PRONUNCIAMENTI DEL MAGISTERO
La
Chiesa è sempre stata molto attenta alla salvaguardia dei valori e della difesa
della vita dal suo inizio alla sua fine. Ha sempre adempiuto il suo dovere, ha
avuto sempre il coraggio di schierarsi per la promozione della vita anche quando
il mondo non gradiva i suoi pronunciamenti, definendola arretrata e fuori dei
tempi. Anche riguardo al problema dell’eutanasia non ha tardato a dare la sua
opinione e in vari momenti ha dichiarato la sua posizione.
Già
il papa Pio XII in numerosi suoi discorsi parla di intangibilità della vita
umana, richiama quali sono i doveri della pubblica autorità e dei medici,
condanna la soppressione forzata rifacendosi a un decreto emanato nel 1940 dal
Sant’Uffizio contro i crimini nazisti, riprova ancora la soppressione pietosa,
dimostra le sue serie perplessità sui casi di morte indirettamente affrettata.
Paolo VI, riecheggiando i discorsi del suo predecessore su citato, parla
dei doveri della pubblica autorità e dei medici. Il Concilio Vaticano II nella
Costituzione pastorale Gaudium et spes al numero 27 dice: “Tutto ciò che è contro la
vita stessa, come ogni specie di omicidio, il genocidio, l’aborto,
l’eutanasia e lo stesso suicidio volontario […]: tutte queste cose, e altre
simili sono vergognose e mentre corrompono la civiltà umana, inquinano coloro
che così si comportano, ancor più che quelli che le subiscono, e offendono al
massimo l’onore del Creatore”.
Si
fece riferimento all’eutanasia nei sinodi dei vescovi del 1971 e del 1974, ci
sono stati in proposito anche pronunciamenti di Episcopati e singoli Vescovi.
Arrivando
ai nostri giorni abbiamo dei documenti che si sono soffermati sul problema e che
esamineremo in questo secondo capitolo, essi sono la Dichiarazione
sull’eutanasia della Congregazione per la Dottrina della Fede emanata il 5
maggio 1980, e la Lettera enciclica di Giovanni Paolo II, Evangelium vitae del
25 marzo 1995, nel suo terzo capitolo.
2.1. CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE: DICHIARAZIONE SULL’EUTANASIA
La
dichiarazione sull’eutanasia della Congregazione per la Dottrina della Fede
nasce come dice la stessa, “perché la Chiesa ritiene opportuno proporre un
insegnamento sul problema”.[1]
Sorge l’esigenza di offrire al mondo una disposizione, visti i progressi della
medicina, è quindi necessario fare delle precisazioni sul piano etico.
Il
mondo odierno comincia a vedere la morte e la sofferenza diversamente dal
passato, oggi c’è un grande rifiuto del soffrire anche perché la medicina da
la possibilità di alleviare, in certi casi di eliminare completamente la
sofferenza e molto spesso di prolungare la vita. Affiora, qui, un problema
morale che in tanti si pongono, abbiamo noi uomini la “libertà” , il
diritto di procurare a noi stessi o
ai
nostri simili “la dolce morte”? Sarebbe questo un modo per alleviare il
dolore, per dare più dignità alla vita? La dichiarazione darà una risposta a
questi quesiti.
Cercherà
di rispondere alle tante domande di chiarimenti in proposito arrivate dai
vescovi di tutto il mondo. Sarà indirizzato principalmente ai fedeli di Cristo,
il cui credo ha dato sempre un significato particolare alla sofferenza e alla
morte, a coloro che “credono in un solo Dio creatore, provvido e padrone della
vita”;[2]
e infine si spera venga accettata da tanti uomini di buona volontà che hanno
nelle loro mani le sorti dell’umanità e hanno il compito di reggere e guidare
il nostro mondo.
La
dichiarazione abbastanza sintetica, ma molto significativa e pregnante si
sviluppa in quattro punti così distinti: 1)
Valore della vita umana; 2)
L’eutanasia; 3)
Il cristiano di fronte alla sofferenza e all’uso degli analgesici; 4)
L’uso proporzionato dei mezzi terapeutici.
In
essa sono contenute le diverse regole a cui ci si deve attenere per rispettare
la sacralità della vita nel suo corso ultimo e nella sua fine terrena.
I)
Valore della vita umana
Tutti
gli uomini sono d’accordo nel considerare la vita come fonte di tutti i beni,
molti la ritengono sacra e inviolabile,
i cristiani la vedono come un dono d’amore fatto loro dallo stesso Creatore,
regalo da amministrare, conservare e da cui avere molti frutti.
Nascono
da queste ultime affermazioni alcune conseguenze che voglio riportare per
esteso.
a)
“Nessuno può attentare alla vita di un uomo innocente senza opporsi
all’amore di Dio per lui, senza violare un diritto fondamentale, inammissibile
e inalienabile, senza commettere, perciò, un crimine di estrema gravità.
b)
Ogni uomo ha il dovere di conformare la sua vita al disegno di Dio. Essa
gli è affidata come un bene che deve portare i suoi frutti già qui in terra,
ma trova la sua piena perfezione soltanto nella vita eterna.
c)
La morte volontaria, ossia
il suicidio è, pertanto, inaccettabile al pari
dell’omicidio: un simile atto costituisce, infatti, da parte
dell’uomo, il rifiuto della sovranità di Dio e del suo disegno di amore. Il
suicidio, inoltre, è spesso anche rifiuto dell’amore verso se stessi,
negazione della naturale aspirazione alla vita, rinuncia di fronte ai doveri di
giustizia e di carità verso il prossimo, verso le varie comunità e verso la
società intera, benché talvolta intervengano - come si sa – dei fattori
psicologici che possono attenuare o, addirittura, togliere la responsabilità.
Si dovrà tuttavia tenere ben distinto dal suicidio quel sacrificio con il quale
per una causa superiore – quali la gloria di Dio, la salvezza delle anime, o
il servizio dei fratelli – si offre o si pone in pericolo la propria vita”.[3]
I)
L’eutanasia
Nel
suo secondo paragrafo la dichiarazione chiarisce il significato della parola
eutanasia, traducendola secondo l’etimologia
con “morte dolce”. Approfondisce il termine spiegandone il valore che ha
assunto ai nostri giorni ossia: “Intervento della medicina diretto ad
attenuare i dolori della malattia e dell’agonia, talvolta anche con il rischio
di sopprimere prematuramente la vita”.[4]
Si
usa questo termine, nella nostra società e cultura, per esprimere un intervento
di pietà verso chi si trovava in una condizione di atroce sofferenza, o verso
bambini malformati, malati mentali e incurabili che altrimenti avrebbero vissuto
nell’infelicità.
A
questo punto la dichiarazione della Congregazione per la dottrina della Fede da
la sua definizione: “per eutanasia s’intende un’azione o un’omissione
che di natura sua, o nelle intenzioni, procura la morte, allo scopo di eliminare
ogni dolore, l’eutanasia si situa , dunque, a livello delle intenzioni e dei
metodi usati”.[5]
Continuando
sulla linea, sempre adottata dalla Chiesa, a favore della vita, la dichiarazione
condanna l’azione di ogni uomo che si permetta di decidere la sua o l’altrui
morte in modo particolare se l’atto è rivolto verso esseri innocenti come
feti e embrioni, per proseguire con bambini, giovani, adulti, anziani, vecchi
siano essi malati, incurabili o agonizzanti. Condanna qualunque autorità civile
che si permetta di imporre o permettere questa pratica. Giustifica le sue
affermazioni con le seguenti motivazioni: “l’eutanasia è violazione della
legge divina, offesa alla dignità della persona umana, crimine contro la vita,
attentato contro l’umanità”.[6]
Si
analizza anche il caso in cui il dolore sia prolungato nel tempo e
insopportabile, caratteristiche queste che potrebbero spingere i sofferenti a
chiedere la morte per se stessi o per i propri cari, anche allora l’eutanasia
non perderebbe il suo valore di omicidio che moralmente è sempre e comunque
inammissibile.
Capita
che pazienti molto sofferenti spesso invochino la morte, in questi casi quasi
sempre, afferma la dichiarazione, non si tratta di vera richiesta di eutanasia,
ma piuttosto di un urgente bisogno di affetto e di aiuto.
E’
importante stare vicini a queste persone, donare loro oltre alle cure mediche
anche particolari attenzioni che li facciano sentire amati.
II)
Il cristiano di fronte alla sofferenza e all’uso degli analgesici
All’interno
del terzo paragrafo si esamina il comportamento che il cristiano deve tenere di
fronte alla sofferenza e all’uso di analgesici.
La
sofferenza è di sicuro un qualcosa che angoscia il cuore dell’uomo, che
spesso per la sua atrocità suggerisce di utilizzare qualsiasi mezzo per ridurla
al minimo o per eliminarla del tutto; nella visione cristiana, però, il dolore
assume un particolare significato in quello che è il piano salvifico del
creatore: “infatti è una partecipazione alla passione di Cristo ed è unione
al sacrificio redentore, che egli ha offerto in ossequio alla volontà del
Padre.”[7]
Ci sono dei cristiani che scelgono di non assumere antidolorifici
per poter così affrontare eroicamente le sofferenze e unirle per
completare quelle di Cristo crocifisso, non è questo un atteggiamento da
suggerire a tutti i cristiani, poiché essi hanno il diritto di poter alleviare
il loro dolore assumendo analgesici anche quando questi causino situazioni di
torpore e di poca lucidità.
Nasce
qualche difficoltà per quanto riguarda l’uso intensivo di analgesici, poiché
un simile trattamento porta all’assuefazione e di conseguenza a
somministrazioni di dosi sempre più abbondanti. A questo riguardo è ancora
valida una dichiarazione che Pio XII fece a dei medici che gli posero questa
domanda: “La soppressione del dolore e della coscienza per mezzo dei
narcotici…è permessa dalla religione e dalla morale al medico e al paziente
(anche all’avvicinarsi della morte e se si prevede che l’uso dei narcotici
abbrevierà la vita)?” La
risposta del papa fu la seguente, come riporta la nostra dichiarazione: “Se
non esistono altri mezzi e se, nelle date circostanze, ciò non impedisce
l’adempimento di altri doveri religiosi e morali: Sì.”[8]
La
risposta di Pio XII fu positiva in quanto con quell’azione non si stava
cercando la morte del paziente, ma soltanto l’alleviamento del suo dolore. Il
papa nel suo discorso valuta con molta più severità gli analgesici che fanno
perdere la coscienza agli ammalati, infatti dice che essi hanno il diritto e il
dovere di soddisfare i loro obblighi morali e familiari, ma anche quello di
prepararsi con scrupolo e coscientemente all’incontro con Dio.
III)
L’uso proporzionato dei
mezzi terapeutici
Si
parla oggi di “diritto alla morte” con questa espressione non si vuole
intendere la pratica dell’eutanasia, ma piuttosto il diritto di poter morire
in pace, salvaguardando la dignità umana e cristiana. E’ una precisazione che
diventa importante quando si devono fare i conti con un tecnicismo che rischia
di divenire abusivo.
In
molti casi è difficile dare una valutazione morale sull’uso dei mezzi
terapeutici. Le ultime decisioni spetteranno alla coscienza del malato o a chi
ne deve rispondere quando egli fosse incosciente o in ultima istanza agli stessi
medici.
La
dichiarazione afferma il diritto e il dovere di ogni persona a curarsi e a farsi
curare, ammonisce chi si occupa dei sofferenti affinché operino con diligenza e
somministrino loro i rimedi necessari.
Sin
dove si può però spingere l’azione dei medici, quali mezzi è lecito usare,
quando bisogna fermarsi? Sono questi interrogativi che fanno riflettere i
moralisti, prima si diceva che non si era mai obbligati all’uso di mezzi
straordinari, oggi questa risulta una decisione non molto precisa e quindi
conviene parlare di mezzi proporzionati o sproporzionati.
Questi
mezzi potranno essere verificati secondo diverse regole: “mettendo a confronto
il tipo di terapia, il grado di difficoltà e il rischio che comporta, le spese
necessarie e le possibilità di applicazione, con il risultato che ci si può
aspettare , tenuto conto delle condizioni dell’ammalato e delle sue forze
fisiche e morali”.[9]
Quando
non ci sono altre possibilità si può far uso, con l’autorizzazione del
paziente, degli ultimi ritrovati della medicina, anche se essi non sono stati
ancora del tutto sperimentati, gesto questo con il quale il malato potrà dare
esempio di generosità per il bene dell’umanità. Questa terapia potrà essere
interrotta quando si rivelasse inutile, per farlo sarà, però, necessario il
consenso del malato e dei familiari e il giudizio di medici competenti.
I
mezzi normali a disposizione della medicina possono sempre essere usati
lecitamente e ci si può accontentare di essi. Non si possono imporre cure
ancora in sperimentazione, non esenti da pericoli o molto costose. Chi
rifiutasse tali cure non sceglie il suicidio, ma soltanto l’accettazione della
condizione umana, cure sproporzionate e il non gravare la famiglia e la società
di spese troppo onerose.
In
caso di morte imminente l’ammalato può rinunciare a cure che allungherebbero
la sua vita ma solo precariamente e in modo penoso, non si devono interrompere i
normali interventi sull’ammalato.
Nella
sua conclusione la dichiarazione afferma di ispirarsi unicamente “al profondo
desiderio di servire l’uomo secondo il disegno del Creatore”.[10]
Continua
dichiarando la necessità di accogliere e accettare la morte con piena coscienza
e dignità, ricordando che essa è sì la fine della nostra presenza
sulla terra ma anche l’inizio di un futuro d’immortalità, caratteristiche
queste che suggeriscono di prepararsi al suo arrivo illuminati dalla luce dei
valori umani e da quelli della fede.
Le
ultime raccomandazioni sono rivolte a chi presta cure agli ammalati: essi “non
tralascino niente per mettere al servizio degli ammalati e dei moribondi tutta
la loro competenza” senza dimenticare di donare loro affetto, conforto, di
rivolgersi ad essi con bontà e carità.
La
dichiarazione conclude con una frase del Vangelo di Matteo che riassume la
morale cristiana a proposito di eutanasia e ancor più di carità: “Ogni volta
che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli,
l’avete fatto a me” (Mt 25,40).
2.2 EVANGELIUM VITAE
Lettera
Enciclica di Giovanni Paolo II emanata il 25 marzo 1995, per chiarire il valore
e l’inviolabilità della vita umana, interessa da vicino il nostro argomento e
ai numeri 46-47 e in tutto il terzo capitolo approfondisce il problema
eutanasia, proprio su questi numeri fermeremo ora la nostra attenzione senza
tralasciare una panoramica di tutta la lettera dedicata interamente alla vita.
Il
papa nella sua riflessione parte sempre da una citazione biblica e da essa
sviluppa il tema. Nel primo capitolo si parla delle minacce attuali alla vita
umana, il richiamo biblico è quello di Genesi 4, ossia le vicende di Caino e
Abele. Si esamina l’eclissi del valore della vita, un idea odierna di libertà
che risulta perversa, la dimenticanza del senso di Dio e dell’uomo, si
conclude con una finestra aperta alla speranza e con un esplicito invito
all’impegno.
“Sono
venuto perché abbiano la vita” è questo il tema principale del secondo
capitolo che si sofferma sul messaggio cristiano sulla vita: Cristo vita
visibile, verbo della vita. Si sottolinea la positività del vivere considerato
sempre un bene e portato a compimento da Gesù stesso nonostante la precarietà
dell’uomo. Si volge lo sguardo anche alla vita futura, quella eterna, si passa
poi al considerare la vita di tutti gli uomini un dono di Dio da venerare e
amare, dono da “gestire” con responsabilità nell’atto del suo primo
inizio, vita da salvaguardare, dignità da tenere alta quando il bambino non è
ancora nato. Si arriva così ai numeri 46-47 che esamineremo più in là con
attenzione ossia “la vita nella vecchiaia e nella sofferenza”. La lettera
continua e conclude il suo secondo capitolo ripercorrendo la storia della
salvezza partendo dalla Legge del Sinai (Es 20) e dal dono dello Spirito (Bar
4,1) per arrivare all’albero della croce di Cristo sul quale si compie il
Vangelo della vita. (Gv 19,37).
Si
giunge così al terzo capitolo che prende il suo titolo direttamente dal quinto
comandamento “non uccidere” e nel quale si analizza la legge santa di Dio in
proposito. Qui tralascio il suo modesto esame per poi riprenderlo ampiamente
nelle pagine che seguiranno.
Nel
quarto ed ultimo capitolo abbiamo una proposta che ci invita a coltivare e
incentivare una nuova cultura della vita umana introducendo il tutto con la
biblica frase di Cristo: “Tutto ciò che avete fatto al più piccolo dei miei
fratelli l’avete fatto a me”. (Mt 25,40)
Viene
chiarito che noi siamo il popolo della vita e quindi siamo votati alla vita, ci
viene chiesto di annunciare il Vangelo della vita, di celebrarlo e servirlo.
Giovanni Paolo II identifica la famiglia come il santuario della vita, luogo in
cui essa è ancora più sacra e all’interno della quale dev’essere ben
custodita e protetta. Ci viene chiesto concludendo con le parole di San Paolo
agli Efesini di comportarci come “figli della luce” (Ef 5,8) per realizzare
una vera svolta culturale e cercare di capire il Vangelo della vita come proprio
della città degli uomini.
La
parte che chiude definitivamente l’Enciclica è direttamente ispirata al libro
dell’Apocalisse ai capitoli 12 e 21 in cui sono trattati i seguenti temi: la
maternità di Maria e della Chiesa, la vita insidiata dalle forze del male, lo
splendore della risurrezione.
46
- 47 <<Ho
creduto anche quando dicevo: “Sono troppo infelice”>> (Sal 116
[115],10): la vita nella vecchiaia e nella sofferenza.
E’
difficile, se non impossibile trovare testi biblici
con espresso riferimento alla nostra problematica, infatti per una
cultura socio-religiosa come quella ebraica è impensabile arrivare alla
tentazione di anticipare la propria o l’altrui morte. Il loro rispetto per gli
anziani, ancor più se malati, assume valore sacro ed è motivo di esperienza
ricca per la famiglia e per la società.
Il
salmo 71 recita: “Sei tu Signore la mia speranza fin dalla mia giovinezza… E
ora nella vecchiaia e nella canizie, Dio, non abbandonarmi”, è la voce
dell’uomo che loda la vita anche quando questa si è fatta anziana e forse
pure pesante. Isaia quando promette tempi migliori al popolo di Dio dice: “Non
ci sarà più un vecchio che non giunga alla pienezza dei suoi giorni” (Is
65,20).
Nella
Bibbia c’è un continuo ripetere l’importanza della vita in tutte le sue
fasce, un continuo affermare che nessun uomo è padrone della sua vita,
tantomeno della sua morte; “nella sua vita come nella sua morte, egli deve
affidarsi totalmente al <<volere dell’Altissimo>>, al suo disegno
d’amore”.[11]
La malattia dev’essere affrontata dal cristiano con il medesimo spirito di
abbandono nelle Sue mani, non deve elevarsi dalle sue labbra un grido di
disperazione che invoca la morte, ma che chiama la speranza piena come fa il
salmista: “Signore, Dio mio, a te ho gridato e mi hai guarito. Signore, mi hai
fatto risalire dagl’inferi, mi hai dato vita perché non scendessi nella
tomba” (Sal 30[29],3-4).
Cristo
nella sua vita pubblica si prese cura anche dei numerosi sofferenti incontrati
nella sua strada, molti di loro tornarono a casa sanati, Dio quindi ha a cuore
anche la vita corporale dell’uomo. Questa azione risanatrice continua anche
nei discepoli del Maestro, inviati ad annunziare il Vangelo, ma anche a guarire
i malati, risuscitare i morti, sanare i lebbrosi , cacciare i demoni.
Non
bisogna, nonostante questi discorsi, fare del corpo un assoluto, ci sono motivi
che possono spingere a dare la propria vita quando questo gesto risultasse un
bene superiore. Ne abbiamo numerosi esempi nel Nuovo Testamento, sono atti
compiuti dallo stesso Gesù che salva l’umanità dando la sua vita, da
Giovanni Battista che dona la vita per urlare la scomoda verità, da Stefano che
testimonia la resurrezione del suo Dio crocifisso, da tanti martiri dei primi
secoli, da tanti martiri dei secoli più vicini a noi e del nostro.
Afferma,
a conclusione del numero 47, Giovanni Paolo II: “Nessun uomo, tuttavia, può
scegliere arbitrariamente di vivere o di morire; di tale scelta, infatti è
padrone assoluto soltanto il Creatore, colui nel quale <<viviamo, ci
muoviamo ed esistiamo>>. (At 17,28)”[12]
NON UCCIDERE, LA LEGGE SANTA DI DIO
52<<Se
vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti>> (Mt 19,17): Vangelo e
comandamento.
Per
entrare a far parte della beatitudine eterna , nella stessa vita di Dio, è
necessario osservare i comandamenti, queste sono le esplicite richieste del
Maestro riportate dall’evangelista Matteo al capitolo19 del suo vangelo. Tra
questi comandamenti non bisogna certo tralasciare il quinto, che ammonisce:
“Non uccidere”.
La
legge di Dio è una legge d’amore verso gli uomini e tra gli uomini, l’amore
è parte essenziale dell’annuncio cristiano, della buona novella. La vita è
dono d’amore e “Dio esige dall’uomo che la ami, la rispetti e la promuova.
In tal modo il dono si fa comandamento e il comandamento è esso stesso un
dono”.[13]
L’uomo
è stato innalzato dal Creatore a una grande dignità, messo a governare e
amministrare la terra, creato a immagine di Dio, uomo re del creato ma ancora di
più “re di se stesso e in un certo senso della vita che gli è donata”.[14]
Il compito dell’uomo è amministrativo, la sua azione sulla terra è quella di
ministro di un grande re che è Dio, la sua è comunque una mansione da svolgere
con sapienza e amore, caratteristiche che possono e devono scaturire solamente
dall’osservanza della legge divina fonte di gioia e felicità.
La
vita, quindi, è un tesoro nella mani dell’uomo, ricchezza da non disperdere
ma da coltivare perché produca frutti di bene, è un talento donato di cui si
deve rispondere a chi l’ha regalato.
53–
54 – 55 – 56 – 57 <<Domanderò conto della vita dell’uomo all’uomo>>
(Gn 9,5): La vita umana è sacra e inviolabile
Il
numero 53 della Lettera enciclica che stiamo esaminando inizia con le parole
molto significative e coraggiose dell’Istruzione Donum
vitae: <<La vita umana è sacra perché, fin dal suo inizio, comporta
“l’azione creatrice di Dio” e rimane per sempre in una relazione speciale
con il Creatore, suo unico fine. Solo Dio è Signore della vita dal suo inizio
alla sua fine: nessuno, in nessuna circostanza, può rivendicare a se il diritto
di distruggere direttamente un essere umano innocente>>.[15]
Questo si coglie dalla rivelazione di Dio sulla sacralità della vita, è una
regola solenne contenuta all’interno del decalogo, precedentemente a ciò era
uno dei punti fondamentali dell’Alleanza di Dio con gli uomini in seguito al
diluvio purificatore.
La
sacralità della vita umana è giustificata dal fatto che essa è stata creata a
immagine di Dio stesso, per questo è inviolabile come lo è il suo Creatore.
Il
Signore Dio è il difensore dell’innocente e la sua ira si scaglierà
sull’uomo che ha calpestato la vita di un altro uomo, il Signore sarà giudice
severo dell’assassino. Satana, spirito menzognero ha mascherato il male con
apparenze di bene.
Il
quinto comandamento assume un contenuto negativo, ma questo ammonimento spinge
l’uomo alla riflessione, al non commettere questo gesto crudele, male per se
stessi, male per gli altri uomini. Nella storia del popolo d’Israele la
malvagità di questo gesto è andata pian piano esplicitandosi per tradursi nel
messaggio di Gesù Cristo nella positività del comandamento dell’amore:
“Amerai il prossimo tuo come te stesso”.
La
Tradizione cristiana ha sempre gridato la verità del “non uccidere”
biblico, nella Didachè si afferma:
“Vi sono due vie, una della vita, e l’altra della morte; vi è una grande
differenza fra di esse… Secondo precetto della dottrina: Non ucciderai… non
farai perire il bambino con l’aborto né l’ucciderai dopo che è nato… La
via della morte è questa:… non hanno compassione per il povero, non soffrono
con il sofferente, non riconoscono il loro Creatore”.[16]
Fin dall’inizio le generazioni cristiane sono state molto attente nella
valutazione del comandamento “non uccidere”, questo delitto era considerato
uno dei tre peccati più gravi assieme all’apostasia e all’adulterio.
Tutto
ciò, afferma il papa, “non deve stupire: uccidere l’essere umano, nel quale
è presente l’immagine di Dio, è peccato di particolare gravità. Solo Dio è
padrone della vita!”.[17]
Dopo aver ancora per una volta chiarito questa solenne verità il documento si
sofferma su alcuni gesti che hanno un significato e una posizione particolare
rapportati alla Legge di Dio, come ad esempio la legittima difesa. Ogni uomo ha
diritto a proteggere la sua vita, anche Gesù insegna: “Ama il prossimo tuo, come
te stesso”. La lettera analizza poi la questione della pena di morte,
riassunto con ciò che insegna il Catechismo della Chiesa Cattolica: “Se i
mezzi incruenti sono sufficienti per difendere le
vite umane dall’aggressore
e per proteggere l’ordine pubblico e la sicurezza delle persone,
l’autorità si limiterà a questi mezzi, poiché essi sono rispondenti alle
condizioni concrete del bene comune e sono più conformi alla dignità della
persona umana”.[18]
La pena di morte è concessa solo quando per la difesa della società non ci
fosse altra soluzione.
Abbiamo
visto con quale cautela la Chiesa da indicazioni sulla vita dei colpevoli e con
quale attenzione valuta il rispetto di ogni vita, dopo questi accorgimenti
valore molto più grande assume la difesa degli innocenti, soprattutto se
indifesi e deboli. L’inviolabilità della vita è un punto fermo del credo
cristiano di cui si ha testimonianza nella Sacra Scrittura, nella Tradizione, e
negli insegnamenti del Magistero.
Questa continuità e unanimità nell’affermare nei secoli la stessa
verità è garanzia dagli errori.
Oggi
più che mai l’illiceità morale e il poco rispetto per la vita umana sia al
suo inizio che al suo termine ha spinto la Chiesa a intervenire come abbiamo
visto nell’introduzione a questo secondo capitolo, a più riprese con il suo
magistero, attraverso le Congregazioni, gli Episcopati, i singoli Vescovi, e lo
stesso Concilio Vaticano II. Il Papa afferma con decisione a questo punto,
ricordando la sua autorità proveniente da quella di Pietro e dei suoi
successori e in comunione con la Chiesa Cattolica: “Confermo che l’uccisione
diretta e volontaria di un essere umano innocente è sempre gravemente
immorale”.[19]
Nessun
buon fine può, quindi, giustificare l’eliminazione di una persona umana tanto
più se innocente, questo gesto risulterà sempre moralmente cattivo e illecito
in quanto è grave disobbedienza alla legge morale e a Dio stesso e va contro le
virtù fondamentali della giustizia e della carità.
E’
importante tutelare la vita di ogni persona tenendo sempre presente che non si
tratta di una cosa di cui ci si può liberare secondo le esigenze, ma di un dono
di Dio da conservare e venerare.
“In
questo campo”, sottolinea il papa citando la dichiarazione sull’eutanasia
della Congregazione per la Dottrina della Fede, più sopra esaminata,
“non ci sono privilegi né eccezioni per nessuno… di fronte alle
esigenze morali siamo tutti assolutamente uguali.”
64
– 65 – 66 – 67 - <<Sono io che do la morte e faccio vivere>> (Dt
32,39): Il dramma dell’eutanasia
Mentre
l’aborto interessa la vita al suo inizio, l’eutanasia è problema della sua
fine. Nella nostra società la vita è considerata positiva sin quando può
essere utile e soprattutto quando permette il piacere, il divertimento e il
benessere; appare chiaro che in un ambiente saturo di questa mentalità il
significato della sofferenza perde tutto il suo valore e diventa un nemico da
abbattere a tutti i costi. L’uomo reputa assurdo che la morte possa portar via
con se persone ancora in forma, piene di vita e di un futuro promettente,
considera invece normale e quasi una liberazione il poter soprimere una vita
quando essa è diventata “priva di senso perché immersa nel dolore e
inesorabilmente votata ad un’ulteriore più acuta sofferenza”.[20]
L’uomo
dimentico della sua provenienza divina, della sua identità fatta a immagine del
creatore, si fa giudice della propria morte e chiede che questo “diritto”
gli venga garantito da chi governa il mondo; queste è la richiesta assurda che
oggi sale sempre più in alto in quei Paesi sviluppati dove la medicina continua
a correre verso mete prima d’oggi insperate.
La
tecnica medica ormai ha raggiunto livelli tanto avanzati che è capace non solo
di alleviare, eliminare il dolore ma anche di prolungare la vita umana in
situazioni nelle quali le funzioni biologiche dell’organismo hanno subito
danni improvvisi, consentendo così anche la disponibilità di organi
disponibili per i trapianti.
Questi
progressi fanno avanzare sempre più la tentazione del ricorso all’eutanasia,
l’impadronirsi della morte in anticipo, un processo per tanti normale e utile,
ma moralmente assurdo e disumano. La cultura della morte avvolge le società
“progredite” in continua ricerca di benessere, luoghi in cui la vita
sofferente e la presenza degli anziani rallenta la corsa e diventa troppo
pesante. Chi è inabile e “non ha più alcun valore” disturba una società
con una mentalità efficientista e
va quindi eliminato.
Per
poter dare un giudizio morale sull’eutanasia occorre che sia chiara la sua
definizione vera e propria che l’enciclica identifica con le seguenti parole:
“si deve intendere per eutanasia un’azione o un’omissione che di natura
sua e nelle intenzioni procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore.”[21]
La
rinuncia all’accanimento terapeutico non può essere classificata come
eutanasia, se il paziente capisce che le cure apportategli sono sproporzionate
ai risultati che si potrebbero sperare, che la morte si fa imminente e
irrevocabile, che questa spesa ormai inutile graverebbe sui familiari può
rinunciarvi. Questo non significa che si debba rinunciare a curarsi, in quanto
esso è un obbligo morale, si deve però valutare se le cure sono proporzionate
alle prospettive di miglioramento.
Questo
modo di agire è un accettazione della condizione umana di fronte alla morte e
non si può certo identificare con il suicidio o l’eutanasia.
Nelle
tecniche della medicina sono in uso, per alleviare la sofferenza dei pazienti
terminali, le cure palliative, nasce qui il problema se sia lecito somministrare
analgesici che potrebbero accorciare la vita del malato. Ci sono persone che, in
modo eroico decidono di provare sul loro corpo la sofferenza per intero, ma
questo non è un comportamento che deve diventare legge, come abbiamo già visto
riportando il discorso di Pio XII ai medici.
“Confermo
che l’eutanasia è una grave violazione della legge di Dio, in quanto
uccisione deliberata
moralmente inaccettabile di una persona umana”[22]
Queste le parole del pontefice dette in conformità con il Magistero e in
comunione con i Vescovi della Chiesa Cattolica che assumono quindi valore
d’infallibilità. Quella dell’eutanasia è una pratica che non si discosta
affatto, a seconda delle circostanze, dal suicidio e dell’omicidio.
La
condanna del suicidio, nel proseguire della lettera è evidente e confermata con
forza, soprattutto quando esso è una scelta oggettiva; diverso risulterà
invece questo atto se compiuto sotto condizionamenti psicologici, culturali e
sociali.
Il
suicidio è una rinuncia all’amore verso se stessi, un trascurare i doveri di
giustizia e carità verso il prossimo, è un escludere Dio dalla propria vita,
rifiutare un dono da lui ricevuto gratuitamente. Da condannare, naturalmente, è
anche chi collabora al suicidio di un altro, nel caso di eutanasia si parla di
suicidio assistito, atto che non può essere mai giustificato. Il papa cita
Sant’Agostino e con le parole del vescovo d’Ippona conferma la nostra tesi:
“Non è mai lecito uccidere un altro: anche se lui lo volesse, anzi se lo
chiedesse perché, sospeso tra la vita e la morte, supplica di essere aiutato a
liberare l’anima che lotta contro i legami del corpo e desidera distaccarsene;
non è lecito neppure quando il malato non fosse più in grado di vivere”.[23]
La posizione della Chiesa si conferma ben radicata e ferma nella
continuità, dando così garanzie di verità.
L’eutanasia
non può essere considerata un atto di pietà verso i sofferenti, ma un
alterazione di questo sentimento, una perversione dell’uomo che si rifiuta di
condividere la sofferenza dei fratelli e cerca di sopprimerli per non doverne
sopportare il peso. E’ questo un gesto ancora più cattivo e incomprensibile
quando deciso dai parenti, coloro che dovrebbero assistere con più cura, e dai
medici garanti della vita anche quando essa volge al termine.
L’eutanasia
diventa un atto gravissimo quando viene praticata su pazienti che non l’hanno
richiesta e non hanno mai manifestato l’intenzione di essere ammazzati. E’
assurdo che uomini, soprattutto se medici e legislatori possano decidere chi
deve vivere e chi morire, ritorna la tentazione dei primi uomini, quella di
diventare come Dio. Si rompe l’equilibrio naturale, si usurpa un potere a Dio,
con conseguenze di morte.
La
vera pietà è ben altro e promuove sempre la vita, è quella donata da Gesù
Cristo e ispirata alla sua parola. Per sua natura l’uomo nella sofferenza
richiede compagnia, solidarietà, sostegno nella prova, aiuto per continuare a
sperare, il cristiano poi
deve sempre fare affidamento totale alla volontà di Dio suo Creatore e
Signore datore di vita, padrone della vita. La speranza della risurrezione è
vittoria sulla morte sconfitta da Cristo, tutto ciò deve infondere nel credente
una forza straordinaria, anche nei momenti più difficili e più vicini alla
fine.
Siamo
inseriti nella vita stessa di Cristo, come ci ricorda san Paolo scrivendo ai
Romani. Non bisogna infine dimenticare che la sofferenza se vissuta
cristianamente può portare frutti di bene, la sofferenza vissuta come
partecipazione alla passione di Gesù arricchisce senz’altro di grandi meriti
l’anima del credente.
[1] Congregazione per la Dottrina della Fede, Dich. sull’eutanasia,Iura et bona (5 maggio 1980), II AAS 72 (1980)
[2] idem
[3] idem
[4] idem
[5] idem
[6] idem
[7] idem
[8] Pio XII, Discorso del 24 febbraio 1957 (AAS 49 [1957] p.147)
[9] idem
[10] idem
[11] Lett. enc. Evangelium vitae (25 marzo 1995), 46
[12] idem 47
[13] idem 52
[14] idem 52
[15] Congregazione per la Dottrina della Fede, Istr. Circa il rispetto della vita umana nascente e la dignità della procreazione Donum vitae (22 febbraio 1987), I, 3: AAS 80 (1988)
[16] Didachè, I, 1; II, 1-2
[17] Lett. enc. Evangelium vitae (25 marzo 1995), 55
[18] Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2267
[19] Lett. Enc. Evangelium vitae, (25 marzo 1995 ), 57
[20] idem 64
[21] idem 65
[22] idem 65
[23] Agostino d’Ippona, Epistula 204,5: CSEL, 57, 320
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