II capitolo

 

PRONUNCIAMENTI DEL MAGISTERO

 

La Chiesa è sempre stata molto attenta alla salvaguardia dei valori e della difesa della vita dal suo inizio alla sua fine. Ha sempre adempiuto il suo dovere, ha avuto sempre il coraggio di schierarsi per la promozione della vita anche quando il mondo non gradiva i suoi pronunciamenti, definendola arretrata e fuori dei tempi. Anche riguardo al problema dell’eutanasia non ha tardato a dare la sua opinione e in vari momenti ha dichiarato la sua posizione.

Già il papa Pio XII in numerosi suoi discorsi parla di intangibilità della vita umana, richiama quali sono i doveri della pubblica autorità e dei medici, condanna la soppressione forzata rifacendosi a un decreto emanato nel 1940 dal Sant’Uffizio contro i crimini nazisti, riprova ancora la soppressione pietosa, dimostra le sue serie perplessità sui casi di morte indirettamente affrettata.  Paolo VI, riecheggiando i discorsi del suo predecessore su citato, parla dei doveri della pubblica autorità e dei medici. Il Concilio Vaticano II nella Costituzione pastorale Gaudium et spes al numero 27 dice: “Tutto ciò che è contro la vita stessa, come ogni specie di omicidio, il genocidio, l’aborto, l’eutanasia e lo stesso suicidio volontario […]: tutte queste cose, e altre simili sono vergognose e mentre corrompono la civiltà umana, inquinano coloro che così si comportano, ancor più che quelli che le subiscono, e offendono al massimo l’onore del Creatore”.

Si fece riferimento all’eutanasia nei sinodi dei vescovi del 1971 e del 1974, ci sono stati in proposito anche pronunciamenti di Episcopati e singoli Vescovi. 

Arrivando ai nostri giorni abbiamo dei documenti che si sono soffermati sul problema e che esamineremo in questo secondo capitolo, essi sono la Dichiarazione sull’eutanasia della Congregazione per la Dottrina della Fede emanata il 5 maggio 1980, e la Lettera enciclica di Giovanni Paolo II, Evangelium vitae del 25 marzo 1995, nel suo terzo capitolo.

 

2.1. CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE: DICHIARAZIONE SULL’EUTANASIA

 

La dichiarazione sull’eutanasia della Congregazione per la Dottrina della Fede nasce come dice la stessa, “perché la Chiesa ritiene opportuno proporre un insegnamento sul problema”.[1] Sorge l’esigenza di offrire al mondo una disposizione, visti i progressi della medicina, è quindi necessario fare delle precisazioni sul piano etico.

Il mondo odierno comincia a vedere la morte e la sofferenza diversamente dal passato, oggi c’è un grande rifiuto del soffrire anche perché la medicina da la possibilità di alleviare, in certi casi di eliminare completamente la sofferenza e molto spesso di prolungare la vita. Affiora, qui, un problema  morale che in tanti si pongono, abbiamo noi uomini la “libertà” , il diritto di procurare a noi stessi  o

 

ai nostri simili “la dolce morte”? Sarebbe questo un modo per alleviare il dolore, per dare più dignità alla vita? La dichiarazione darà una risposta a questi quesiti.

Cercherà di rispondere alle tante domande di chiarimenti in proposito arrivate dai vescovi di tutto il mondo. Sarà indirizzato principalmente ai fedeli di Cristo, il cui credo ha dato sempre un significato particolare alla sofferenza e alla morte, a coloro che “credono in un solo Dio creatore, provvido e padrone della vita”;[2] e infine si spera venga accettata da tanti uomini di buona volontà che hanno nelle loro mani le sorti dell’umanità e hanno il compito di reggere e guidare il nostro mondo.

La dichiarazione abbastanza sintetica, ma molto significativa e pregnante si sviluppa in quattro punti così distinti: 1) Valore della vita umana; 2) L’eutanasia; 3) Il cristiano di fronte alla sofferenza e all’uso degli analgesici; 4) L’uso proporzionato dei mezzi terapeutici.

In essa sono contenute le diverse regole a cui ci si deve attenere per rispettare la sacralità della vita nel suo corso ultimo e nella sua fine terrena.

 

I)    Valore della vita umana

Tutti gli uomini sono d’accordo nel considerare la vita come fonte di tutti i beni, molti la ritengono sacra e inviolabile, i cristiani la vedono come un dono d’amore fatto loro dallo stesso Creatore, regalo da amministrare, conservare e da cui avere molti frutti.

 Nascono da queste ultime affermazioni alcune conseguenze che voglio riportare per esteso.

a)      “Nessuno può attentare alla vita di un uomo innocente senza opporsi all’amore di Dio per lui, senza violare un diritto fondamentale, inammissibile e inalienabile, senza commettere, perciò, un crimine di estrema gravità.

b)     Ogni uomo ha il dovere di conformare la sua vita al disegno di Dio. Essa gli è affidata come un bene che deve portare i suoi frutti già qui in terra, ma trova la sua piena perfezione soltanto nella vita eterna.

c)      La morte volontaria, ossia il suicidio è, pertanto, inaccettabile al pari      dell’omicidio: un simile atto costituisce, infatti, da parte dell’uomo, il rifiuto della sovranità di Dio e del suo disegno di amore. Il suicidio, inoltre, è spesso anche rifiuto dell’amore verso se stessi, negazione della naturale aspirazione alla vita, rinuncia di fronte ai doveri di giustizia e di carità verso il prossimo, verso le varie comunità e verso la società intera, benché talvolta intervengano - come si sa – dei fattori psicologici che possono attenuare o, addirittura, togliere la responsabilità. Si dovrà tuttavia tenere ben distinto dal suicidio quel sacrificio con il quale per una causa superiore – quali la gloria di Dio, la salvezza delle anime, o il servizio dei fratelli – si offre o si pone in pericolo la propria vita”.[3]

 

I)    L’eutanasia

Nel suo secondo paragrafo la dichiarazione chiarisce il significato della parola eutanasia, traducendola secondo  l’etimologia con “morte dolce”. Approfondisce il termine spiegandone il valore che ha assunto ai nostri giorni ossia: “Intervento della medicina diretto ad attenuare i dolori della malattia e dell’agonia, talvolta anche con il rischio di sopprimere prematuramente la vita”.[4]

Si usa questo termine, nella nostra società e cultura, per esprimere un intervento di pietà verso chi si trovava in una condizione di atroce sofferenza, o verso bambini malformati, malati mentali e incurabili che altrimenti avrebbero vissuto nell’infelicità.

A questo punto la dichiarazione della Congregazione per la dottrina della Fede da la sua definizione: “per eutanasia s’intende un’azione o un’omissione che di natura sua, o nelle intenzioni, procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore, l’eutanasia si situa , dunque, a livello delle intenzioni e dei metodi usati”.[5] 

Continuando sulla linea, sempre adottata dalla Chiesa, a favore della vita, la dichiarazione condanna l’azione di ogni uomo che si permetta di decidere la sua o l’altrui morte in modo particolare se l’atto è rivolto verso esseri innocenti come feti e embrioni, per proseguire con bambini, giovani, adulti, anziani, vecchi siano essi malati, incurabili o agonizzanti. Condanna qualunque autorità civile che si permetta di imporre o permettere questa pratica. Giustifica le sue affermazioni con le seguenti motivazioni: “l’eutanasia è violazione della legge divina, offesa alla dignità della persona umana, crimine contro la vita, attentato contro l’umanità”.[6]

Si analizza anche il caso in cui il dolore sia prolungato nel tempo e insopportabile, caratteristiche queste che potrebbero spingere i sofferenti a chiedere la morte per se stessi o per i propri cari, anche allora l’eutanasia non perderebbe il suo valore di omicidio che moralmente è sempre e comunque inammissibile.

Capita che pazienti molto sofferenti spesso invochino la morte, in questi casi quasi sempre, afferma la dichiarazione, non si tratta di vera richiesta di eutanasia, ma piuttosto di un urgente bisogno di affetto e di aiuto.

E’ importante stare vicini a queste persone, donare loro oltre alle cure mediche anche particolari attenzioni che li facciano sentire amati.

 

II)     Il cristiano di fronte alla sofferenza e all’uso degli analgesici 

 

All’interno del terzo paragrafo si esamina il comportamento che il cristiano deve tenere di fronte alla sofferenza e all’uso di analgesici.

La sofferenza è di sicuro un qualcosa che angoscia il cuore dell’uomo, che spesso per la sua atrocità suggerisce di utilizzare qualsiasi mezzo per ridurla al minimo o per eliminarla del tutto; nella visione cristiana, però, il dolore assume un particolare significato in quello che è il piano salvifico del creatore: “infatti è una partecipazione alla passione di Cristo ed è unione al sacrificio redentore, che egli ha offerto in ossequio alla volontà del Padre.”[7] Ci sono dei cristiani che scelgono di non assumere antidolorifici  per poter così affrontare eroicamente le sofferenze e unirle per completare quelle di Cristo crocifisso, non è questo un atteggiamento da suggerire a tutti i cristiani, poiché essi hanno il diritto di poter alleviare il loro dolore assumendo analgesici anche quando questi causino situazioni di torpore e di poca lucidità.

Nasce qualche difficoltà per quanto riguarda l’uso intensivo di analgesici, poiché un simile trattamento porta all’assuefazione e di conseguenza a somministrazioni di dosi sempre più abbondanti. A questo riguardo è ancora valida una dichiarazione che Pio XII fece a dei medici che gli posero questa domanda: “La soppressione del dolore e della coscienza per mezzo dei narcotici…è permessa dalla religione e dalla morale al medico e al paziente (anche all’avvicinarsi della morte e se si prevede che l’uso dei narcotici abbrevierà la vita)?”  La risposta del papa fu la seguente, come riporta la nostra dichiarazione: “Se non esistono altri mezzi e se, nelle date circostanze, ciò non impedisce l’adempimento di altri doveri religiosi e morali: Sì.”[8]

La risposta di Pio XII fu positiva in quanto con quell’azione non si stava cercando la morte del paziente, ma soltanto l’alleviamento del suo dolore. Il papa nel suo discorso valuta con molta più severità gli analgesici che fanno perdere la coscienza agli ammalati, infatti dice che essi hanno il diritto e il dovere di soddisfare i loro obblighi morali e familiari, ma anche quello di prepararsi con scrupolo e coscientemente all’incontro con Dio.

 

 

 

 

 

III)   L’uso proporzionato dei mezzi terapeutici

 

Si parla oggi di “diritto alla morte” con questa espressione non si vuole intendere la pratica dell’eutanasia, ma piuttosto il diritto di poter morire in pace, salvaguardando la dignità umana e cristiana. E’ una precisazione che diventa importante quando si devono fare i conti con un tecnicismo che rischia di divenire abusivo.

In molti casi è difficile dare una valutazione morale sull’uso dei mezzi terapeutici. Le ultime decisioni spetteranno alla coscienza del malato o a chi ne deve rispondere quando egli fosse incosciente o in ultima istanza agli stessi medici.

La dichiarazione afferma il diritto e il dovere di ogni persona a curarsi e a farsi curare, ammonisce chi si occupa dei sofferenti affinché operino con diligenza e somministrino loro i rimedi necessari.

Sin dove si può però spingere l’azione dei medici, quali mezzi è lecito usare, quando bisogna fermarsi? Sono questi interrogativi che fanno riflettere i moralisti, prima si diceva che non si era mai obbligati all’uso di mezzi straordinari, oggi questa risulta una decisione non molto precisa e quindi conviene parlare di mezzi proporzionati o sproporzionati.

Questi mezzi potranno essere verificati secondo diverse regole: “mettendo a confronto il tipo di terapia, il grado di difficoltà e il rischio che comporta, le spese necessarie e le possibilità di applicazione, con il risultato che ci si può aspettare , tenuto conto delle condizioni dell’ammalato e delle sue forze fisiche e morali”.[9]

Quando non ci sono altre possibilità si può far uso, con l’autorizzazione del paziente, degli ultimi ritrovati della medicina, anche se essi non sono stati ancora del tutto sperimentati, gesto questo con il quale il malato potrà dare esempio di generosità per il bene dell’umanità. Questa terapia potrà essere interrotta quando si rivelasse inutile, per farlo sarà, però, necessario il consenso del malato e dei familiari e il giudizio di medici competenti.

I mezzi normali a disposizione della medicina possono sempre essere usati lecitamente e ci si può accontentare di essi. Non si possono imporre cure ancora in sperimentazione, non esenti da pericoli o molto costose. Chi rifiutasse tali cure non sceglie il suicidio, ma soltanto l’accettazione della condizione umana, cure sproporzionate e il non gravare la famiglia e la società di spese troppo onerose.

In caso di morte imminente l’ammalato può rinunciare a cure che allungherebbero la sua vita ma solo precariamente e in modo penoso, non si devono interrompere i normali interventi sull’ammalato.

Nella sua conclusione la dichiarazione afferma di ispirarsi unicamente “al profondo desiderio di servire l’uomo secondo il disegno del Creatore”.[10]

Continua dichiarando la necessità di accogliere e accettare la morte con piena coscienza e dignità, ricordando che essa è sì la fine della nostra presenza
sulla terra ma anche l’inizio di un futuro d’immortalità, caratteristiche queste che suggeriscono di prepararsi al suo arrivo illuminati dalla luce dei valori umani e da quelli della fede.

Le ultime raccomandazioni sono rivolte a chi presta cure agli ammalati: essi “non tralascino niente per mettere al servizio degli ammalati e dei moribondi tutta la loro competenza” senza dimenticare di donare loro affetto, conforto, di rivolgersi ad essi con bontà e carità.

La dichiarazione conclude con una frase del Vangelo di Matteo che riassume la morale cristiana a proposito di eutanasia e ancor più di carità: “Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,40).

 

2.2  EVANGELIUM VITAE

 

Lettera Enciclica di Giovanni Paolo II emanata il 25 marzo 1995, per chiarire il valore e l’inviolabilità della vita umana, interessa da vicino il nostro argomento e ai numeri 46-47 e in tutto il terzo capitolo approfondisce il problema eutanasia, proprio su questi numeri fermeremo ora la nostra attenzione senza tralasciare una panoramica di tutta la lettera dedicata interamente alla vita.

Il papa nella sua riflessione parte sempre da una citazione biblica e da essa sviluppa il tema. Nel primo capitolo si parla delle minacce attuali alla vita umana, il richiamo biblico è quello di Genesi 4, ossia le vicende di Caino e Abele. Si esamina l’eclissi del valore della vita, un idea odierna di libertà che risulta perversa, la dimenticanza del senso di Dio e dell’uomo, si conclude con una finestra aperta alla speranza e con un esplicito invito all’impegno.

“Sono venuto perché abbiano la vita” è questo il tema principale del secondo capitolo che si sofferma sul messaggio cristiano sulla vita: Cristo vita visibile, verbo della vita. Si sottolinea la positività del vivere considerato sempre un bene e portato a compimento da Gesù stesso nonostante la precarietà dell’uomo. Si volge lo sguardo anche alla vita futura, quella eterna, si passa poi al considerare la vita di tutti gli uomini un dono di Dio da venerare e amare, dono da “gestire” con responsabilità nell’atto del suo primo inizio, vita da salvaguardare, dignità da tenere alta quando il bambino non è ancora nato. Si arriva così ai numeri 46-47 che esamineremo più in là con attenzione ossia “la vita nella vecchiaia e nella sofferenza”. La lettera continua e conclude il suo secondo capitolo ripercorrendo la storia della salvezza partendo dalla Legge del Sinai (Es 20) e dal dono dello Spirito (Bar 4,1) per arrivare all’albero della croce di Cristo sul quale si compie il Vangelo della vita. (Gv 19,37).

Si giunge così al terzo capitolo che prende il suo titolo direttamente dal quinto comandamento “non uccidere” e nel quale si analizza la legge santa di Dio in proposito. Qui tralascio il suo modesto esame per poi riprenderlo ampiamente nelle pagine che seguiranno.

Nel quarto ed ultimo capitolo abbiamo una proposta che ci invita a coltivare e incentivare una nuova cultura della vita umana introducendo il tutto con la biblica frase di Cristo: “Tutto ciò che avete fatto al più piccolo dei miei fratelli l’avete fatto a me”. (Mt 25,40)

Viene chiarito che noi siamo il popolo della vita e quindi siamo votati alla vita, ci viene chiesto di annunciare il Vangelo della vita, di celebrarlo e servirlo. Giovanni Paolo II identifica la famiglia come il santuario della vita, luogo in cui essa è ancora più sacra e all’interno della quale dev’essere ben custodita e protetta. Ci viene chiesto concludendo con le parole di San Paolo agli Efesini di comportarci come “figli della luce” (Ef 5,8) per realizzare una vera svolta culturale e cercare di capire il Vangelo della vita come proprio della città degli uomini.

 La parte che chiude definitivamente l’Enciclica è direttamente ispirata al libro dell’Apocalisse ai capitoli 12 e 21 in cui sono trattati i seguenti temi: la maternità di Maria e della Chiesa, la vita insidiata dalle forze del male, lo splendore della risurrezione.

 

46 - 47     <<Ho creduto anche quando dicevo: “Sono troppo infelice”>> (Sal 116 [115],10): la vita nella vecchiaia e nella sofferenza.

 

E’ difficile, se non impossibile trovare testi biblici  con espresso riferimento alla nostra problematica, infatti per una cultura socio-religiosa come quella ebraica è impensabile arrivare alla tentazione di anticipare la propria o l’altrui morte. Il loro rispetto per gli anziani, ancor più se malati, assume valore sacro ed è motivo di esperienza ricca per la famiglia e per la società.

Il salmo 71 recita: “Sei tu Signore la mia speranza fin dalla mia giovinezza… E ora nella vecchiaia e nella canizie, Dio, non abbandonarmi”, è la voce dell’uomo che loda la vita anche quando questa si è fatta anziana e forse pure pesante. Isaia quando promette tempi migliori al popolo di Dio dice: “Non ci sarà più un vecchio che non giunga alla pienezza dei suoi giorni” (Is 65,20).

Nella Bibbia c’è un continuo ripetere l’importanza della vita in tutte le sue fasce, un continuo affermare che nessun uomo è padrone della sua vita, tantomeno della sua morte; “nella sua vita come nella sua morte, egli deve affidarsi totalmente al <<volere dell’Altissimo>>, al suo disegno d’amore”.[11] La malattia dev’essere affrontata dal cristiano con il medesimo spirito di abbandono nelle Sue mani, non deve elevarsi dalle sue labbra un grido di disperazione che invoca la morte, ma che chiama la speranza piena come fa il salmista: “Signore, Dio mio, a te ho gridato e mi hai guarito. Signore, mi hai fatto risalire dagl’inferi, mi hai dato vita perché non scendessi nella tomba” (Sal 30[29],3-4).

Cristo nella sua vita pubblica si prese cura anche dei numerosi sofferenti incontrati nella sua strada, molti di loro tornarono a casa sanati, Dio quindi ha a cuore anche la vita corporale dell’uomo. Questa azione risanatrice continua anche nei discepoli del Maestro, inviati ad annunziare il Vangelo, ma anche a guarire i malati, risuscitare i morti, sanare i lebbrosi , cacciare i demoni.

Non bisogna, nonostante questi discorsi, fare del corpo un assoluto, ci sono motivi che possono spingere a dare la propria vita quando questo gesto risultasse un bene superiore. Ne abbiamo numerosi esempi nel Nuovo Testamento, sono atti compiuti dallo stesso Gesù che salva l’umanità dando la sua vita, da Giovanni Battista che dona la vita per urlare la scomoda verità, da Stefano che testimonia la resurrezione del suo Dio crocifisso, da tanti martiri dei primi secoli, da tanti martiri dei secoli più vicini a noi e del nostro.

Afferma, a conclusione del numero 47, Giovanni Paolo II: “Nessun uomo, tuttavia, può scegliere arbitrariamente di vivere o di morire; di tale scelta, infatti è padrone assoluto soltanto il Creatore, colui nel quale <<viviamo, ci muoviamo ed esistiamo>>. (At 17,28)”[12]

 

NON UCCIDERE, LA LEGGE SANTA DI DIO

52<<Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti>> (Mt 19,17): Vangelo e comandamento.

 

Per entrare a far parte della beatitudine eterna , nella stessa vita di Dio, è necessario osservare i comandamenti, queste sono le esplicite richieste del Maestro riportate dall’evangelista Matteo al capitolo19 del suo vangelo. Tra questi comandamenti non bisogna certo tralasciare il quinto, che ammonisce: “Non uccidere”.

La legge di Dio è una legge d’amore verso gli uomini e tra gli uomini, l’amore è parte essenziale dell’annuncio cristiano, della buona novella. La vita è dono d’amore e “Dio esige dall’uomo che la ami, la rispetti e la promuova. In tal modo il dono si fa comandamento e il comandamento è esso stesso un dono”.[13]

L’uomo è stato innalzato dal Creatore a una grande dignità, messo a governare e amministrare la terra, creato a immagine di Dio, uomo re del creato ma ancora di più “re di se stesso e in un certo senso della vita che gli è donata”.[14] Il compito dell’uomo è amministrativo, la sua azione sulla terra è quella di
ministro di un grande re che è Dio, la sua è comunque una mansione da svolgere con sapienza e amore, caratteristiche che possono e devono scaturire solamente dall’osservanza della legge divina fonte di gioia e felicità.

La vita, quindi, è un tesoro nella mani dell’uomo, ricchezza da non disperdere ma da coltivare perché produca frutti di bene, è un talento donato di cui si deve rispondere a chi l’ha regalato.

 

53– 54 – 55 – 56 – 57 <<Domanderò conto della vita dell’uomo all’uomo>> (Gn 9,5): La vita umana è sacra e inviolabile

 

Il numero 53 della Lettera enciclica che stiamo esaminando inizia con le parole molto significative e coraggiose dell’Istruzione Donum vitae: <<La vita umana è sacra perché, fin dal suo inizio, comporta “l’azione creatrice di Dio” e rimane per sempre in una relazione speciale con il Creatore, suo unico fine. Solo Dio è Signore della vita dal suo inizio alla sua fine: nessuno, in nessuna circostanza, può rivendicare a se il diritto di distruggere direttamente un essere umano innocente>>.[15] Questo si coglie dalla rivelazione di Dio sulla sacralità della vita, è una regola solenne contenuta all’interno del decalogo, precedentemente a ciò era uno dei punti fondamentali dell’Alleanza di Dio con gli uomini in seguito al diluvio purificatore.

La sacralità della vita umana è giustificata dal fatto che essa è stata creata a immagine di Dio stesso, per questo è inviolabile come lo è il suo Creatore.

Il Signore Dio è il difensore dell’innocente e la sua ira si scaglierà sull’uomo che ha calpestato la vita di un altro uomo, il Signore sarà giudice severo dell’assassino. Satana, spirito menzognero ha mascherato il male con apparenze di bene.

Il quinto comandamento assume un contenuto negativo, ma questo ammonimento spinge l’uomo alla riflessione, al non commettere questo gesto crudele, male per se stessi, male per gli altri uomini. Nella storia del popolo d’Israele la malvagità di questo gesto è andata pian piano esplicitandosi per tradursi nel messaggio di Gesù Cristo nella positività del comandamento dell’amore: “Amerai il prossimo tuo come te stesso”.

La Tradizione cristiana ha sempre gridato la verità del “non uccidere” biblico, nella Didachè si afferma: “Vi sono due vie, una della vita, e l’altra della morte; vi è una grande differenza fra di esse… Secondo precetto della dottrina: Non ucciderai… non farai perire il bambino con l’aborto né l’ucciderai dopo che è nato… La via della morte è questa:… non hanno compassione per il povero, non soffrono con il sofferente, non riconoscono il loro Creatore”.[16] Fin dall’inizio le generazioni cristiane sono state molto attente nella valutazione del comandamento “non uccidere”, questo delitto era considerato uno dei tre peccati più gravi assieme all’apostasia e all’adulterio.

Tutto ciò, afferma il papa, “non deve stupire: uccidere l’essere umano, nel quale è presente l’immagine di Dio, è peccato di particolare gravità. Solo Dio è padrone della vita!”.[17] Dopo aver ancora per una volta chiarito questa solenne verità il documento si sofferma su alcuni gesti che hanno un significato e una posizione particolare rapportati alla Legge di Dio, come ad esempio la legittima difesa. Ogni uomo ha diritto a proteggere la sua vita, anche Gesù insegna: “Ama il prossimo tuo, come te stesso”. La lettera analizza poi la questione della pena di morte, riassunto con ciò che insegna il Catechismo della Chiesa Cattolica: “Se i mezzi incruenti sono sufficienti per difendere le  vite  umane dall’aggressore  e per proteggere l’ordine pubblico e la sicurezza delle persone, l’autorità si limiterà a questi mezzi, poiché essi sono rispondenti alle condizioni concrete del bene comune e sono più conformi alla dignità della persona umana”.[18] La pena di morte è concessa solo quando per la difesa della società non ci fosse altra soluzione.

Abbiamo visto con quale cautela la Chiesa da indicazioni sulla vita dei colpevoli e con quale attenzione valuta il rispetto di ogni vita, dopo questi accorgimenti valore molto più grande assume la difesa degli innocenti, soprattutto se indifesi e deboli. L’inviolabilità della vita è un punto fermo del credo cristiano di cui si ha testimonianza nella Sacra Scrittura, nella Tradizione, e negli insegnamenti del Magistero.     Questa continuità e unanimità nell’affermare nei secoli la stessa verità è garanzia dagli errori.

Oggi più che mai l’illiceità morale e il poco rispetto per la vita umana sia al suo inizio che al suo termine ha spinto la Chiesa a intervenire come abbiamo
visto nell’introduzione a questo secondo capitolo, a più riprese con il suo magistero, attraverso le Congregazioni, gli Episcopati, i singoli Vescovi, e lo stesso Concilio Vaticano II. Il Papa afferma con decisione a questo punto, ricordando la sua autorità proveniente da quella di Pietro e dei suoi successori e in comunione con la Chiesa Cattolica: “Confermo che l’uccisione diretta e volontaria di un essere umano innocente è sempre gravemente immorale”.[19]

Nessun buon fine può, quindi, giustificare l’eliminazione di una persona umana tanto più se innocente, questo gesto risulterà sempre moralmente cattivo e illecito in quanto è grave disobbedienza alla legge morale e a Dio stesso e va contro le virtù fondamentali della giustizia e della carità.

E’ importante tutelare la vita di ogni persona tenendo sempre presente che non si tratta di una cosa di cui ci si può liberare secondo le esigenze, ma di un dono di Dio da conservare e venerare.

“In questo campo”, sottolinea il papa citando la dichiarazione sull’eutanasia della Congregazione per la Dottrina della Fede, più sopra esaminata,  “non ci sono privilegi né eccezioni per nessuno… di fronte alle esigenze morali siamo tutti assolutamente uguali.”

 

64 – 65 – 66 – 67 - <<Sono io che do la morte e faccio vivere>> (Dt 32,39): Il dramma dell’eutanasia

 

Mentre l’aborto interessa la vita al suo inizio, l’eutanasia è problema della sua fine. Nella nostra società la vita è considerata positiva sin quando può essere utile e soprattutto quando permette il piacere, il divertimento e il benessere; appare chiaro che in un ambiente saturo di questa mentalità il significato della sofferenza perde tutto il suo valore e diventa un nemico da abbattere a tutti i costi. L’uomo reputa assurdo che la morte possa portar via con se persone ancora in forma, piene di vita e di un futuro promettente, considera invece normale e quasi una liberazione il poter soprimere una vita quando essa è diventata “priva di senso perché immersa nel dolore e inesorabilmente votata ad un’ulteriore più acuta sofferenza”.[20]

L’uomo dimentico della sua provenienza divina, della sua identità fatta a immagine del creatore, si fa giudice della propria morte e chiede che questo “diritto” gli venga garantito da chi governa il mondo; queste è la richiesta assurda che oggi sale sempre più in alto in quei Paesi sviluppati dove la medicina continua a correre verso mete prima d’oggi insperate.

La tecnica medica ormai ha raggiunto livelli tanto avanzati che è capace non solo di alleviare, eliminare il dolore ma anche di prolungare la vita umana in situazioni nelle quali le funzioni biologiche dell’organismo hanno subito danni improvvisi, consentendo così anche la disponibilità di organi disponibili per i trapianti.

Questi progressi fanno avanzare sempre più la tentazione del ricorso all’eutanasia, l’impadronirsi della morte in anticipo, un processo per tanti normale e utile, ma moralmente assurdo e disumano. La cultura della morte avvolge le società “progredite” in continua ricerca di benessere, luoghi in cui la vita sofferente e la presenza degli anziani rallenta la corsa e diventa troppo pesante. Chi è inabile e “non ha più alcun valore” disturba una società con una mentalità efficientista  e va quindi eliminato.

Per poter dare un giudizio morale sull’eutanasia occorre che sia chiara la sua definizione vera e propria che l’enciclica identifica con le seguenti parole: “si deve intendere per eutanasia un’azione o un’omissione che di natura sua e nelle intenzioni procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore.”[21]

La rinuncia all’accanimento terapeutico non può essere classificata come eutanasia, se il paziente capisce che le cure apportategli sono sproporzionate ai risultati che si potrebbero sperare, che la morte si fa imminente e irrevocabile, che questa spesa ormai inutile graverebbe sui familiari può rinunciarvi. Questo non significa che si debba rinunciare a curarsi, in quanto esso è un obbligo morale, si deve però valutare se le cure sono proporzionate alle prospettive di miglioramento.

Questo modo di agire è un accettazione della condizione umana di fronte alla morte e non si può certo identificare con il suicidio o l’eutanasia.

Nelle tecniche della medicina sono in uso, per alleviare la sofferenza dei pazienti terminali, le cure palliative, nasce qui il problema se sia lecito somministrare analgesici che potrebbero accorciare la vita del malato. Ci sono persone che, in modo eroico decidono di provare sul loro corpo la sofferenza per intero, ma questo non è un comportamento che deve diventare legge, come abbiamo già visto riportando il discorso di Pio XII ai medici.

“Confermo che l’eutanasia è una grave violazione della legge di Dio, in quanto uccisione deliberata moralmente inaccettabile di una persona umana”[22] Queste le parole del pontefice dette in conformità con il Magistero e in comunione con i Vescovi della Chiesa Cattolica che assumono quindi valore d’infallibilità. Quella dell’eutanasia è una pratica che non si discosta affatto, a seconda delle circostanze, dal suicidio e dell’omicidio.

La condanna del suicidio, nel proseguire della lettera è evidente e confermata con forza, soprattutto quando esso è una scelta oggettiva; diverso risulterà invece questo atto se compiuto sotto condizionamenti psicologici, culturali e sociali.

Il suicidio è una rinuncia all’amore verso se stessi, un trascurare i doveri di giustizia e carità verso il prossimo, è un escludere Dio dalla propria vita, rifiutare un dono da lui ricevuto gratuitamente. Da condannare, naturalmente, è anche chi collabora al suicidio di un altro, nel caso di eutanasia si parla di suicidio assistito, atto che non può essere mai giustificato. Il papa cita Sant’Agostino e con le parole del vescovo d’Ippona conferma la nostra tesi: “Non è mai lecito uccidere un altro: anche se lui lo volesse, anzi se lo chiedesse perché, sospeso tra la vita e la morte, supplica di essere aiutato a liberare l’anima che lotta contro i legami del corpo e desidera distaccarsene; non è lecito neppure quando il malato non fosse più in grado di vivere”.[23]  La posizione della Chiesa si conferma ben radicata e ferma nella continuità, dando così garanzie di verità.

L’eutanasia non può essere considerata un atto di pietà verso i sofferenti, ma un alterazione di questo sentimento, una perversione dell’uomo che si rifiuta di condividere la sofferenza dei fratelli e cerca di sopprimerli per non doverne sopportare il peso. E’ questo un gesto ancora più cattivo e incomprensibile quando deciso dai parenti, coloro che dovrebbero assistere con più cura, e dai medici garanti della vita anche quando essa volge al termine.

L’eutanasia diventa un atto gravissimo quando viene praticata su pazienti che non l’hanno richiesta e non hanno mai manifestato l’intenzione di essere ammazzati. E’ assurdo che uomini, soprattutto se medici e legislatori possano decidere chi deve vivere e chi morire, ritorna la tentazione dei primi uomini, quella di diventare come Dio. Si rompe l’equilibrio naturale, si usurpa un potere a Dio, con conseguenze di morte.

La vera pietà è ben altro e promuove sempre la vita, è quella donata da Gesù Cristo e ispirata alla sua parola. Per sua natura l’uomo nella sofferenza richiede compagnia, solidarietà, sostegno nella prova, aiuto per continuare a sperare,  il cristiano poi  deve sempre fare affidamento totale alla volontà di Dio suo Creatore e Signore datore di vita, padrone della vita. La speranza della risurrezione è vittoria sulla morte sconfitta da Cristo, tutto ciò deve infondere nel credente una forza straordinaria, anche nei momenti più difficili e più vicini alla fine.

Siamo inseriti nella vita stessa di Cristo, come ci ricorda san Paolo scrivendo ai Romani. Non bisogna infine dimenticare che la sofferenza se vissuta cristianamente può portare frutti di bene, la sofferenza vissuta come partecipazione alla passione di Gesù arricchisce senz’altro di grandi meriti  l’anima del credente.




[1] Congregazione per la Dottrina della Fede, Dich. sull’eutanasia,Iura et bona (5 maggio 1980), II AAS 72 (1980)

[2] idem

[3] idem

[4] idem

[5] idem

[6] idem

[7] idem

[8] Pio XII, Discorso del 24 febbraio 1957 (AAS 49 [1957] p.147)

[9] idem

[10] idem

[11]  Lett. enc. Evangelium vitae (25 marzo 1995), 46

[12] idem 47

[13] idem 52

[14] idem 52

[15] Congregazione per la Dottrina della Fede, Istr. Circa il rispetto della vita umana nascente e la dignità della procreazione Donum vitae (22 febbraio 1987), I, 3: AAS 80 (1988)

[16] Didachè, I, 1;  II, 1-2

[17] Lett. enc. Evangelium vitae (25 marzo 1995), 55

[18] Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2267

[19] Lett. Enc. Evangelium vitae, (25 marzo 1995 ), 57

[20] idem 64

[21] idem 65

[22] idem 65

[23]  Agostino d’Ippona, Epistula 204,5: CSEL, 57, 320

 

 

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