La parola
eutanasia (eu-tanatos)
viene dal greco e significa buona, dolce morte, modo dolce di morire. Tanti sono
coloro che hanno voluto dare un interpretazione a questa parola, a questo modo
di pensare oggi molto diffuso. I vocabolari della lingua italiana ne danno più
o meno tutti la stessa interpretazione: “morte procurata con libero intervento
per abbreviare i tormenti dell’agonia o di una malattia molto dolorosa”.[1]
Esaminando i vari
studi degli ultimi anni possiamo definire l’eutanasia con più precisione,
partendo da quella che è la definizione del mondo laico.
Essa è una dolce
morte, una morte data per il bene del prossimo, è un atto libero che serve a
provocare la morte di una persona che mai potrà guarire, serve per interrompere
le sue ormai inutili sofferenze che non potranno più essere sopportate e che
condurranno esclusivamente alla morte.
Definizione questa che non può essere accettata dalla morale cattolica,
non esiste, infatti, una morte “data per il bene del prossimo”, non si
capisce cosa si voglia dire con “inutili sofferenze”.
Abbiamo tre
diversi casi di eutanasia riferiti alla volontarietà, non volontarietà o
volontarietà del sofferente. L’eutanasia può essere involontaria, questo quando il malato non decide da se stesso di
voler morire pur essendo in grado di farlo o anche quando altri con un gesto
arbitrario decidono la sua morte calpestando la sua volontà contraria. Nel
seconda specificazione su elencata si
parla
di non volontarietà, essa si
presenta quando la persona non è più in grado di intendere e volere, sono gli
altri che devono decidere per lei, in questo caso senza apparentemente andare
contro la volontà del soggetto. Il terzo è ultimo caso è
quello della
volontarietà, una
sorta di
suicidio
premeditato, è
infatti
la persona
malata che chiede di morire. Abbiamo sempre più persone che lasciano una sorta
di testamento di vita, affermando che dovendo soffrire molto o essendo affetti
da malattie incurabili danno il loro consenso affinché venga praticata
l’eutanasia.
Una definizione
di eutanasia volontaria è data da P .Singer che scrive: “l’eutanasia
volontaria è l’interruzione della vita attuata per fini di pietà e voluta da
chi soffre”.[2]
Quindi secondo questa formulazione è un azione benefica fatta da un uomo verso
se stesso, in quanto ritiene ormai la sua vita inutile, senza più nessun valore
e quindi meritevole di essere volontariamente soppressa.
Sull’eutanasia
volontaria si è discusso tanto e diverse sono le opinioni in proposito. Molti
ritengono valida la proposta solo per i malati terminali, quando il tempo ancora
da vivere si sa molto ridotto, si tratterebbe solo di anticipare un evento ormai
prossimo. Altri invece affermano che non è necessario aspettare troppo in uno
stato di sofferenza che rende indegna la vita, ma è meglio prevenire questo
momento attuando quanto prima la soppressione.
Ci sono poi da
fare altre specificazioni all’interno dell’eutanasia volontaria in quanto
anche il modo
di attuazione può variare, essa infatti può essere: attiva
o passiva. Si definisce attiva
quando vengono somministrate
sostanze tossiche che provocano la morte; passiva quando si omettono delle cure
che potrebbero sostenere la vita. Non sempre però nel secondo caso ci si può
riferire a atti di eutanasia, in quanto capita di dover rinunziare a cure
sproporzionate.
E’ difficile
districarsi in questo ultima situazione, è difficile definire basandosi sul
solo contenuto materiale, se un interruzione di terapia si possa definire
eutanasia oppure no, se essa sia una volontaria interruzione della vita ormai
indegna o un rifiuto che ricerca una modalità di vita più degna.
Per concludere
questa breve definizione di eutanasia parliamo del soggetto che da direttamente
la morte. Nell’eutanasia attiva è il medico o chi pratica l’iniezione
letale. Nei casi di assistenza al suicidio è materialmente il malato che si
toglie la vita, ma con strumenti consegnati sempre dal medico.
[1] Vocabolario Illustrato della lingua Italiana, Sansoni, 362
[2] P.Singer, Pratictical Ethics , Cambridge UP, Cambridge 1979, 127s, tr. It. Etica pratica, Liguori, Napoli 1989, 130ss
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