sono:
A questo livello di sviluppo morale, il bambino é convinto che esistano delle regole precostituite per qualsiasi cosa e che l’adulto sia un indiscutibile esperto. Queste regole sono vissute come se fossero sempre esistite e pertanto sono considerate dal fanciullo come immutabili; non esiste cioè il concetto di convenzionalità. Tale atteggiamento è spesso quello dei soggetti devianti durante la fase riabilitativa. E’ su questi principi di pensiero che fanno spesso leva le Comunità Terapeutiche. Per questo motivo, talvolta, proprio durante la fase di inserimento, il deviante si trova a fallire l’intero programma terapeutico; quando in pratica, fuori da un ambiente protetto, si trova per la prima volta di fronte alle proprie responsabilità. Il programma prevede infatti, spesso, una massiccia interiorizzazione di regole convenzionali ma, raramente, un addestramento alla ricerca di soluzioni concrete, sane e creative, che possono essere alternative a precedenti pattern comportamentali. I programmi terapeutici insegnano spesso regole ma raramente il metodo con il quale queste si creano o si modificano quando mutano gli schemi di riferimento. E’ su questo punto che credo sia doveroso focalizzare l’attenzione: una competenza sul metodo più che sugli schemi convenzionali, anche se il primo livello di competenza rimane una tappa fondamentale del processo riabilitativo. Lo stesso lavoro degli educatori sportivi dovrebbe centrare l’attenzione proprio sulla maieutica della regola sociale: creare situazioni problematiche nelle quali il ragazzo sia stimolato a cercare soluzioni e regole, per continuare a giocare con gli altri. L’ingresso in pre-adolescenza é caratterizzato da nuovi sconvolgimenti sul piano fisico, affettivo ed intellettuale. E’ proprio in questa fase che, secondo Kholberg, raggiunge un livello di SVILUPPO MORALE DI TIPO POST-CONVENZIONALE. Il ragazzo in questa fase comincia a pensare che:
Il ragazzo a questo livello, non solo concepisce le regole come frutto di convenzioni sociali ma, alla ricerca di una propria moralità e di un proprio stile di vita, diventa facile contestatore anche delle regole di comportamento più elementari. E’ in tale prospettiva che si pone il deviante nel momento in cui inizia il proprio percorso regressivo verso livelli di sviluppo morale convenzionali e pre-convenzionale; all’epoca, in altre parole, dei primi contatti con attività delinquenziali. Finché il suo atteggiamento deviante non viene identificato e stigmatizzato dal nucleo sociale di appartenenza, egli si considera un semplice contestatore, fuori delle convenzioni sociali ed alla ricerca di un proprio stile di vita. Nel momento in cui si identifica nel ruolo di deviante, inizia invece ad alternare il suo atteggiamento tra posizioni convenzionali e pre-convenzionali, tra la soddisfazione immediata dei propri bisogni e la ricerca di "cappelli" istituzionali da cui dipendere. In fase riabilitativa avrà invece paura di assumere posizioni di tipo post-convenzionale, perché convinto di non essere all’altezza di gestirsi secondo propri codici di comportamento, come gli è accaduto nel recente passato. E’ ipotizzabile che il deviante, in fase di riabilitazione, conservi ancora modalità di pensiero proprio della fase adolescenziale, senza aver mai sperimentato la responsabilità di un individuo adulto. Una sorta di arresto alla fase evolutiva in cui, iniziato un percorso deviante, non gli sia stato possibile il naturale passaggio alla fase reintegrativa che adatta l’adulto alla vita societaria. Un operatore sportivo, psicopedagogicamente preparato, può favorire lo sviluppo sociale del giovane, focalizzando l’attenzione più sul concetto di Fair-Play che sui risultati sportivi (per altro irrilevanti, a livello giovanile). Alcuni studi di Bredemeier and Shields (1984) indicano che un alto livello di aggressività da parte dell’allenatore dei settori giovanili, correla spesso con un livello di ragionamento morale di tipo pre-convenzionale da parte dei giovani atleti, mentre, a bassi livelli di aggressività da parte del coach, corrisponde un ragionamento morale di tipo post-convenzionale da parte dei ragazzi. Higgins, Power & Kolberg (1984), suggeriscono che le azioni morali dipendono in gran parte dalla definizione di moralità che dà il gruppo, come se l’atteggiamento normativo dipendesse più dal collettivo che dall’individuo. Secondo questo schema, possiamo parlare di atteggiamento morale di tipo pre-convenzionale in campo, quando domina la propensione al vantaggio personale. I giocatori che credono che sia sbagliato infrangere una regola solo perché sarebbero sanzionati, dimostrano questo livello di ragionamento morale. Generalmente non hanno alcun problema a mettere in atto comportamenti antisportivi e lesivi verso l’avversario, pur di raggiungere il proprio obiettivo. Al secondo livello (il livello convenzionale, per seguire Kholberg) diventa fondamentale mantenere e rispettare le norme del gruppo sociale di appartenenza (squadra, famiglia ecc.). I giocatori che evitano comportamenti lesivi, solo perché la squadra ne sarebbe penalizzata, senza una loro riflessione critica, dimostrano questo livello di ragionamento morale. In fine, a un livello più maturo di ragionamento (post-convenzionale nella terminologia di Kholberg), l’atteggiamento morale è guidato da principi più generali. Un esempio di questo tipo di ragionamento morale potrebbe essere quello di un giocatore che rifiuta di danneggiare fisicamente il miglior marcatore dell’altra squadra, ritenendo che il benessere della persona debba essere messo sopra a qualsiasi risultato sportivo. E’ soprattutto in fase adolescenziale, sotto la supervisione di un educatore psicologicamente preparato, che il ragazzo deve essere guidato verso i livelli di ragionamento morale più evoluti e maturi. La fiducia, la coerenza, l’accettazione, lo stimolo alla riflessione, sono le principali chiavi per il superamento dell’inevitabile conflitto tra adolescenza e mondo adulto. SPORT, RIABILITAZIONE, INSERIMENTO E DEVIANZA ASPETTI TEORICI Le maggiori difficoltà che si incontrano nella terapia dei soggetti devianti, sono da mettere in rapporto con l’esasperante incostanza e demotivazione con la quale questi pazienti si sottopongono ai programmi di trattamento. Essi mostrano particolari difficoltà’ ad affidarsi alle cure, fin dalla prima strutturazione del rapporto col Servizio. I motivi di tale comportamento sono sia da ricercarsi nella particolare modalità relazionale del paziente deviante, sia negli atteggiamenti sfiduciati di alcuni operatori dei Servizi. Prendere in carico un utente, da parte di un Servizio Sociale, significa avere cura di osservare e di trattare tutte le complesse dimensioni che attraversano il suo disagio. Per fare ciò, sono necessari sia la volontà del paziente-utente di essere presente al Servizio, sia un arco di tempo sufficientemente lungo per potere svolgere il programma di trattamento individualizzato. Proprio questa è la scommessa quotidiana dell’operatore sociale che, attraverso un continuo sforzo creativo, deve "inventare" condizioni che gli permettano di "incontrare" il deviante. Creare strategie di "aggancio" che permettano una continuità di adesione ai programmi di trattamento ed il "mantenimento in carico". Per esempio nel campo delle tossicodipendenze, la falsa credenza che il farmaco sostitutivo (il Metadone) possa costituire l’unica modalità di aggancio e la comorbilità correlata alla tossicodipendenza fanno sì che, nella maggior parte dei Ser.T, l’approccio iniziale all’utente sia principalmente quello di tipo sanitario e che esso appaia, talvolta, l’unico disponibile durante tutto l’arco del trattamento. Una tale settorializzazione dell’intervento collude con l’interpretazione errata da parte del paziente tossicodipendente, nel definire il proprio disagio come sofferenza del corpo, fondamentalmente in rapporto alla crisi di astinenza. Il risultato di questa modalità di intervento, quando attuata in modo esclusivo, perpetua la tendenza del tossicodipendente a disertare il servizio, perché carente nel fornire delle risposte adeguate alla sua sofferenza. L’operatore del Ser.T., specialmente se non medico, per dotare di significato terapeutico il suo agire quotidiano deve inventarsi perciò’ qualcosa di nuovo. L’intervento psicologico coincide, talvolta, con la tendenza a riportare tout court le esperienze di formazione ed i setting privati nell’ambiente dei Servizi Territoriali Pubblici. Nell’ambito delle devianze ciò rappresenta il pericolo maggiore, rispetto ad altri contesti: la tendenza dell’utente deviante a "frammentare" la relazione, le difficoltà che quasi sempre egli incontra nel sottoporsi ad una Psicoterapia, unite ad un’organizzazione medicalizzata dei Servizi ed a risapute carenze strutturali, rendono impossibile l’utilizzazione assoluta dei classici strumenti diagnostici e terapeutici a disposizione dello psicologo. Un’analisi dei carichi di lavoro calcolati su un campione di venti giorni lavorativi di psicologi di un Servizio Sociale. della città di Napoli, ha mostrato come solo circa il 30% delle attività fossero immediatamente riferibili alla prassi psicologica in senso stretto (Colloqui diagnostici, Colloqui di Sostegno, Psicoterapia). Ciò equivale ad affermare che, quantomeno nel Servizio in esame, gli psicologi avessero ridefinito il proprio agire quotidiano nella individuazione di categorie prassiche non convenzionali. Queste brevi considerazioni in proposito sembrano suggerire che solo utilizzando proposte che possono "catturare" l’utente, entrando in competizione con la devianza stessa, perché egualmente affascinanti, possono permettere al deviante di reggere la continuità dei programmi di trattamento. Le proposte utilizzabili, per una buona qualità dell’aggancio, che consentono l’osservazione ed il trattamento del paziente deviante nel lungo periodo, possono essere ricercate dunque nell’utilizzo di metodologie non convenzionali. MA PERCHÉ UTILIZZARE LO SPORT NEL TRATTAMENTO DELLE DEVIANZE? In primo luogo è necessario rilevare che, nella nostra realtà socioculturale lo sport rappresenta un importante momento d’aggregazione spontanea giovanile; esso è perciò facilmente fruibile ed utilizzabile anche in contesti complessi e degradati. C’è inoltre da considerare che lo sport rappresenta una metafora del sociale, con le sue regole e le sue dinamiche psicologiche e, in quanto tale, può essere un utile strumento d’intervento. Per il deviante, la partecipazione al gruppo sportivo è un evento ludico, lontano dalla monotonia e dalla solitudine della condotta delinquenziale. L’adesione alle regole del gioco e della squadra hanno funzione pedagogica e rappresentano momenti alternativi alle regole spietate della "strada" e del gruppo dei devianti. Se è pur vero che la pratica sportiva garantisce nel bambino e nell’adolescente un armonioso sviluppo psicofisico, essa è maggiormente utilizzabile nel trattamento della devianza, utilizzando il gioco sportivo come strumento pedagogico. Un discorso a parte meriterebbe quello inerente alla possibilità che lo sport offre, riguardo al controllo e alla sublimazione della pulsione aggressiva. Gli operatori sociali sostengono che, nel corso di questi anni di esperienza, non avrebbero potuto osservare ed affrontare con tanta chiarezza le difficoltà che questi giovani incontrano nel riconoscere, e quindi nel gestire, le loro potenti spinte distruttive. Le maggiori difficoltà riscontrate dagli operatori, sono state proprio quelle relative alla gestione del gruppo squadra. In special modo, durante le competizioni, gli operatori napoletani hanno dovuto affrontare imbarazzanti difficoltà di contenimento dell’aggressività degli utenti-atleti. Il maggior impegno degli operatori è stato rivolto quindi all’elaborazione dei numerosi episodi di rabbia esplosiva verificatisi, tentando di canalizzare le potenti spinte distruttive sui binari dell’agonismo sportivo; la situazione sportiva, infatti, generalmente amplifica l’emergere dell’aggressività eterodiretta. Nel caso dell’utente-atleta, l’"esplosione" di questa pulsione è una rappresentazione speculare della tendenza del deviante far "implodere" la rabbia, mortificando la propria esistenza fino ad annientarla. Il significato catartico di questi "agiti", se non compresi ed elaborati, fanno sperimentare all’operatore lo stesso senso d’impotenza terapeutica che egli può vivere nella quotidianità del lavoro al Servizio; l’operatore ha invece la possibilità, con l’utilizzazione del gioco agonistico, di condurre le spinte distruttive verso dimensioni che costruiscano l’incontro con la vita, piuttosto che lo scontro con la morte. La fase più importante è costituita dalla discussione all’interno dei gruppi terapeutici, i quali garantiscono un momento di riflessione sulla tendenza all’acting-out del deviante. L’intervento prevede pertanto due fasi: da una parte la canalizzazione dell’aggressività all’interno di coordinate agonistiche predefinite, dall’altra, una rielaborazione dei vissuti e delle dinamiche di gruppo, prendendo spunto dall’esperienza agonistica. L’ESPERIENZA NAPOLETANA La sperimentazione napoletana dell’impiego dello Sport come strumento riabilitativo, nasce dall’esperienza nell’ambito dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Aversa agli inizi degli anni ’90. Questo studio pilota aveva reso possibile, nel 1993, un’analoga sperimentazione all’interno di alcuni Servizi Sociali della città di Napoli ed in alcuni Servizi della stessa provincia. Pur con le differenze relative alla peculiarità dei contesti e delle patologie, l’esperimento, fin dal primo anno di strutturazione, fece rilevare la stessa entusiastica partecipazione di operatori ed utenti.. L’ANALISI DEI RISULTATI DELL’ESPERIMENTO NAPOLETANO La peculiarità del progetto ha reso necessaria la costituzione di un vero e proprio gruppo di "operatori sportivi", che ha condotto ad interessanti riflessioni sulle modalità generali d’intervento nell’area delle devianze della città di Napoli e della provincia. METODOLOGIA Proponendosi il presente Progetto obiettivi di tipo preventivo, terapeutico e riabilitativo, ipotizza l’impiego di una rete di risorse sul territorio della ASL 7. Per quanto riguarda il territorio del Sulcis dovrebbero essere coinvolti Enti quali il CONI, la FIGC (Settore Giovanile e Scolastico), le Società Sportive, la Scuola, i Comuni, la Provincia, la Regione e per le relative competenze i Servizi della ASL 7 (Servizio di Medicina Sportiva, Servizio Psicosociale, ecc.). L’aspetto formativo e di ricerca potrebbe essere coadiuvato dall’Istituto di Psicologia Generale e Clinica dell’Università degli Studi di Siena e della Scuola di Specializzazione in Medicina dello Sport dell’Università di Cagliari. Il principale obiettivo dovrebbe essere quello di costituire delle équipe di studio e formazione, che permettano uno scambio di competenze tra Maestri dello Sport del CONI (aspetti tecnici delle discipline sportive), Insegnati di Educazione Fisica, Psicologi Clinici, Psicologi Sportivi (esperti nel campo della Psicologia applicata allo Sport), Medici dello Sport (per l’aspetto sanitario). Il progetto verrà strutturato in sei punti, che vanno dalla prevenzione primaria all’inserimento dell’ex-deviante.
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