Dalla metà del xiii secolo inizia un processo di decadimento innescato con tutta probabilità dal coinvolgimento in un’azione bellica della quale, però, non se ne conosce il dettaglio salvo che «[…] fu Deliberato il dì 30 maggio 1257 nel Consiglio della Campana rifarsi a Jacomino e Ugolino da Guardavalle il guasto delle azioni fatte alla loro Fratta.» (Abate Galgano Bichi, Notizie storiche delle città, Fortezze, Castelli e Terre dello Stato Senese, Siena, 1710 ca. ms.).
Il Pecci riporta, senza particolari commenti, la delibera del 28 dicembre 1271 con la quale il Consiglio Generale tolse alla Fratta la residenza del Podestà. Non è dato sapere, e non sono neppure ipotizzabili, le motivazioni di tale atto, ma le conseguenze – anche se forse non dirette – sconvolsero buona parte del territorio senese per circa un ventennio.
In quel tempo era signore della Fratta Tacco di Ugolino della famiglia Pecorai, la storia non dice se fosse un tipo particolarmente rissoso, certo è che si sentiva molto sicuro di sé, tanto che, non pago delle semplici azioni banditesche a scapito dei viaggiatori che gli passavano a tiro (passatempo peraltro comune a tutti i signorotti feudali), pensò bene di attaccare un castello della Repubblica: quello di Torrita. La cosa si rivelò più difficile del previsto, anche perché Siena reagì prontamente inviando truppe. Se ci fosse stato ancora il Podestà alla Fratta forse non lo avrebbe fatto, o forse si sarebbe fermato alla prima diffida, chissà. Comunque sia, poco dopo (era il 1285) fu catturato, processato e giustiziato. La Fratta passò quindi nelle giovani mani di suo figlio Ghino il quale, ritenendo sproporzionata la condanna inflitta al padre (la Repubblica, infatti, si era servita varie volte dei servigi banditeschi di Tacco), giurò di vendicarsi. Le cronache riportano di alcuni suoi tentativi di costruire un castello tra Asinalunga e Torrita, ma sono piuttosto vaghe. Così non si sa per certo se tentò effettivamente di costruire un nuovo castello, o se piuttosto cercò solo di fortificare quello della Fratta e di Guardavalle. Si sa però che gli interventi di Siena si fecero sempre più pressanti fino a costringerlo alla fuga verso la Val d’Orcia. Seguito da un certo numero di fedelissimi, attaccò ed occupò il castello di Radicofani dando inizio al mito di Ghino di Tacco: il bandito che rubava a mercanti e banchieri, nobili e prelati, senza distinzione purché ricchi. Sulla sua testa andarono accumulandosi le condanne senesi e quelle papali, ma i numerosi tentativi fatti per arrestarlo andarono tutti a vuoto. Trovò addirittura il modo di fare un’incursione a Roma dove, in un’aula di tribunale, decapitò il giudice Benincasa (quello che gli aveva condannato il padre), e poi tornò indisturbato a Radicofani.
Continuò nella sua opera di predone fino al sequestro dell’abate di Cluny con tutto il suo seguito. L’episodio rappresentò il giro di boa della sua vita e fu quello che lo fece passare alla storia (con il racconto che ne fece il Boccaccio nel Decamerone). Ghino curò l’alto prelato il quale, per riconoscenza e per aver capito le motivazioni che avevano spinto il bandito sulla cattiva strada, e forse perché vide la possibilità di liberare lo Stato della Chiesa da un problema, lo raccomandò alla clemenza del Pontefice. Fu così che il Papa, dopo aver ricevuto il suo pentimento e l’assicurazione che non avrebbe mai più preso un’arma in mano, lo perdonò, anche a nome della Repubblica di Siena. Ghino tornò allora a Sinalunga dove, poco tempo dopo, nel tentativo di mettere pace tra due litiganti – così si dice – rimase ucciso.

LA FRATTA

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