La
vera “buona morte” è quella che avviene in un contesto personale di
rapporti con Dio, con il prossimo, con la comunità. L’eutanasia, come abbiamo
potuto vedere nel corso del nostro studio è una falsa “buona morte” in
quanto consiste nel rifiuto della comunione di vita, sia da parte
dell’ambiente, sia da parte della persona
che vuole separarsi dai viventi, spesso da parte di quelli che la
rifiutano.
Il
nostro mondo accecato dal perbenismo, dall’egoismo e dall’orgoglio vuole
identificare ancora una volta come bene, atti che palesemente sono cattivi,
mascherandoli con compromessi, con sentimenti che alla fine risultano fittizi,
cercando di mettere a tacere le coscienze con la formulazione di leggi che
rendono leciti e quindi “giusti” tali atti.
Viviamo
in un tempo in cui la cultura della morte avanza senza troppi ostacoli, perché
si fa strada con teorie che danno la possibilità di “superare tanti
problemi”, come un figlio ammalato da “sopportare per tutta la vita”, come
un padre sofferente da assistere per lunghi periodi di degenza, come una madre
che soffre troppo e per “pietà” bisogna porre fine al suo dolore.
La
Chiesa cerca di porre freno a questo cammino e propone a più voci e a più
riprese una cultura della vita, grida la sua scomoda verità al mondo che spesso
fa orecchie da mercante e accusa il Magistero di arretratezza e di poca
comprensione verso i problemi degli uomini. La tentazione che il serpente
propose ad Adamo ed Eva nel Paradiso terrestre ritorna ancora una volta e
avvolge la nostra società: “Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che quando voi
ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste
come Dio, conoscendo il bene e il male.” (Gn 3, 5).
Il
desiderio di essere come Dio invade sempre più il cuore dell’uomo che si
“avventura” in quelli che sono i Suoi compiti, spingendosi oltre quello che
è in suo potere. Spinto da questo desiderio crede di poter decidere la vita e
la morte dei suoi simili, di poter “creare” uomini con caratteristiche
prestabilite, di poter sperimentare su esseri umani non ancora nati. Con il suo
intervento l’uomo stravolge i ritmi dettati dalla natura creando le basi per
conseguenze certamente incontrollabili.
A
Monza nel giugno 1998, un ingegnere armato di pistola stacca il respiratore
della moglie ormai in coma, si allontana da lei solo dopo aver avuto la certezza
della sua morte. “Stava soffrendo troppo” dirà agli agenti della polizia
che lo conducono in carcere. Un fatto questo che riapre il dibattito sulla
legalizzazione dell’eutanasia nel nostro Paese e che fa affiorire reazioni
contrastanti.
Il
presidente del Comitato nazionale di bioetica commenta sul “Corriere
della sera” : “No all’eutanasia come suicidio assistito, sì al
testamento di vita di un paziente che sceglie come vuole essere curato… Siamo
contrari all’eutanasia sotto ogni forma. Il Comitato ha indicato due
possibilità. E’ lecito che il medico esegua la volontà del paziente circa il
modo in cui vuol essere curato, ma non è etico che si presti ad alcuna forma di
“omicidio assistito”,… non possiamo accettare che il marito si sia reso
interprete dei desideri della moglie.” Continuando il suo discorso chiarisce i
pericoli dell’eutanasia legalizzata: “Questa pratica se ammessa per legge,
aprirebbe la porta ad ambiguità così gravi da cui è meglio tenersi alla larga
specie in una società che invecchia. Faccio un esempio: potrebbe succedere che
un parente decida di staccare la spina per non dover più sostenere la gravose
terapie di un familiare anziano.”[1]
Di
diverso parere Carlo Alberto De Fanti ex presidente della Consulta di bioetica,
favorevole all’eutanasia: “Penso che ogni malato, adeguatamente informato
del suo stato di salute, abbia diritto a chiedere di essere aiutato a morire se
non esistono possibilità di uscire dalla malattia”[2].
Un
ulteriore condanna dell’eutanasia viene ancora una volta dal papa, in visita
in Austria che con forza afferma: “Anche nella fragilità dell’ultima ora la
vita umana non è mai senza senso oppure inutile. I malati gravi e i moribondi
ci ricordano che nessuno può determinare il valore o il non valore della vita
di un altro uomo e nemmeno della vita propria. Dono di Dio, la vita è un bene
di cui solo lui può formulare il giudizio definitivo. La scelta
dell’uccisione attiva di un essere umano costituisce sempre un arbitrio anche
quando la si vuole presentare come un gesto di solidarietà e di compassione.”[3]
Fondamentalmente
abbiamo due schieramenti, il primo che crede di dover salvaguardare la
vita perché solo ed esclusivamente Dio è padrone di essa, il secondo che
riconosce all’uomo il diritto di autodeterminazione, e
vede nell’eutanasia un intervento esclusivo di pietà. Sono ancora due
culture che si scontrano, vita e morte che combattano il loro duello che non avrà
fine sino a quando, come ci ricorda il papa sempre nel suo discorso viennese,
non cadrà la sbagliata convinzione che la vita e la morte siano realtà
affidate alla libera disponibilità umana. E’ necessario superare questa falsa
visione, recuperando la nozione di vita come dono da gestire responsabilmente
sotto gli occhi di Dio.
[1] F. D’Agostino, “Corriere della sera”, 22 giugno 1998, 5
[2] C.A. De Fanti, idem
[3] Il Giornale, 22 giugno 1998, 13
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